"Quando c'era il futuro": migranti del pensiero tra saperi e differenze

20 Novembre 2013 /

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Quando c'era il futuro
Quando c'era il futuro
di Mary DiCecco
Premesso che non sono appassionata di fantascienza e non conosco la pedagogia, posso dare solo un giudizio da incompetente, una chiacchierata durante una passeggiata in collina con un’amica sull’ultimo libro letto, da inserire, al massimo, nella rubrica “impressioni di [zia] Maria” (perché settembre è il mese che io amo). Si tratta di Quando c’era il futuro di Daniele Barbieri e Raffaele Mantegazza (Franco Angeli, Milano 2013):
“La grande narrativa fantascientifica nei suoi temi più rilevanti (il rapporto con il tempo, l’ecologia, le relazioni di genere, gli esseri artificiali e robotici, il gioco delle generazioni e altri ancora) ci aiuta infatti a trattare argomenti che ritroviamo in modo potente nelle riflessioni pedagogiche. Ne nasce una vera e propria “doppia lettura” che affianca all’analisi letteraria e storica (Barbieri) una sottolineatura pedagogica (Mantegazza) nell’ottica di quella contaminazione tra generi e saperi che ci sembra sempre più strategica per il futuro delle scienze umane.”
Il libro si compone di due parti con capitoli dai titoli quasi identici (solo un paio di variazioni sul tema) in cui la parte di Barbieri mi ha dato più la suggestione di frammenti lasciati nel percorso di un cammino nello spazio. Più argomentate le tracce di Mantegazza, dove il mestiere pedagogico emerge con forza assieme alla conoscenza non superficiale di ambiti come il pensiero della differenza.

Sono una fan di E. Morin, da prima che avesse la svolta pedagogista e l’idea che l’unica possibilità di evolvere rimasta all’umanità sia la riforma dell’insegnamento (a seguito di quella del pensiero) nel senso di una metodologia didattica fondata su inter-poli-trans-disciplinarità che aiuti la formazione di una testa ben fatta capace di quel pensiero complesso adeguato alle esigenze dell’interdipendenza planetaria, un po’ mi deprime. L’unico non fa per me, oltre a contraddire il complesso. Preferisco concentrarmi sulla parte della riforma del pensiero (e la contro-riforma?) anche se ciò mi obbliga a prendere atto del fatto che siamo almeno due volte immigrati: digitali e del pensiero complesso. Che valigia ci vorrà?
A mio avviso il libro, più che ad una presentazione solitaria in cui è difficilmente identificabile il “target” e i contenuti di riferimento, può essere inserito o in un contesto dedicato all’insegnamento (ricordo che il pensiero della differenza gli ha dedicato una parte non secondaria) oppure ad un incontro creativo su quel che resta del futuro che verrà: il futuro secondo noi (originale).

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