Goliarda Sapienza ha dovuto attraversare in Italia quello che, in una lettera ad Attilio Bertolucci, definisce un vero e proprio «inferno editoriale» per riuscire a pubblicare il suo indiscusso capolavoro, L’arte della gioia, scritto tra il 1969 e il 1976. Solo nel 1994, due anni prima della sua morte, venne pubblicata da Stampa Alternativa la prima parte del romanzo, e solo nel 1998, due anni dopo la sua morte, grazie alla cura del marito Angelo Pellegrino, il romanzo completo, poi ripubblicato nel 2003, sempre in pochissimi esemplari. Ed è in uno di quei pochi esemplari dell’edizione italiana che sono incappate Waltraud Schwarze e Viviane Hamy, che tra il 2005 e il 2006 lo pubblicarono in Germania e in Francia, dove il libro ottenne un successo straordinario.
Tutto partì da lì: da quel testo stampato in 1000 copie, quasi introvabile, di cui si innamorarono due donne in due Paesi diversi. Io lo lessi e me ne innamorai a mia volta, e con me tutta la casa editrice Einaudi. Non parlavamo d’altro, in quei giorni. Decisi di andare a Roma da Angelo Pellegrino, marito di Goliarda Sapienza, che mi aprì la cassapanca di Goliarda. Conteneva il manoscritto dell’Arte della gioia e migliaia di pagine scritte di suo pugno, con la Bic nera, in una grafia febbrile, cardiaca: quelle pagine assomigliavano davvero a elettrocardiogrammi, partivano da una riga piena e a poco a poco arrivavano a mezza riga, un quarto di riga, per poi ritornare alla mezza riga e alla riga intera, disegnando figure geometriche, pezzi di clessidre. Le ho lette con una gioia che non so descrivere, ed è da lì, da quelle pagine inedite, che sono poi nati negli anni i libri successivi: il romanzo Io, Jean Gabin (2010), le due raccolte dei suoi taccuini, Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989 (2011) e La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992 (2013), e il romanzo Appuntamento a Positano (2015).
Decidemmo di pubblicare L’arte delle gioia nei Supercoralli nel 2008, per sottolinearne finalmente la rilevanza letteraria e culturale, e fu un grande successo di critica e di pubblico.
La vicenda del lungo rifiuto italiano si può ricostruire a partire dai libri Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della Gioia (Edizioni Croce) e Lettere e biglietti (La nave di Teseo). È una vicenda interessante, che meriterebbe di essere scandagliata. Sta di fatto che uno dei più grandi e pulsanti romanzi del Novecento italiano venne definito in patria «un cumulo d’iniquità», «un romanzone», letto di volta in volta come un romanzo libertino, un romanzo socialista, un romanzo criminale, un romanzo femminista, un romanzo sessantottino, e capito solo da alcuni, tra cui Enzo Siciliano e Cesare Garboli. Proprio Cesare Garboli, in una bella intervista, aveva dichiarato profeticamente: «Il tempo lavorerà a favore dei libri di Goliarda Sapienza, e questo non è un augurio, è una certezza.» Ha avuto ragione.
L’Italia di quegli anni forse non era pronta per lei e per la sua Modesta, donna libera e anticonformista nella Sicilia della prima metà del secolo. La libertà sessuale, l’amore fisico, la politica, il femminismo, la capacità di rompere convenzioni e ruoli sociali, la sfida alla cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva, l’amoralità: tutte le questioni centrali dell’Arte della gioia potevano essere dei muri difficili da scalare, per molti. È la teoria di Nathalie Castagné, traduttrice del libro in Francia, che ha dichiarato: «La Francia al contrario dell’Italia, ama molto la trasgressione. Per cui il successo enorme dell’Arte della gioia da noi si deve esattamente a tutto quello che lo ha fatto rifiutare da voi». Io sono convinta che la società letteraria degli anni Settanta in Italia non fosse pronta ad accogliere l’esuberanza di Goliarda Sapienza soprattutto per ragioni stilistiche, prima ancora che morali o ideologiche o politiche. La sua scrittura doppia, barocca e razionale, vorticosa ed esatta, poetica e orale, sempre appassionata, sempre dietro la vita, anche quando non intende ghermirla programmaticamente nella «autobiografia delle contraddizioni», era qualcosa che poteva spiazzare, e anche molto, alcuni intelletti. Ha ragione Angelo Pellegrino, suo marito e curatore della sua opera, quando scrive che, anche quando la sua scrittura non è autobiografica, «è trasfigurazione, trasposizione di tanta vita che le appartiene».
E in un certo senso si può anche dire che L’arte della gioia racconta il Novecento da un punto di vista eccentrico. Perché isolano. Perché femminile. Perché fuori da ogni possibilità di categorizzazione. Il suo stesso femminismo anticipava i tempi. Una frase come «State attenti perché di questo passo quando le donne si accorgeranno di come voi uomini di sinistra sorridete con sufficienza paternalistica ai loro discorsi, la loro vendetta sarà tremenda» sembra scritta più oggi che ieri.
Goliarda Sapienza è una scrittrice difficilmente collocabile nel panorama nazionale. Tutto è inusuale in lei, inusuale è stata la sua stessa formazione, il suo apprendistato eccentrico. Suo padre, Giuseppe Sapienza, l’avvocato dei poveri, decise di chiamarla Goliarda «perché era un nome senza santi» e le fece abbandonare la scuola dopo le elementari per paura che l’istituto scolastico la guastasse: fu istruita in casa dai suoi genitori straordinari e dai tanti fratelli, ognuno con una competenza diversa. Il suo sapere «diverso» veniva da lì, oltre che dalla vita e dal lavoro nel teatro e nel cinema, e lei lo riversò nel suo linguaggio. Mescolando storie e mondi e immagini e sguardi in un flusso ininterrottamente vitale.
Questo articolo è stato pubblicato su Einaudi