Timore, Paura, Coraggio

di Bernard Stiegler /
4 Maggio 2024 /

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Esce, in questi giorni, per i tipi di Meltemi, un nuovo volume di Bernard Stiegler, Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità. La casa editrice milanese, in collaborazione con il Gruppo di Ricerca Ippolita, sta meritoriamente proponendo al pubblico italiano la traduzione di vasta parte dell’opera del pensatore d’Oltralpe, morto suicida nel 2020. Figura tra le più originali del panorama filosofico francese, Stiegler aveva molto sperimentato nell’arco della propria vita le contraddizioni della società del nostro tempo. Venuto in contatto, nel modo più autentico, con la filosofia, durante un lungo soggiorno in carcere (cinque anni), a seguito di una serie di rapine a mano armata da lui compiute, verso la metà degli anni ’70 prese un dottorato di ricerca con la supervisione di Jacques Derrida, di cui fu, senza alcun dubbio, il più brillante e originale “allievo”. Negli anni successivi, ricoprì importanti cariche istituzionali, come direttore dell’INA e dell’IRCAM, affiancandole all’insegnamento universitario, fino alla creazione, nella campagna francese, di una propria associazione, con una scuola collegata, denominata Ars Industrialis. La sua traiettoria teoretica incontrò, fin da subito, la questione della tecnica e la sua forza metamorfica, capace di stravolgere l’esistenza individuale e sociale. Nel corso degli anni, Stiegler arrivò a elaborare un vero e proprio pensiero sistemico teso a indagare l’influenza tossica delle tecnologie digitali sui processi noetici e sulle strutture sociali. La sua farmacologia, una delle branche principali del suo sistema, non si è, però, limitata a denunciare i livelli tossicità, spesso letali, dei processi produttivi digitali della contemporaneità, ma ha, nello stesso gesto, cercato anche e sempre modelli o modalità di cura, considerando la tecnica, non un male, un agente solamente patogeno, ma un farmaco, necessitante, come ogni farmaco, di un giusto dosaggio, per l’appunto, di una appropriata farmacologia. I risultati sono, a parere di molti, quanto di più acuto e avanzato il nostro tempo abbia prodotto per cercare di orientarsi in quel fascio di problemi i cui singoli fili legano l’intero campo dell’esistente, dai campi della formazione a quelli del diritto e dei diritti, dalle politiche sociali alle deformazioni consumistiche, dall’industrializzazione della cultura alla proletarizzazione della conoscenza, dall’iperproduzione passivizzante di immagini sulle piattaforme alle questioni aperte di un’arte a venire. Stiegler, come tutti i fondatori di un nuovo campo epistemico, ha, nel corso dei decenni, creato un proprio vocabolario – naturalmente, non per un vezzo teoretico, ma a causa dell’inadeguatezza terminologica del linguaggio corrente rispetto alle nuove “entità” che l’era digitale ha introdotto nel mondo. Questo nuovo gergo filosofico crea, però, senza alcun dubbio, anche una forma di repulsione o, per lo meno, di resistenza da parte di chi non ha seguito l’evolvere e la reiterata ridefinizione, per approssimazioni continue, del significato di un tal inedito vocabolarioL’oscurità che, spesso, ne deriva rende davvero ostica la lettura. Utile, probabilmente, sarebbe la creazione di un vero e proprio lexicon che affianchi le pubblicazioni straordinarie che Meltemi sta offrendo a tutti noi. Con questo auspicio, proponiamo al lettore italiano l’apertura di  Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità.
(Federico Ferraro, dall’introduzione all’estratto, pubblicato su Antinomie)

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Friedrich Nietzsche, Robert Musil, Martin Heidegger, Félix Guattari e altri ancora, ben noti ai filosofi (in modo particolare Günther Anders, Hannah Arendt e Paul Virilio), ma anche, a ben guardare, Alfred Lotka e Arnold Toynbee: tutti questi pensatori hanno più o meno anticipato ciò che sta avvenendo ora.

Io stesso ho tentato di inquadrare il presente come ciò che, osservato più da vicino, non avviene davvero. L’ho fatto parlando di assenza di epoca, ed esplorando la relazione che si è stabilita tra ciò che si chiama ai giorni nostri la rottura [scissione] e le diverse forme della follia contemporanea – dalla follia che si manifesta in comportamenti “stra-ordinari”, conosciuti e riconosciuti come “folli” di per sé, fino a quella che, in un numero tematico della rivista “Ésprit” avesse per titolo Aux bords de la folie, Michaël Foessel aveva chiamato “la follia ordinaria del potere”.

Questa follia, di cui si può temere tutto, che in essa porta il peggio, e che perciò fa paura, noi dobbiamo temerla effettivamente, ma dobbiamo anche e soprattutto osservarla e prendercene cura – fatto che richiede il “coraggio della verità”, per come esso costituisce ciò che i Greci, e dopo di loro Foucault, chiamavano parresia. Tutto questo appartiene a ciò che fu chiamato nel 2004 da Roger Keyes l’era della post-verità – per certi versi anticipata da Musil.

Donald Trump – in un certo qual modo anticipato da Alfred Jarry – è diventato presidente praticando un simulacro di parresia. È per questo che una reinterpretazione totale della storia della verità è richiesta nella attuale assenza di epoca – se si vuole almeno prendersi cura della follia che deriva da una tale assenza, che significa prima di tutto: imparare qualcosa da questa follia, nelle forme più diverse.

Questo apprendimento richiede coraggio. Il coraggio è ciò che teme un pericolo senza aver paura: senza cioè provare a sfuggirgli, ma combattendolo in quanto tale. Questo combattimento in quanto tale – e a proposito di questo “in quanto tale”, per come esso definirebbe il pensiero, dobbiamo tornare a Dello spirito. Heidegger e la questione – è ciò che, dopo l’11 settembre 2001, ho chiamato la farmacologia.

Il coraggio di questo pensiero che cura è proprio quello della parresia. Il parresiasta può sempre essere accusato lui stesso di essere folle. E può esserlo perché effettivamente lo è. Tale è ciò che bisogna imparare dalla follia che si pretende curare. In ogni pensiero c’è qualcosa di folle e questo appartiene alla stra-ordinarietà di ciò che dà a pensare. Questa stra-ordinarietà è quella che, in Mécréance et discrédit, ho chiamato le consistenze – dove consistono le cose stra-ordinarie.

In Problema XXX, intitolato anche L’uomo di genio e la melanconia, (pseudo-)Aristotele chiama questa follia melanconia, dopo aver appena accennato alla questione intorno a considerazioni sul vino – che è un pharmakon. E ho più volte provato a mostrare perché questa follia è ciò che deriva da una intermittenza delle anime noetiche e dalla loro oscillazione, in modo sempre più o meno bipolare tra progressione (elevazione) e regressione (caduta). Nel linguaggio di Canguilhem, bisogna parlare delle anime noetiche oscillanti così tra due poli di malattia e di cura, costituendo ciò che Simondon chiama diade indefinita. E si tratta per Canguilhem di una questione non solo psicologica, ma fisiologica: “Il potere e la tentazione di ammalarsi sono una caratteristica essenziale della fisiologia umana”.

Quanto alla follia ordinaria, essa necessita di analisi specifiche nel senso che diventa, ai nostri giorni, uno dei principali fattori generici di questa follia stra-ordinaria che è il pensiero stesso, tale che, nella sua malinconia, esso “non pensa ancora” – né dunque cura.

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