di Maurizio Matteuzzi, Università di Bologna
Difficile capire la mente umana, quasi impossibile, almeno allo stato attuale della ricerca. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, dopo l’adesione al regno d’Italia, i bolognesi trovarono insufficiente per la mobilità l’antichissima croce romana, quella costituita dalla via Emilia (via Ugo Bassi e via Rizzoli attuali), e via Galliera. E fu così costruita via Indipendenza, terminata nel 1890, strada larga e pensata per l’accesso diretto alla piazza, al centro, a partire da nord, dalla stazione ad esempio. Fu sconvolta la situazione in prossimità della via Irnerio, furono cancellate viuzze, si creò un collegamento con la corte dei miracoli rappresentata dalla attuale piazza VIII agosto, quella dei cavadenti e della “giostra ed Sandrein”. E sparì la piazza antistante la cattedrale di San Pietro, assorbita dalla nuova, grande strada.
Questi gli aspetti storici. Gli aspetti psicologici sono assai più complessi. Ai nostri politici, demagoghi post-comunisti, pre-comunisti, para-comunisti, sostanzialmente democristiani, bastino a riprova le sperticate lodi di CL, (non sapremmo più come individuarli) quella strada non è mai andata giù. E’ stata una ossessione, una scheggia nelle carni, come direbbe Kierkegaard: ogni assessore da tempo immemorabile ha avuto come impulso irrefrenabile quella di chiuderla, o almeno limitarla, riempirla di mangiafuoco o di fioriere, insomma, renderla impercorribile: cosa c’è di più borghese di una strada larga, facilmente percorribile, e che porta direttamente al cuore della città? L?assillo non lascia tregua: ti rovina la vita, ti sveglia alla notte. Cavolo, una strada, larga otto corsie, che porta direttamente in centro? Ma siamo matti?
Difficile un’analisi psicologica; o psichiatrica. Ma tant’è. Con le rigorose limitazioni al traffico privato, con le indefinite limitazioni, riepilogate in cartelli lunghissimi e incomprensibili, pieni di “eccetto” e di “eccetto dell’eccetto”, in modo che ogni cartello, anche per un parlante nativo di italiano fosse incomprensibile, si sperava che l’acribia fosse sazia. Viceversa: oggi c’è chi ha inventato i “Tdays”. Sexy come etichetta, prona e servile alla imperante anglofilia: noi siamo una colonia, ma seria.
La situazione che ne deriva è paradossale, quasi incredibile. E, si badi bene, qui non è questione di essere più o meno favorevoli o contrari alle pedonalizzazioni. Probabilmente nessuno avrebbe sofferto della pedonalizzazione della parte centrale di via Galliera, una delle vie più belle di Bologna, e di tutta la zona fino a via Marconi. Ma, cavolo, bisogna pedonalizzare la “T”, cioè il cuore vivo della città: ucciderla, altroché.
Il punto è che oltre il 70% dei mezzi pubblici passa per la “T”; per via Indipendenza o per l’asse Ugo Bassi-Rizzoli. Vogliamo bloccare la città? E perché no.
Così la città viene ingessata nei suoi mezzi pubblici, che fanno giri tortuosamente assurdi, partono da fermate improbabili e mal segnalate, diventano impraticabili. Poi per salvare la faccia di fronte alle molte rimostranze dei cittadini si introduce una “navetta”, che girando a vanvera in quasi un’ora dalla stazione arriva in piazza Maggiore. Una città paralizzata, priva di mezzi pubblici, i bisonti da diciotto metri accodati al di fuori delle mura, inutili e vuoti, surreali. Le fermate per accedervi a mezzo chilometro dal loro normale percorso, i tempi di percorrenza farseschi. Meglio a piedi, più rapido…
Molti riprendono a usare l’auto: la città è priva di un servizio pubblico, al di là dei proclami. Anziani, disabili? Che si arrangino, che cosa ce ne facciamo in centro?
E tutto questo per ottenere cosa? C’è chi pensa che i bolognesi non abbiano mai visto il Nettuno? E anche i (prevalenti) extracomunitari, dopo che l’avranno visto due o tre o dieci volte, avranno ancora rinnovata curiosità? Il gigante è sempre quello, da mezzo secolo…
Come dicevamo, darsi una spiegazione psicologica è quasi impossibile, se non fondandosi sulla celebre affermazione: “Due cose si dice che sono infinite, l’universo e la stupidità umana; solo della seconda sono sicuro” – Albert Einstein.