Il testo che segue è l’introduzione all’ebook È come sangue e non va via – 2 agosto 1980: la strage, le vittime e la memoria uscito per la rivista I Siciliani Giovani diretta da Riccardo Orioles. Dal sito della rivista il testo è scaricabile gratuitamente in versione completa.
di Antonella Beccaria
Questo è un Paese in cui non sempre le vittime, neanche quelle di un reato imprescrittibile come una strage, sono persone da tutelare. Il 14 aprile 2012 la sentenza del processo di secondo grado per la bomba di piazza della Loggia, esplosa a Brescia il 28 maggio 1974, ha condannato le parti civili al pagamento delle spese processuali. Una simile disposizione, pur conforme a quanto previsto dai codici, è apparsa discutibile quanto meno sul piano morale e qualche giorno dopo è arrivato l’annuncio che il governo Monti si sarebbe fatto carico delle spese. Analogamente, nel 2005 la corte di Cassazione aveva confermato l’assoluzione per gli imputati dell’attentato milanese di piazza Fontana, la madre di tutte stragi, avvenuto il 12 dicembre 1969, imputando le spese processuali ai familiari delle vittime.
Tuttavia, al di là di quanto si stabilisce in un’aula di tribunale, è al Paese che si deve guardare. E ciò che si vede è che, ancora prima della tutela e del rispetto, a mancare è un ricordo condiviso, collettivo, corale verso chi non sopravvisse a quella lunghissima stagione che va sotto il nome di anni di piombo. A proposito della citata bomba di piazza della Loggia ci fu chi scrisse: “Le vittime della strage di Brescia sono state trattate, in punto di raccolta e di conservazione delle prove oggettive, con meno attenzione e meno pietà di un ubriaco accoltellato in una rissa di osteria”. Queste parole sono di un giudice istruttore, Giovanni Arcai, che venne silurato quando il figlio Andrea fu accusato e poi assolto dall’imputazione di concorso nell’eccidio del 1974.
Anche quella di cui si parla in questo libro è una ferita della storia. Ma lo scopo, questa volta, non è raccontare le vittime delle istituzioni, ma le persone comuni – erano ottantacinque – che il 2 agosto 1980 entrarono in una stazione per non uscirne più. E raccontare anche dei duecento feriti che si sono rialzati conservando a vita, dentro e fuori, le cicatrici impresse da quei fatti. Come elemento di partenza, si prenda uno dei capi di imputazione formulati a carico dei sospetti autori della strage di Bologna, in cui si legge: “cagionavano a oltre centocinquanta persone lesioni multiple […], aggravate dalla sussistenza di postumi permanenti ed esposizione a pericolo di vita”.
Ma le formule giudiziarie non bastano e non bastano nemmeno i numeri. Questi ultimi rappresentano una dimensione quantitativa per affermare che la mattanza di Bologna fu la più grave nell’Europa postbellica fino agli attacchi terroristici ai treni pendolari di Madrid, l’11 marzo 2004, che fecero quasi duecento morti e oltre 1800 feriti. Certo, sono elementi utili, anzi elementi da cui non si può prescindere se ci si vuole addentrare nella storia di un attentato. Ma non sono sufficienti a comprendere fino in fondo la portata devastante, anche su un piano microsociale, intimo e personale, che un evento del genere reca con sé.
Le vittime trasformate in numeri perdono tridimensionalità. Sono un bilancio certificato dalle fonti ufficiali, sono feretri che compaiono in immagini lontane di funerali di Stato oppure di esequie private nei casi in cui i parenti hanno risposto alle istituzioni che si tenessero pure gonfaloni e soldi, magari usando questi ultimi per trovare i colpevoli di un dramma che, nella migliore delle ipotesi, non erano state in grado di evitare.
Coloro che sono morti a Bologna alle 10.25 del 2 agosto 1980 non erano solo numeri. Erano persone che si trovavano nella sala d’aspetto di seconda classe in attesa di un altro pezzo della propria vita. Una vita che avrebbe dovuto continuare. Alcuni sostavano sul primo binario mentre altri stavano imboccando il sottopassaggio per raggiungere le banchine da cui partire o su cui riabbracciare qualcuno che arrivava. Erano un silenzioso intrecciarsi di pensieri, respiri, sorrisi o litigi.
Qualcuno, quella mattina, si sarebbe riconciliato con i parenti dopo attriti vecchi di anni e qualcun altro muoveva un passo ulteriore nel progettare un futuro che sembrava a portata di mano, quasi sicuro. O almeno non minacciato da una bomba a elevatissimo potenziale dentro una valigia lasciata appositamente su un tavolino a quaranta centimetri da terra per aumentarne la carica omicida. Ma dopo l’esplosione non c’è stato più nulla.
Certo, il periodo della strategia della tensione aveva insegnato che tanto tranquilli non c’era da stare, neanche nella città e nella regione considerate laboratorio d’Italia, già colpite il 4 agosto 1974 a San Benedetto di Val di Sambro quando un ordigno uccise dodici passeggeri a bordo dell’Espresso Roma-Brennero. Bologna era il luogo in cui il partito comunista aveva sempre gestito le istituzioni locali, gli asili nido erano un esempio da studiare e da esportare all’estero e l’arte e lo spettacolo erano diventati materia di studio universitario. Ma era anche la città nella quale un ministro dell’Interno – un ministro il cui cognome era stato storpiato usando come iniziale la lettera “k” – aveva mandato i carri armati dicendo, molti anni più tardi, di aver progettato una repressione delle dissidenze ben più feroce dopo aver allertato i corpi speciali delle forze armate.
Non è la retorica del Settantasette, della commemorazione dell’omicidio di Francesco Lorusso, avvenuto l’11 marzo di quell’anno in via Mascarella. Non è nemmeno la nostalgia della “fantasia al potere” o della specialità di Bologna rispetto alle altre città. Sono “evidenze”, le chiamerebbero gli investigatori, di una morsa che si strinse intorno a un centro che pur viveva i problemi di molte altre città, tra violenza ed eroina, tra delitti misteriosi e il riflusso sempre più incombente, nonostante si continuasse a pensare – forse con molta più radicalità che in seguito – che “un altro mondo è possibile”.
Chi morì alla stazione di Bologna c’entrava e non c’entrava con tutto questo. Certo quasi tutti leggevano i giornali, ma in tanti avranno pensato che i ragazzini delle P38 fossero così distanti da appartenere a un altro universo. E a un altro universo sembravano appartenere anche le gambizzazioni, i processi, Ordine Nuovo, i Nar, i servizi segreti deviati solo in apparenza, i magistrati uccisi e le vittime di altre stragi. Non pensi che possa capitare anche a te. Non crederesti mai che un pezzo di storia pilotato da lontano ti passi sopra e ti faccia a pezzi, trasformandoti in brandelli di vita da aule di giustizia in cui le offese alla memoria e a chi resta hanno molto in comune con quelle dei processi per stupro.
E poi c’è il discorso della certezza della pena. Che si tratti di vittime di mafia o di atti terroristici, morti sul lavoro o pedoni falciati da auto pirata, donne massacrate dalle mani falsamente amorose di un ex o corpi trascinati da un motorino usato per uno scippo, chi resta guarda alla giustizia in attesa di un risarcimento morale ancor prima che materiale.
Alle condanne, in sede giudiziaria, si arriva non sempre, ma spesso, per fortuna. Altrettanto spesso può darsi che gli anni di carcere comminati siano inferiori rispetto alle aspettative delle parti offese, come in alcuni casi di uxoricidio. Ma la colpa viene riconosciuta e la pena inflitta. In altri casi i giudici pronunciano una condanna di “fine pena mai”. Ergastolo. Eppure gli assassini escono e riprendono la vita interrotta dai loro crimini. Questo è corretto, in base al principio del recupero del reo e del suo reinserimento della società. Tuttavia i familiari delle vittime non possono.
Di certo non possono coloro che decidono di impegnarsi per conservare la memoria. Il che, badate, significa riaprire una ferita tutte le volte che si parla di quanto è accaduto. Il lutto, la sua elaborazione, la ripresa di una vita normale vengono di continuo bersagliati dal ricordo, dalla ricostruzione dei fatti, dai dettagli di un evento che non ha lasciato nemmeno brandelli di vestiti, pezzi di dentiere, borsette squarciate. Questi oggetti sono divenuti reperti e, come tali, restano a disposizione dell’autorità giudiziaria. Poi, quando l’iter finisce, quando la Corte di Cassazione pronuncia la sentenza definitiva, non servono più e vengono distrutti, smaltiti, perché ormai inutili.
Poco importa se questi oggetti parlano ancora oggi, se dovrebbero essere conservati in un luogo aperto a tutti perché continuino a raccontare la loro storia ben oltre le statistiche. Se c’è chi ritiene superfluo conservarli, provi ad andare al Museo per la Memoria di Ustica, nella prima periferia di Bologna. E provi a osservare un singolo finestrino crepato, un frammento di rottame ritorto, lo scheletro di uno dei sedili che si intravvedono all’interno. Impossibile non portarsi a casa un pezzo della storia di quelle ottantuno persone che salirono sul Dc9 dell’Itavia, abbattuto il 27 giugno 1980 nel corso di un’azione di guerra (con buona pace di chi etichetta come fantapolitica questa ricostruzione).
Torniamo però al 2 agosto 1980. Torniamo alle vittime. Nelle pagine dell’ebook racconteremo dei morti perché non sono e non devono essere fantasmi da conteggiare. Sono protagonisti di una storia e della Storia, che meritano di ritrovare la loro identità e, appunto, la loro tridimensionalità. E parleremo della reazione di una città che ha concesso allo sgomento solo qualche frazione di minuto. Nemmeno il tempo di far posare la coltre di polvere, e Bologna era un tutt’uno di braccia affondate nei calcinacci, mani a sorreggere barelle improvvisate, professioni stravolte, con autisti di autobus trasformati in conducenti di provvidenziali autolettighe tirate su in un batter d’occhio. Tutto questo perché alla violenza corrisponde una reazione. Ed è una reazione civile.