"Fare cassa" a Ferrara: il Comune vende azioni Hera e in regione viene imitato anche da altri centri

5 Giugno 2013 /

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dei Comitati Acqua Bene Comune dell’Emilia Romagna
Il Comune di Ferrara ha deciso di vendere una parte delle azioni di HERA (non vincolate dal patto di sindacato), e l’assessore Luigi Marattin ha annunciato l’intenzione di venderne altre nella seconda metà del 2014 alla scadenza del patto di sindacato. Un orientamento comune ad altre amministrazioni del territorio emiliano-romagnolo, tutte necessitate, così dicono, dal bisogno di “fare cassa”.
Bisogna innanzitutto partire da una semplice affermazione: si tratta di una operazione di privatizzazione del patrimonio pubblico, in netto contrasto con il pronunciamento dei cittadini al Referendum del giugno 2011. Il combinato di misure come l’assoggettamento al patto di stabilità, la privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, l’accentramento delle risorse fiscali allo Stato, la consegna del debito dei Comuni alle banche ed al sistema finanziario, creano una situazione che le Amministrazioni locali non sono più in grado di sostenere. Ma non per questo le amministrazioni possono sentirsi autorizzate a scegliere la scorciatoia “più facile”: alienare il patrimonio pubblico, privatizzare i servizi pubblici locali, l’assistenza, la scuola, la sanità, il territorio.
Si affronta quindi il problema della crisi finanziaria dei Comuni non a partire dalle cause, da un audit pubblico sulla natura del debito, ma con un atteggiamento supino, di adattamento, funzionale proprio agli obiettivi di chi ha voluto creare questa situazione per favorire le privatizzazioni. I partiti che governano in sede locale, sono gli stessi che in parlamento approvano i tagli, la costituzionalizzazione del “pareggio di bilancio”, e le conseguenti politiche di privatizzazione.

Sarebbe necessario che i sindaci ed i consigli comunali sviluppassero iniziative concertate per agire sulle cause, contribuendo alla costruzione di un movimento contro questi provvedimenti. Ma venendo alla questione specifica delle azioni di HERA, la decisione di vendere mette in luce alcune verità inequivocabili:

  • 1. i comuni pur con la maggioranza delle azioni, controllano nulla (o poco) della gestione dell’azienda, il management decide tutto in riferimento alla missione principale di una SPA quotata in borsa – la realizzazione di profitti – e nulla conta che la maggior parte di essi sia prodotta dalla gestione in monopolio dei servizi, attraverso le bollette che pagano i cittadini.
  • 2. Le stesse agenzie di controllo come ATERSIR non possono competere con i gestori, per i limiti di forze di cui dispongono, ma anche per la oggettiva asimmetria informativa fra loro e le aziende.
  • 3. La gestione di HERA è sempre più lontana dal territorio, e agisce per “linee di business”, il territorio, gli impianti e gli interessi ambientali e sociali si deteriorano costantemente e gli investimenti vengono ridotti guardando l’andamento del debito dell’azienda e la massimizzazione dei profitti.
  • 4. Il cosiddetto conflitto di interessi che oggi viene scoperto, era noto fin dalla decisione di quotare in borsa HERA ed è strettamente legato alla natura privatistica dell’azienda.
  • 5. Appare chiaro il significato della modifica statutaria che permette a Cassa Depositi e Prestiti di entrare come “socio pubblico” per garantire il 51%, rilevando le quote dei comuni, destinati a diventare minoritari nella proprietà di HERA.

Alla luce di queste questioni, sugli stessi affidamenti diretti del servizio idrico e non solo, a SPA quotate e con un bacino di riferimento pluriregionale, grava il sospetto di illegittimità rispetto alle regole europee, per le quali gli affidamenti diretti (in-house) necessitano di requisiti indispensabili come la totale proprietà pubblica, il controllo analogo, l’attività svolta prevalentemente per gli enti locali di riferimento.
Si comprende che è in atto un processo di privatizzazione non dichiarato – si continua a dire che HERA è pubblica – strisciante, ma sempre più accelerato. Ed appare chiaro che molti Comuni non riescono e non vogliono assumere fino in fondo la responsabilità della gestione servizi pubblici locali, favorendo la loro alienazione. I cittadini vengono espropriati a vantaggio delle corporazioni private e del sistema bancario e finanziario. Si continua sciaguratamente come se non ci fosse stato il pronunciamento di 27 milioni di cittadini italiani.
Alcuni Comuni e Province della Regione si stanno muovendo invece nella prospettiva della ripubblicizzazione, questo processo va sostenuto ed orientato verso vere gestioni pubbliche e partecipate. I Comitati Acqua Bene Comune si batteranno per produrre un generale orientamento di ripubblicizzazione; unica risposta di fronte al fallimento evidente di una gestione privatistica che mette l’ambiente, la tutela della risorsa idrica, la tenuta sociale, il lavoro e più in generale il territorio e la democrazia all’ultimo posto delle priorità di gestione.
Chiediamo quindi ai Comuni di riappropriarsi del proprio ruolo, e di rinunciare alla decisione di vendere il patrimonio e tornando ad essere i soggetti del governo democratico del territorio e dei servizi pubblici, in nome della rappresentanza dei cittadini di oggi e soprattutto di domani, e delle loro comunità.

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