Magnitudo Emilia è un libro di parole e foto che racconta il dopo terremoto. Anche quello degli immigrati. Un’opera per finanziare la ricostruzione. In queste pagine si trovano le storie e le facce di chi, pochi mesi fa, in Emilia, ha visto la propria vita stravolta in un istante e portata in una tenda. Tra le tante raccolte dagli autori – Annalisa Vandelli (scrittrice) e Luigi Ottani (fotoreporter), emiliani entrambi – alcune riguardano degli immigrati. Magnitudo Emilia è stato pubblicato dalla tipolitografia Salvioli, che in parte continua a lavorare in un container. Il volume ha anche l’obiettivo di raccogliere fondi: una quota fissa di 2 euro a copia è destinata alla ricostruzione. Info qui: www.magnitudoemilia.it Una mostra delle foto è allestita presso lo spazio espositivo della Galleria MiES di Modena aperta fino al 24 dicembre 2012.
Adbùl tenda 30
Malek è nata in Italia. Suo papà ci vive da ventiquattro anni. Viene dalla Tunisia. Si chiama Abdùl e si sta riposando all’ombra di fronte alla casa di don Zeno, a San Giacomo Roncole, insieme ai tre figli. In tenda, a quest’ora, non si resiste per il caldo. La chiesa alle loro spalle è squarciata. Malek ha chiesto al padre di rientrare in casa per recuperare i suoi disegni, ma è inagibile. Allora le passo il mio blocco per gli appunti e le chiedo di farmelo ora, un disegno. Rappresenta il terremoto. Le case sono tremanti, la terra crepata e il sole ride.
Malek dice: «Il sole lo faccio felice perché nel cielo non si sente niente di quello che capita per terra».
Ero in Tunisia circa un anno fa, nel campo profughi di Choucha, al confine con la Libia. Era il tempo della rivoluzione. Nel campo, in pieno deserto, convivevano persone di varia origine, con fatiche e privazioni. Ognuno con dentro una storia difficile, roba da selezione della specie. Tutti avevano in comune la fuga. Sudanesi, Etiopici, Eritrei, Nigeriani, Somali, Congolesi… tutti a scappare da guerre, dittature, fame, crolli… ciascuno con la disperazione aggrappata ai fianchi e ancora la forza di un balzo verso la vita. Mi colpì la tenacia, l’attaccamento a quella vita che, a volte, ci sembra solo una monotona ripetizione, un accatastarsi dei giorni. M’impressiona oggi, qui, nella Bassa, entrare in una tendopoli dove si parla il mio dialetto e dove incontro un tunisino con la cadenza modenese. Sentirlo affermare che lui si sente di Mirandola. Il terremoto ha shakerato tutto.
Straniero
Assane Mboup, concordiese d’elezione, racconta: «Sono entrato in Italia nel 1989, con la Legge Martelli, quando ancora era facile ed eravamo pochi. La gente all’inizio aveva paura di noi, perché siamo piuttosto neri, non erano abituati, ma adesso va bene. Qui a Concordia, ci hanno accolti, aiutati e ho potuto portare anche i miei familiari. Lavoro nel bio-medicale. Siamo gli unici di origine senegalese in questa tendopoli. Abitavamo in centro storico, vicino al Municipio. Il nigeriano del secondo piano si è buttato dalla finestra per la paura».
Assane è seduto sul letto a castello, insieme alla moglie e ai due figli. È curioso come la storia dell’uomo cambi colore di pelle, cammini su piedi di continenti diversi. Quale nostro antenato si sarebbe mai potuto immaginare che la casa, che stava costruendo di fianco al Municipio, sarebbe stata abitata da africani? L’immaginario era quello della capanna, della savana e del leone. Quale capo tribù avrebbe mai immaginato i suoi discendenti in centro storico a Concordia, andare a teatro e in farmacia? Che bella fantasia ha la creazione. Quanto supera i limiti dell’uomo.
Emilia pakistana
Nel dicembre 2011 a Islamabad ho conosciuto un uomo. Si chiama Paul Bhatti e parla perfettamente l’italiano, perché ha vissuto a Vicenza da quando aveva quattordici anni, ha studiato in Italia e fino a un anno e mezzo fa ha lavorato come medico condotto a Padova. Una ragione tutt’altro che banale l’ha fatto rientrare nel suo paese d’origine: il brutale assassinio del fratello, Shahbaz Bhatti, Ministro delle Minoranze, cristiano e fervente propugnatore del dialogo interreligioso in una Repubblica Islamica.
Paul ha sostituito Shahbaz, per portare avanti la sua idea di libertà, la tutela delle minoranze e degli esclusi. Paul sa benissimo quello che rischia, ma andare avanti è troppo importante. E tra i ricordi che conservo con più determinazione c’è il Natale celebrato in carcere, lì a Rawalpindi, con lui e i cristiani reclusi. Non si dimentica la gioia quando diventa così solida da poter essere tagliata a fette e poi sciogliersi in lacrime. Non dimentico i canti bassi di questi uomini perseguitati e oppressi, seduti a terra, alcuni coi tamburi tra le gambe. Non dimentico Paul, elegante e fiero, carne viva del fratello, sua voce e sue gambe.
E allora penso a che incrocio ben riuscito di culture rappresenti Paul Bhatti, il Pakitaliano Paul Bhatti. Penso alle migliaia di famiglie emiliane di origine pakistana che stanno oggi vivendo questo terremoto in una terra che doveva essere l’approdo di grandi speranze e che invece ci tocca vivere nel bene e nel male, come tutte le altre. Chissà tra loro quanti Paul Bhatti ci saranno? In tanti si sono messi in aiuto anche degli emiliani “indigeni”, varcando ancora una volta la linea di confine e cercando i punti in comune, non le differenze. Nel suo testamento spirituale, Shahbaz Bhatti ha profeticamente scritto:
Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti.
Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna.
La Confederazione Islamica Italiana ha concorso nel portare aiuti, allestendo tende e assistendo gli sfollati a Camposanto. Affermare che non ci siano state anche tensioni e contrasti tra comunità diverse sarebbe mentire, ma guardare alle molle positive e raccontarle è elevare lo spirito fino in cielo, dove gli uomini i confini li hanno tracciati un po’ di meno e da dove forse ora Shahbaz Bhatti guarda il suo popolo in cammino.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione