Michela Lucenti e la drammaturgia della carne

di Silvia Napoli /
5 Novembre 2022 /

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Carne, è pur sempre una parola molto molto impegnativa. Diciamo anche molto discussa e discutibile oggi come oggi. Forse tutto sommato negletta e rinnegata nelle sue diverse accezioni.

Rimane un territorio tutto da esplorare ed aperto alla sperimentazione anche in teatro, ora che si è spento un certo fervore visual e ipertecnologico immanente alle scene nel recente passato.

Carne, focus di drammaturgia fisica è un progetto a cura di Michela Lucenti, ovvero Balletto Civile, in collaborazione con Elisa Guzzo Vaccarino. Un progetto praticamente lungo un anno, iniziato nel maggio 2022 e destinato a chiusura nell’aprile 2023. Questa sottolineatura deve subito allertarci sul fatto che stiamo parlando di un impegno sulla materialità complessiva della scena, su un corpo come veicolo recettore, espressivo e ritrasmettitore di contenuti e relazioni, non involucro, non contenitore, non agente del simbolico e del sovrannaturale. Non stiamo parlando qui, né di purezza, né di corruzione, di una contrapposizione nei confronti della spiritualità, ma di un corpo di infinita inimmaginabile estensione oltre i suoi stessi contorni, in quanto portavoce di istanze e testimonianze affidate al suono, alla voce, alla parola proclamata.

Le note di sala si premurano di informarci che, le tappe di fine 2022 prendono le mosse dal festival Vie, nell’ambito del quale abbiamo visto il bellissimo Karnival ad opera di Balletto Civile in Arena e poi diverse altre date tra Modena e Cesena. Gli spettatori avranno modo di confrontarsi con performances e incontri ad opera di artisti e compagnie internazionali quali Lorena Nogal, Marcos Morau e La Veronal, Bouchra Ouizguen, Aziz El Youssoufi, Josef Nadj, Angelin Preljocaj, e Rachid Ouramdane.

Gli artisti e compagnie italiane coinvolte sono: Marco d’Agostin, Maurizio Camilli, Bluemotion, Francesca Zaccaria, Aristide Rontini, Mattia Cason, Manuela Capece e Davide Doro, Claudia Castellucci, Societas, Sofia Nappi, Lara Guidetti e Sanpapiè. Oltre naturalmente alla sunnominata Michela Lucenti e a Balletto Civile. Balletto civile ci sembra del resto una denominazione programmatica, rispetto agli intenti assolutamente attivistici di questa straordinaria artista e coreografa, che abbiamo imparato ad amare già ai tempi di Impasto, la originale compagine di teatro danza fondata insieme ad Alessandro Berti.

All’epoca di danza e specialmente di teatrodanza a Bologna se ne vedeva davvero poco e non era semplice trovare letteralmente spazio. Di qui anche la decisione di lasciare la città, per una nuova fondazione a Reggio Emilia, un po’ la casa della danza nella nostra regione, allora in tandem con Ferrara, che fungeva da vetrina per diverse esperienze nordeuropee.

Da allora un po’ di acqua è passata sotto i ponti, ma non si è certo spenta la vena sperimentatrice di Lucenti. Attenta, rigorosa ed erratica rispetto ai canoni nello stesso tempo.

Perché, forse, l’urgenza della carne è proprio quella conoscitiva e in questo senso, il radicato bisogno di conoscenza e compenetrazione sono il peculiare segno pedadogico di Lucenti e della sua compagnia. Una fame di verità attraversa da sempre la poetica di Lucenti e, per fortuna, come sappiamo, ci sono casi in cui è bene continuare ad essere affamati sempre e soprattutto a non dare per scontato nulla, tantomeno le verità che piu ci appaiono definitive.

Lucenti, non per caso, intende il percorso artistico come un divertere, uno scartare, da ciò che ci si aspetta o viene comunemente considerato come opportuno o corretto politicamente.

Non si dichiara interessata a quel tipo di critica che potrebbe annoverarti tra i suoi sovvertitori preferiti. Importante è non fare distinzioni tra danza con un plus di parola e danzatori professionisti e un altro tipo di teatro con danza. inoltre non vorrei, chiosa, etichette come teatro arte e salute o teatro sociale, perché non è cosi che mi pongo e non voglio sentirmi dire quando e quanto sarei sovversiva, facendo cose un po’ fuori dai canoni. Parimenti posso avvalermi di competenze irregolari, esemplari perché inclassificabili, come non abili o psichiatrici o non professionisti, senza per questo voler definire o recintarmi.

Questi discorsi, acquistano pregnanza e concretezza assistendo a Karnival, un lavoro luminoso e geometrico nella precisione dei gesti, che pure non ha nulla del teatro danza di matrice realista cui normalmente ci riferiamo. Ma neppure dell’astrattezza minimalista di altre produzioni di ricerca.

Il carnevale viene qui inteso come dispositivo rivelatorio della centralità della carne. intesa come cartina al tornasole del travestimento sociale, eppure si pone come narrazione seriale di episodi che sembrano usciti da qualche fantasmatico hotel di Wes Anderson.

I costumi orientaleggiano, i colori saturi eppure svuotati del senso pop comunemente inteso per abbracciarne uno più storicamente ricercato e motivato, tuttavia ci trasportano nel mondo non per caso esoterico della apparente protagonista. Uno straordinario ballet mecanicque, ma anche no, per via del soffio vitale che lo pervade, in cui nessuno dei personaggi, in cerca del suo momento di verità, addobbato con costumi che sembrano usciti da un sogno lisergico di Valentina o Corto Maltese rinuncia al suo spurio momento sia di protagonismo che interazione con gli altri. Esotismo, tableaux vivants dinamizzati, estetica di cartiglio o tarocco pubblicitario, tutto rende Karnival uno spettacolo speciale, come uscito da un vecchio giornale da barbiere profumato eppure autentico come le pulsioni del nostro inconscio.

La vità forse è fatta della materia dei sogni ma, attenzione, questa materia dei sogni è tutta carne e nervi scoperti e precisione del compimento. Questa la verità che Karnival ci ha consegnato con una prova di grande godibilità, di necessità impeccabile del gesto, che allude al mistero del nostro transitare nel mondo, in fondo chiamati tutti ad interpretare un ruolo travestiti da esploratori di noi stessi, forse memorie inconsce di un altro luogo, di un altro pianeta, forse frutto del nostro stesso immaginarci e trasfigurarci.

Per questo anche il soffio della parola, il nostro esprimerci comprendere materie fluide e gassose, fa parte di un nostro esserci e appartenerci in quanto ospiti dell’hotel Universo.

Una prova di eleganza, costruzione accurata e profondità a partire da un tema su cui apparentemente è già stato detto retoricamente tutto e che qui assume la connotazione di una aspirazione alla convivenza e comunicazione tra tutti i generi e le alterità: in definitiva una modalità artistica matura di leggere le criticità a tema della nostra condizione contemporanea. Una ottima prova del nostro territorio anche rispetto alla vocazione internazionale di Vie, specialmente se pensata in relazione, al tanto discusso lavoro dei Kepler 452.

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