Meritocrazia: ancora sulla fortuna delle parole / 2

10 Dicembre 2012 /

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Paroledi Maurizio Matteuzzi
Della accezione originaria s’è detto: meritocrazia come non democrazia, come negazione degli ascensori sociali, come fissità perpetua delle caste, come negazione del dovere etico di tenere conto, nel giudicare, non solo del risultato finale, ma anche del punto di partenza.
Così è nel saggio che la crea come neologismo. E, vogliamo notare per inciso, ma spesso gli incisi sono importanti, non a caso la parole non compare nella nostra Costituzione, anche là dove sembrerebbe naturale (cfr. art. 33 e 34, dove si parla dei meritevoli). Che meritocrazia sia un termine negativo ben si accorge anche Stefano Zamagni, che proprio per questo introduce in senso positivo il termine “meritorietà” (cfr http://www.aiccon.it/ricerca_scheda.cfm?wid=257&archivio=C).
D’altra parte, a voler volgere il concetto al positivo, ci si dovrebbe prima di tutto porre il problema se vada premiato chi è più dotato a priori, o chi ha ottenuto i maggiori miglioramenti, rispetto alle condizioni di partenza data. In merito si veda la lucida distinzione di Andrea Canevaro tra interventi di educazione constatativi e innovativi (cfr. http://www.docenti-preoccupati.it/generale/universita-riformarla-distruggerla/)

Ora non ci resta che occuparci dell’accezione d’uso, quella prevalsa modernamente. Meritocrazia, guai a toccarla, è la nuova morale dell’accademia, il senso della moralizzazione antibaronale. Le scelte le devono fare i migliori, pare ovvio, le decisioni devono essere prese dai migliori soggetti di cui disponiamo per competenze, attitudini e prestazioni nel campo rilevante. Per il bene sociale, naturalmente. Il quale, altrettanto naturalmente, non può che consistere nella crescita economica. Da cui l’inevitabile conseguenza che a determinare i detentori del merito debba essere, in via definitiva, il dio mercato. Che questa accezione possa prendere posto in menti come quella della Gelmini o della Santanché non stupisce. Il dramma, quasi kafkiano, è che la stessa concezione assurga a vangelo per la sinistra; di nuovo, come accadde al Labour Party di Blair: Young si starà rivoltando nella tomba, pazienza non capire una volta, ma dopo che l’ho spiegato chiaramente… ci volevano anche i fenomeni di imitazione, come per i serial killer. I Renzi, gli Ichino…
Vi sono varie questioni, e piuttosto sottili, che possono essere suscitate anche solo a prendere nel senso migliore l’accezione corrente, ossia prescindendo dall’assunzione che i soli valori di mercato debbano assurgere ad arbitro della valutazione. Poniamo che si assumano invece valori elevati e condivisi. Il panorama risulta tuttavia tutt’altro che chiaro. Chi l’ha detto, ad esempio, che le scelte dei migliori siano le scelte migliori? E, più ancora, in che misura le decisioni migliori siano anche decisioni (moralmente) giuste? Una società ispirata a una struttura meritocratica è una società giusta?2 Il giusto, di nuovo, che riemerge. La giustizia, somma virtù per Platone, che si dà solo quando tutte le altre virtù sono state conseguite. Terminus ad quem, utopia.
Per la politica accademica ci accontenteremmo di molto meno, ci basterebbe la decenza. E dio solo sa (“Dio” per i credenti) quanto ne siamo lontani.
(Segue)

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