Se dovessi fare una ricerca dalle parole più utilizzate dai rappresentanti dell’attuale governo, quelle che maggiormente si ripetono sono patria, Italia, famiglia tradizionale, confini, immigrati, tutte queste rappresentano una chiusura, non solo mentale ma confinante, dei limiti posti all’apertura, all’innovazione, al pluralismo, alla coesistenza.
Vi sono termini che non vengono mai pronunciati, nei discorsi ufficiali, si usa un para verbale che paventa aggressività, anche in caso di colpe o di condanna non si cerca la causa ma si propone la punizione, si maggiorano le misure di repressione, non si accettano pareri discordanti, si sbeffeggia chi propone soluzioni alternative o chi vuole dare delle seconde possibilità.
Le parole compongono discorsi, appaiono come lo specchio della nostra personalità, rappresentano un mondo interiore e le nostre passioni, nei vari periodi storici sono state fautrici di azioni e comportamenti dannosi o costruttivi.
Nell’epoca contemporanea, i media hanno sdoganato la maleducazione, l’arroganza, hanno dato sfogo ad ire e sentimenti repressi che non potevano essere espressi liberamente se non con una condanna sociale, non importa più in quale modo si usino le parole, non è più importante saper parlare e saper scrivere, l’impeto ha preso il posto della critica, l’ironia e l’alterigia hanno sostituito la buona creanza e il rispetto che si doveva in un dialogo in presenza.
Il linguaggio gergale che precedentemente si utilizzava in contesti informali e privati è diventato un modus vivendi, dal periodo berlusconiano le battute inappropriate, la sessualizzazione di qualsiasi argomento sono diventati una moda, gli slogans e le frasi stereotipate ci hanno omologato e fatti diventare degli esseri poco pensanti e avvezzi alla superficialità.
Le modalità scurrili nell’espressione rappresentano pochezza di argomenti, ignavia e viltà di chi non è in grado di giustificare le proprie scelte, l’omologazione ha impedito un progresso sociale che tende alla regressione.
Attraverso linguaggi precostituiti, impacchettati e confezionati, si viaggia in modalità automatica, si è facilmente manipolabili, si perde il senso critico e l’individuo diventa la parte di un tutt’uno, facile preda di chi utilizza livelli e linguaggi retorici per aver presa su sentimenti negativi, rinfocolare rabbie e vendette, togliere aspettative al futuro e impegno per l’ottenimento di obiettivi di sviluppo, tutela ed equità.
Le parole escludenti sono quelle che non vengono mai menzionate, non si parla di poveri, non si nominano gli oppressi, si pone l’attenzione sul benessere economico, sulle etnie, sulla tradizione, sulla conservazione, sull’appartenenza che sia sociale, religiosa o scarsamente culturale.
I giovani devono essere formati per il lavoro, non devono avere cultura, la cultura non produce ricchezza, non ha un fine utile al benessere economico dunque è considerato inutile, la dissertazione è considerata un puro esercizio retorico, l’autarchia linguistica non riguarda solo le parole straniere ma si allarga a una comunicazione in cui si pongono limiti, in cui si censurano argomenti, in cui si fa credere che esista un altro luogo è un altro mondo che è quello virtuale in cui i problemi scompaiono, in cui ci si identifica in modelli effimeri per dimenticare i problemi reali.
Si vive come se le azioni avessero la poca rilevanza di post che possono essere cancellati, il vivere assume un’alterità di non appartenenza, un’immersione costante nelle vite altrui, in una spasmodica ricerca di luoghi e vite immaginarie.
Sarebbe un buon esercizio se ognuno di noi scrivesse un diario in maniera automatica, in cui potesse distinguere la vita reale da quella sognata, in cui si potessero esprimere le proprie aspirazioni, in cui si potessero rivelare le proprie speranze, in cui si possano esprimere i propri dolori.
Le parole diventano rivelazioni, la cura della parola porta alla riflessione, alla ricerca, all’apertura, all’indagine di noi e degli altri.
I regimi totalitari, come Georges Orwell o Ray Bradbury hanno raccontato, hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole.
I totalitarismi, usano la lingua come arma di potere, e questo potere sì esprime attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione, dei tribunali, delle istituzioni scolastiche, nella scelta dei nomi dei ministeri, se si ascoltano con attenzione i discorsi politici ci si accorgerà che si parla sempre al presente, non si utilizzano tempi al passato se non per narrazioni nostalgiche, non si adoperano condizionali o congiuntivi, è un linguaggio che non dà spazio al futuro, che non ha progettualità ma si basa sul tutto e subito, è preponderante l’uso dei pronomi io e noi.
E la rivelazione di egoismi, egocentrismi, appartenenze ad un gruppo elitario che decide per gli altri, indebolisce il sistema educativo, incentivando l’ignoranza, nutrendo l’arroganza, sperando in un ritorno ad un’età tribale, in una epurazione non linguistica ma sociale che ponga ai margini chi non è utile, chi non è in buona salute, chi non nasce ricco, chi ha un colore diverso, chi manifesta una sessualità differente, ma ponendo in risalto falsi valori.
Nell’immagine il murale realizzato dall’artista Jorit alla periferia di Firenze, sulla parete di un edificio di edilizia popolare. L’opera, intitolata “Verso la città futura”, è stata realizzata nell’ambito del progetto “Odio gli indifferenti” promosso dall’associazione Teatro Puccini, Casa spa di Firenze.
Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto sardo il 20 maggio 2023