Meritocrazia: ancora sulla fortuna delle parole / 1

3 Dicembre 2012 /

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Paroledi Maurizio Matteuzzi
Eduardo diceva che credere nella superstizione è da ignoranti, ma non crederci porta sfiga. Dunque vale la pena di ragionare ancora sulla fortuna delle parole, visto che parlare della nostra potrebbe portare jella. Ecco, dopo “epocale”, occupiamoci dunque della parola “meritocrazia”.
Come è noto, nell’Etica Nicomachea Aristotele divide le virtù in etiche e dianoetiche. La differenza peculiare consiste in ciò, che per le prime si deve perseguire il giusto mezzo, l’equidistanza tra gli estremi, entrambi negativi, mentre per le seconde si deve perseguire la massimizzazione, cioè l’estremo positivo. Prendiamo ad esempio la parsimonia, ovvero la corretta gestione dei beni: ad un estremo si colloca l’avarizia, la taccagneria, all’altro la dissolutezza, il dissipare e il distruggere così la ricchezza. In medio stat virtus, dunque. Prendiamo invece una virtù dianoetica (letteralmente: che attraversa, o si accompagna, con il nous, l’intelletto), ad esempio la perspicacia o l’intelligenza. Non sarà male che di essa sia perseguito il massimo accrescimento.
Converrà tenere presente un’altra distinzione che Aristotele fa nella stessa opera, quella tra giustizia distributiva, o aritmetica, e giustizia proporzionale, o geometrica. Da un lato sembra giusto dare ugualmente a tutti; da un altro lato attribuire lo stesso a tutti sarebbe somma ingiustizia. Justum est suum cuique tribuere, diranno in seguito i giureconsulti romani. Ma il suum cuique ha da essere lo stesso, o differenziato? Se io spartisco un dolce tra i miei commensali, è giusto cercare di rendere le quantità più uniformi possibile. Ma se devo distribuire dei premi per il comportamento tenuto in certe situazioni, sarebbe giusto attribuire lo stesso premio a chi si è comportato bene e a chi si è comportato male? Sarebbe, evidentemente, summa injuria.

Negli ultimi anni il criterio del merito, la così detta “meritocrazia”, è diventata uno slogan di ogni politica di promozione, e, in primis, di ogni politica dell’istruzione, cioè della scuola e dell’università. Si assume altresì tacitamente che tutte le qualità desiderabili delle persone appartenenti a queste sfere, docenti o studenti, siano dianoetiche nel senso prima spiegato, di quel tipo, cioè, di cui si deve perseguire la massimizzazione.
Strana, la storia delle parole. “Meritocrazia” compare per la prima volta in The Rise of Meritocracy 1870-2033, del sociologo e politico inglese Michael Young; il termine viene a calco dei termini greci “democrazia”, “aristocrazia”, ecc. Il testo di Young è del tipo utopistico-immaginario, come Utopia di Thomas More o Ucronie di Charles Renouvier. Vi si fa un’ipotesi suggestiva, su cui giova riflettere. Supponiamo di avere a disposizione l’algoritmo perfetto per calcolare il merito; qualcosa, insomma, di molto lontano dai criteri escogitati dall’ANVUR. Supponiamo, pertanto, di dare a ciascuno secondo questo algoritmo, per esempio, diamo istruzione molto differenziata, la miglior ai più dotati, e via via più scadente a mano a mano che si scende nella scala del merito. Che società avremo nel 2033? (che per Young era un tempo lontanissimo, potremmo attualizzare: nel 2100?). E’ facile capirlo, avremmo una società divisa in caste, le une impenetrabile alle altre, disgiunte come una partizione di un insieme in senso matematico. Cittadini di serie A, di serie B, ecc. Siamo sicuri che sia questo che vogliamo? Non è un caso che l’ipotesi di Young finisca in tragedia, cioè nella rivoluzione da parte degli emarginati.
A malgrado della sua origine, la parola viene reinterpretata, già dallo stesso partito dell’Autore, il Labour Party, in una accezione opposta. “Meritocrazia” viene letta al positivo, diventa l’emblema della giustizia, dell’etica, è lo slogan della moralizzazione dei costumi. Tanto che lo stesso Young, poco prima di morire, si inalbera rivolgendosi sulla stampa direttamente a Tony Blair, perché ci si astenga dal citarlo a vanvera. Non c’è niente da fare, le parole a volte sono ostinate, cocciute come un mulo, quando vogliono cambiare il loro significato. Come una dama dell’alta società quando vuole cambiare vestito, altrettanto bizzosa e stizzita, la meritocrazia, da contrapposto antitetico di democrazia, cioè dal suo uso originario, diviene la bandiera del giusto.
A questo punto uno studioso del linguaggio dovrebbe distinguere tra etimo, uso originario, e uso comune o volgare (così fa Leibniz nella celebre Introduzione al Nizolio). L’etimo è chiaro: da meritum, latino, cosa meritata, ricompensa, premio, oppositivamente a castigo, pena. Dal greco meris, parte, pezzo, porzione, meros, parte, ma anche funzione, carica, dunque anche competenza, lucro, guadagno, moira, di nuovo parte, porzione, di cibo ad esempio, da cui parte assegnata a ciascuno, per cui anche sorte, fato, destino. E ancora, merizo, distribuisco, mermairo, partecipo. Tutto ciò, in conclusione, che abilita alla lode o al biasimo, alla ricompensa o alla pena, in base a un discrimine. Da cui in italiano meritare, ma anche merce, mercede, meretrice.
(Segue)

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