Emilia Romagna, la coop non sei più tu

21 Novembre 2012 /

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di Gabriele Polo
«Caratteristica della cooperazione è occuparsi non dell’interesse di pochi individui, o di una classe ristretta, ma dell’interesse di intere classi; di essere animata non da uno spirito egoistico ma da un vasto e liberale spirito di simpatia e di fratellanza». Nel 1886, Ugo Rabbeno, cattedratico socialista reggiano, presentava così la prima assise nazionale del movimento cooperativo, 100 delegati in rappresentanza di 248 società e 70.000 soci che – ispirandosi ai 28 lavoratori inglesi riunitisi nel 1844 nella società dei Probi Pionieri di Rochdale – qualche anno dopo fonderanno la Lega delle Cooperative e Mutue, quella che esiste ancor oggi, nota ai più per i suoi supermercati. Solo sette anni più tardi, lo stesso Rabbeno sollecitava delegati e soci a combattere la falsa cooperazione che può aver origine «nelle società di speculazione, che assumono parvenza di cooperative, per ottenere la maggiore libertà di costituzione legale e i favori concessi dalla legge e per tentare di attirare l’interesse del pubblico». Parole centenarie che sembrano pronunciate ieri.
Nate nella seconda metà dell’800, subito dopo le società di mutuo soccorso, «per assistere i lavoratori dai rischi della disoccupazione, degli infortuni, della malattia, dalle speculazioni sui prezzi dei beni di consumo e per trovare risposte alla mancanza di lavoro», oggi le cooperative sono diventate qualcosa di molto diverso. Una delle maggiori realtà economiche, a partire dal peso delle loro associazioni più importanti, Lega e Confcooperative, «rossi» e «bianchi», che vantano numeri impressionanti: rispettivamente, 8,5 e 3 milioni di soci, hanno 480.000 e 540.000 dipendenti e viaggiano entrambe sui 60 miliardi in volume d’affari – per capirci, basta dire che Finmeccanica, uno dei principali gruppi industriali italiani, nel 2011 ha fatturato 19 miliardi.

Ma oltre al quanto, non meno rilevante è il come, perché la cooperazione si trova perfettamente a suo agio nell’era della globalizzazione, della competizione sul costo e sulla flessibilità del lavoro, aggiungendo ai vantaggi fiscali previsti dalla legge una pratica che sempre più spesso supera i vincoli contrattuali, utilizzando in modo estremo la figura del socio-lavoratore, una pressione fiscale del 10-15% inferiore a quella che grava sulle imprese di capitale, stipendi mediamente più bassi rispetto ai dipendenti «privati» e «pubblici».
Un quadro dentro cui prolifera il fenomeno delle cooperative «finte»: società con «padroni normali» che vivono nella filiera degli appalti, soprattutto nell’industria, nell’edilizia e nei trasporti, aprendo e chiudendo i battenti in grande disinvoltura, creando un dumping sociale (con ribassi fino al 30% degli stipendi, orari incontrollabili e sicurezza sotto i minimi di legge) che risucchia anche le storiche coop «bianche» e «rosse» nate per tutt’altri scopi. In fondo, il mondo cooperativo ha anticipato fin dagli anni ’80 le liberalizzazioni del mercato del lavoro poi estese a tutti dai governi degli ultimi vent’anni, prima in nome della competitività, poi per tutelare la stabilità finanziaria.
La contraddizione tra principi ispiratori e pratica non è una novità, rappresenta una costante nella storia del movimento cooperativo italiano: le ragioni finanziarie hanno spesso prevalso su quelle mutualistiche, a partire dalla prima grande impresa produttiva del movimento, l’Associazione operai e braccianti di Ravenna, cui fu affidata la bonifica di una parte dell’Agro romano alla fine dell’800, eseguita in piena e capitalistica regola d’arte. Una contraddizione che ha alimentato molte polemiche del movimento socialista e comunista nei confronti delle organizzazioni cooperative fin dagli esordi, rendendo ambiguo e difficile il rapporto tra i partiti politici della sinistra, i sindacati e le cooperative; in un continuo oscillare tra collateralismo e scontro.
Ma quest’ambiguità strutturale è diventata qualcosa di più a partire dagli anni 80, con la frammentazione della produzione industriale e la diffusione della pratica degli appalti. Con la trasformazione di parti crescenti del processo lavorativo in «servizi» esterni all’impresa-madre in cui la cooperazione si è inserita potendo comprimere i costi della mano d’opera e offrendo maggior flessibilità per soddisfare le esigenze di quella categoria comoda e appiattente che segna l’era della globalizzazione, «il cliente», che va da chi fa la spesa al supermercato alla grande industria multinazionale. Come si è visto pochi giorni fa davanti al magazzino Ikea di Piacenza, con i facchini egiziani di cooperative in appalto, licenziati perché chiedevano – con il solo sostegno di centri sociali e Cobas – garanzie contrattuali e sindacali.
Dove quelle che Ugo Rabbeno chiamerebbe «cooperative fittizie» hanno approfittato dell’imbroglio giuridico già visto con la diffusione del lavoro autonomo che ha rimpiazzato quote crescenti di lavoro dipendente per svolgere prestazioni che rimangono eterodirette. In molti casi il socio-lavoratore – soprattutto nelle cooperative di lavoro e nei servizi – assomiglia parecchio ai parasubordinati nel rapporto con la propria prestazione; e, generalmente, svolge un’attività ancora più povera e ha un «potere contrattuale» persino minore. Quasi vivesse ingabbiato, prigioniero di se stesso.
Ceto medio ed Emilia rossa
Il sistema cooperativo ha un cuore antico che batte forte al centro dell’Emilia, con Reggio capitale. Magari non tutti sanno esattamente chi sia quel Camillo Prampolini cui è dedicata la piazza principale e che concepiva il socialismo come cooperative più amministrazioni locali; forse pochi ricordano la conferenza di Palmiro Togliatti su «Ceto medio ed Emilia rossa», tenuta al teatro comunale il 24 settembre del 1946, ispirando il modello di governo di queste terre basato sul triangolo Pci-Coop/Cna-Cgil. Ma tutti hanno a che fare con la cooperazione. Non solo con quella «rossa», ora che i «bianchi» hanno conquistato posizioni grazie alla «sussidiarietà» che nel welfare toglie spazio a un «pubblico» dalle casse sempre più vuote, a favore dei privati e del volontariato; attività in cui i cattolici sono maestri. E, infatti, c’entra ormai poco la passione politica, ora che il partito è diventato liquido e ha reciso ogni legame con la sua tradizione, a partire dai gruppi dirigenti, come il sindaco di Reggio, Graziano Delrio, abilissimo amministratore con don Sturzo nel cuore e Matteo Renzi candidato premier.
Stiamo parlando di un legame materiale, che emerge già dai semplici numeri: la provincia di Reggio Emilia ha 530.000 abitanti, la sola Legacoop ha 673.000 soci per 211 associate, 45.000 dipendenti, con un volume d’affari che supera i sette miliardi. La più «piccola» Confcooperative ha 50.000 soci, 14.500 dipendenti di 470 società che fatturano poco più di tre miliardi di euro. Molti reggiani sono soci di più cooperative, più d’una cooperativa attira iscritti da altre province. Oltre ai numeri contano anche i nomi, alcuni conosciuti ben oltre il reggiano: dalla grande distribuzione di Coop Nordest e Conad Centronord all’agricoltura delle Cantine Riunite, dall’edilizia e industria della Ccpl fino alle pulizie di Coopservice, siamo sempre sopra i 600 milioni di fatturato. Numeri e nomi che sembrano non conoscere crisi, nemmeno quella globale che il prossimo anno porterà la disoccupazione italiana al 12% e il pil sotto di un altro punto dopo il -2,5 con cui si sta chiudendo il 2012.
«Come tutto il sistema cooperativo mondiale, un miliardo di associati – spiega Simona Caselli, presidente di Legacoop Reggio Emilia – risentiamo poco della crisi. C’è un po’ di sofferenza nelle società di lavoro e produzione, un po’ di preoccupazione per i tagli che dalla spending review ricadranno sulle cooperative di servizio con una flessione del 5% dei fondi. Ma il 2012 lo chiuderemo bene, confermando la crescita del 2011». Il segreto? «L’accumulazione indivisibile, cioè il fatto che gli utili non vengono distribuiti tra i soci, restano in azienda e vengono reinvestiti. Questo dà quella solidità patrimoniale su cui oggi pochi altri possono contare. Alla base c’è il coinvolgimento dei soci, la loro partecipazione ai destini dell’impresa». Le cooperative, insomma, reggono bene la crisi, persino crescono; anche finanziariamente, con le proprie piccole ma combattive banche.
Cambio di natura
Naturalmente qualche «sofferenza» c’è, perché il giocattolo si può rompere quando le crisi produttive, di cui parla la presidente Caselli, incrociano gestioni erose dalle sirene finanziarie. E’ quanto successo la scorsa primavera alla storica Cooperativa Muratori Reggiolo – data di nascita 1907 – travolta da un debito di 150 milioni, quasi una Lehman Brothers di provincia. La crisi dell’edilizia, qualche maxiprogetto andato male e investimenti discutibili, hanno svuotato oltre ogni limite tollerabile le cassa sociale, che negli anni era diventata la banca per i risparmi di tutta Reggiolo. Quando qualcuno, spinto dalla crisi, ha chiesto un prestito o la restituzione del credito, si è sentito rispondere di avere pazienza, per «momentanea mancanza di disponibilità»: ma in un piccolo centro la notizia corre veloce di bocca in bocca, così insieme alla preoccupazione crescono le richieste dei risparmiatori e il crack è servito.
Oggi la gloriosa Cmr è saltata per aria, ha messo i suoi 145 soci-lavoratori in cassa integrazione confidando che una nuova srl ne possa assorbire un po’, si è affidata a un concordato preventivo e al patrimonio immobiliare residuo per ripagare le richieste dei 2.250 «soci-prestatori», parecchio scettici sulla possibilità di recuperare interamente il denaro versato, nonostante la disponibilità di Legacoop reggiana a contribuire, almeno in parte.
Il fallimento di Reggiolo allunga qualche ombra anche sul ruolo di collante sociale che le cooperative hanno avuto per anni, almeno da queste parti. Un intero paese si è scoperto «tradito» dalla «sua» creatura, qualcosa di più di una cooperativa, quasi un’identità che sembrava tenere assieme lavoro, risparmio e consumo, relazioni sociali e politiche. La concretezza dell’«Emilia rossa e ceto medio», che per anni aveva fatto marciare assieme sindacato, associazionismo, cooperative e partito. Che, però, forse s’era inceppata persino prima della fine di chi sembrava governare tutto, il Pci. E anche in questo cambiamento il mondo cooperativo sembra aver avuto un ruolo d’avanguardia.
A Reggio qualcuno ancora ricorda, nei primi anni ’80 – quando il Muro era saldamente in piedi e il Pds d’Occhetto di là da venire – più di uno scontro tra la Camera del Lavoro e Legacoop sulla gestione di alcune crisi aziendali, in particolare alle Cantine Riunite. Ci fu anche una durissima riunione della componente comunista della Cgil, con Bruno Trentin a «difendere» l’autonomia e la posizione del sindacato, sfociata in una minacciosa lettera di protesta di Legacoop a Luciano Lama, con un incrocio di tessere restituite da una parte e dall’altra e il Pci apertamente al fianco delle Coop.
C’è chi sostiene che quella frattura non si è mai ricomposta e che le cooperative allora rovesciarono tradizione e gerarchie, facendo prevalere – in sintonia con ciò che accadeva nel mondo – le ragioni dell’impresa su quelle del lavoro e, più prosaicamente, conquistarono il partito dettandone le scelte; finché questi ebbe vita. Poi i tempi maturarono ancora, l’Unione sovietica si dissolse, Occhetto andò alla Bolognina e poi pianse tutte le sue lacrime, il libero mercato divenne lo stato di natura per tutti e su tutto decideva, quasi in automatico. Anche nel mondo cooperativo la politica si rivelava superflua, ben oltre la fine del partito: l’individuo prendeva il sopravvento sul gruppo, la singola impresa sul movimento. «Rossi» e «bianchi» stingevano, Legacoop e Confcoop diventavano sempre più simili e sempre meno capaci di governare il proprio complesso mondo.
«Ormai è una valanga: la deregulation del lavoro e la crisi economica danno sempre più spazio a chi usa le forma cooperativa per praticare il banditismo sociale». Non usa mezzi termini Guido Mora, segretario generale della Camera del Lavoro di Reggio Emilia, una delle più grandi d’Italia con i suoi 115.000 iscritti. Tolti i minorenni, un abitante su quattro della provincia reggiana è iscritto alla Cgil, molti gli immigrati, che sono il 15% dell’intera popolazione, sempre più spina dorsale dell’economia e dello stesso sindacato.
E proprio di immigrati parla un’altra storia significativa che intreccia lavoro e cooperazione, in uno scontro che per Mora dimostra come la formula cooperativa venga sempre più usata «per derogare i contratti, far scendere i salari anche di un terzo con una semplice dichiarazione di stato di crisi e per trascinare fuori dalle regole contrattuali sempre più cooperative, anche quelle grandi come Coopservice, che oggi ci dice di non poter reggere la concorrenza se applica il contratto di lavoro». La vicenda – che secondo Mora segnala anche una crisi di rappresentanza, «il declino della cooperazione come movimento e le crescenti difficoltà delle associazioni di svolgere il loro ruolo di indirizzo» – è quella della «Gfe», il «Gruppo facchini emiliano» fondato una decina d’anni fa come cooperativa associata alla Confcoop. Lavora per anni quasi esclusivamente per la Snatt-logistica, nascendo in sua funzione come «contenitore di lavoro vivo», per caricare e scaricare – in appalto – i prodotti di grandi griffe di moda e abbigliamento sportivo (D&G, Cisalfa, Calvin Klein, ecc.) che da tre grandi depositi del reggiano vengono smistati in tutt’Italia.
Cinquecento «soci-lavoratori», quasi tutti indiani, pagati 5 euro l’ora, che nel 2010 chiedono l’applicazione del contratto nazionale e i diritti sindacali. La risposta del committente Snatt è semplice: toglie l’appalto a Gfe condannandolo alla chiusura e «crea» due nuove cooperative cui passa la commessa imponendo l’applicazione di uno dei tanti contratti al ribasso riconosciuti della legge, quello dell’Unci (Unione nazionale cooperative italiane). Ai facchini indiani viene proposto di tornare a lavorare per la Snatt agli stessi 5 euro l’ora di prima. Metà di loro accetta per disperazione, iscrivendosi alle nuove cooperative; l’altra metà resta in Gfe iniziando una lotta che è anche per la dignità del cittadino-immigrato: dura nove mesi, con presidio dei magazzini, scioperi della fame, manifestazioni in città.
E perde, causa pubblica indifferenza, sfociando in un accordo che promette ricollocazioni, tutte da verificare, un po’ qua e un po’ là. I facchini «renitenti» hanno l’appoggio solo della Cgil, la città non si scalda molto, le istituzioni non vanno oltre una rituale solidarietà, freddissima la politica che qui dovrebbe contare, il Pd. Il suo responsabile economia e lavoro, Simone Montermini – che è anche primo cittadino di Castelnuovo di Sotto – al culmine delle proteste e con i lavoratori ricattati dalla Snatt, invita tutti «a un’alleanza competitiva, per rilanciare la crescita, tra lavoratori, sindacati e imprese». Oggi Montermini non è più un dirigente del Pd, che ha lasciato per aderire a «Italia futura», diventando il primo sindaco di Montezemolo.
Mezzo socio, mezzo dipendente
La vicenda Gfe non è il solo caso di scontro tra sindacato e cooperative. Guido Mora tiene il confronto «legato al merito» e sottolinea che molto dipende da una situazione di crisi economica che, nel reggiano, ha visto aumentare in un anno le ore di Cig ordinaria del 41% e straordinaria del 18%; mentre la disoccupazione che fino al 2008 era ai livelli fisiologici del 2-3%, oggi è più che raddoppiata. Simona Caselli di Legacoop sostiene di «avere un buon rapporto con la Cgil» e certamente il confronto sulle situazioni di crisi non manca. Ma è sempre più difficile, perché anche la coperta del modello emiliano si è ristretta. Vale persino per le cooperative di consumo, le mitiche «Nordest» di Reggio e la storica «Estense» di Modena che dai rispettivi capoluoghi distribuiscono centri commerciali e merci dagli Appennini alle Alpi orientali al Tavoliere pugliese.
Loro vanto è il «marchio-Coop», sinonimo condiviso di garanzia alimentare a costi accessibili, ricercatissima nell’era della globalizzazione, spaventati come siamo dall’ipotesi di ingurgitare senza saperlo una mortadella cinese per poi ritrovarci con l’itterizia dilagante. Motivo per cui l’alimentare è uno dei pochi settori che si salva dalla crisi, ne è testimone il quasi miliardo di fatturato del 2011 di CoopNordest. Ma poiché i margini di profitto sono ridotti e non si vuole comprimere il costo del lavoro – «nella distribuzione», sostiene Simona Martini, «garantiamo stipendi superiori al settore privato» – la competizione si fa su flessibilità e orari. Così CoopNordest punta sulla liberalizzazione degli orari, «perché sono cambiati gli stili di vita e ormai un buon 20% degli incassi settimanali lo si fa di domenica». Risultato: disdetta unilaterale del contratto aziendale e niente più maggiorazione extra per il lavoro festivo dei suoi 4.300 dipendenti, sindacato furioso. «Vent’anni di anzianità – raccontano alla Filcams di Reggio – valgono una busta paga di 1.200 euro scarsi, un part-time a 24 ore non va oltre i 700 euro.
Con queste retribuzioni la gestione del tempo diventa decisiva, è ciò che potrebbe distinguere un lavoro sotto padrone da uno in cooperativa. Ma le coop di diverso hanno solo un po’ di pudore e ipocrisia in più nell’esigere le liberalizzazioni di Federdistribuzione». All’opposto dei facchini cooperanti, schiacciati da un solo committente che diventa «padrone», il guaio di chi lavora tra i banchi della Coop è di avere troppi padroni, ben 586.411 nel caso di CoopNordest. I soci-clienti che contribuiscono alle fortune del gruppo, ma chiedono di poter far la spesa quando vogliono, persino di simulare all’Ipercoop un briciolo della socialità perduta in fabbrica o nel quartiere. Capita anche – e non di rado – che la figura del socio-lavoratore e del socio-consumatore convivano nello stesso corpo, dando vita a un complicato intreccio tra «identità partecipativa» e «condizione lavorativa»: persino di fronte al concretissimo diffondersi degli appalti, per venire a capo della contraddizione tra princìpi statutari e loro pratica, tra immagine e realtà, servirebbe più Freud che un sindacalista.
Competizione sociale
Dove non basterebbe né l’uno nell’altro è nel settore più recente e più in crescita, la cooperazione sociale. Che vuol dire infanzia, vecchiaia, sanità: i punti più delicati delle società occidentali, quando il welfare-state è in ritirata, il privato conquista posizioni e la sussidiarietà cooperativa viene in soccorso a sindaci sempre più poveri. Anche in Emilia, anzi, forse soprattutto qui, dove era cresciuto un modello «pubblico» che costituiva il vanto delle amministrazioni e del partito di riferimento. Oggi, in tutta la regione, il ritornello è «non ce la facciamo più a gestire scuole per l’infanzia, asili comunali, case per anziani». Così nascono Fondazioni e holding che aggregano cooperative o danno loro in gestione i servizi.
Va per la maggiore il matrimonio privato-coop con l’ente pubblico a celebrare il rito facendosi garante della qualità spendendo tutta l’esperienza e la credibilità accumulata negli anni precedenti. Sempre più imprese private promuovono o si fanno coinvolgere in quello che il sindaco di Reggio Graziano Delrio classificherebbe sotto la voce «welfare contrattuale», laddove una parte di salario andrebbe dedicato all’assistenza, alla mutua, alla cura dell’infanzia. Mentre a Modena persino la Questura – dopo il Policlinico e l’Asl – ha aperto il suo asilo aziendale, a Reggio Emilia preferiscono un sistema misto pubblico-privato, come quello del nido Giulia Maramotti: il nipote Luigi, attuale presidente del gruppo Max Mara, lo ha dedicato alla nonna, dalla cui sarteria e scuola di cucito discende la multinazionale reggiana che ha conquistato il mondo con i propri marchi.
Nella città emiliana ormai Max Mara ha più uffici che officine, con poco più di trecento operai, ma ha voluto finanziare con un milione di euro la costruzione di un nido. Altri 680.000 euro li ha messi il comune di Reggio che ha poi ricevuto la struttura per darla in gestione a una cooperativa. A differenza di altri casi di «origine» aziendale (dall’Eni milanese alla Luxottica di Agordo) il nido Maramotti è aperto anche alla città, riservando però 30 posti – sui 78 complessivi – ad altrettanti figli dei dipendenti Max Mara. Per tutti c’è un contributo pubblico comunale tra i 210 e i 358 euro al mese, mentre le rette pagate dalle famiglie spaziano dai 63 ai 540 euro al mese, a seconda del reddito. Nella coesistenza tra pubblico e privato, comuni sono i protocolli didattici di asili e nidi reggiani, diversi gli stipendi, tra dipendenti pubblici e lavoratori in cooperativa.
Da questo punto di vista a Parma le cooperative sociali sono andate «oltre». Nella città ducale a dettare legge è il consorzio cooperativo Proges: nato dieci anni fa per iniziativa di alcuni giovani rampanti dell’allora Pds locale, ha 2.600 dipendenti, da due anni ha lasciato Legacoop per accasarsi presso la Compagnia delle Opere. E’ in grande crescita, negli ultimi cinque anni ha raddoppiato gli utili – 8 milioni di patrimonio e 85 di fatturato nel 2011 – e gestendo, con Parma infanzia e Parma zero-sei, la gran parte di nidi e scuole per l’infanzia (oltre a case per anziani, di cura e assistenza domiciliare, giornali locali) ha conquistato pure la finanza locale portando il suo presidente, Antonio Costantino, nel Cda della banca CariParma.
Talmente potente da attraversare indenne tutti i travagli politici e i default parmensi, Proges è stata confermata nel suo ruolo di monopolista dell’assistenza anche dall’amministrazione Cinque Stelle di Pizzarotti. Che per sanare il debito municipale non fa obiezioni alla privatizzazione dei servizi, né ha nulla da dire su cooperative come queste che applicano il contratto confindustriale a maestre d’asilo pagate il 20-25% in meno rispetto alle loro colleghe che ancora dipendono dal pubblico e che, certo, non vivono nell’oro.
Da Parma, Proges va alla scoperta di nuovi territori lasciati incolti dal pubblico: la sua ultima conquista sono i cinque asili che il comune di Torino ha deciso da quest’anno di passare dalla gestione diretta all’appalto. Del resto l’onda delle cooperative sociali non trova ostacoli: dopo anni di delegittimazione ideologica di tutto ciò che era pubblico, l’era del rischio default spinge gli enti locali alle dismissioni. Ma il trionfo economico delle cooperative fa sorgere qualche dubbio sulle garanzie del servizio svolto. Per bambini, vecchi e malati. Perché il basso costo del lavoro e la sua crescente flessibilità saranno anche un bel vantaggio economico, ma da qualche parte il risparmio si paga.
Lo scorso 27 agosto, in una casa di cura di Casalecchio (Bologna), il ventenne Michael Passatempi muore per asfissia meccanica: era ricoverato per problemi psichici, non voleva ubbidire all’ordine di lasciare la play station con cui stava giocando «oltre l’orario previsto» e tre infermieri sono intervenuti per «sedarlo»; ma, secondo la madre, uno gli si è seduto sul torace anziché sul bacino, come prescrivono i protocolli. Così lo ha schiacciato e soffocato, quando è arrivata l’ambulanza era troppo tardi: la magistratura valuterà se procedere o meno per omicidio colposo nei confronti dei tre infermieri. Che sicuramente non l’hanno fatto apposta, che forse non avevano ricevuto la necessaria formazione, che – come ipotizza lo psicanalista bolognese Emilio Rebecchi – «magari avranno dovuto imparare il mestiere lavorando». Di certo c’è che i tre lavorano per una cooperativa sociale, la stessa che gestisce la casa di cura in questione. E di cui porta il nome: «Dolce».
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto il 14 novembre scorso

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