Entrare nel Cie di Bologna è come varcare la soglia di una terra di nessuno. Un luogo in cui esisti, perché sei vivo e vegeto, ma in cui, non avendo in tasca un documento, è come se non ci fossi. Non c’è nazione che ti reclami o abbia fretta di rimpatriarti, spesso non c’è famiglia che venga a trovarti (i tuoi familiari se sans papier come te rischiano la stessa sorte) e anche se hai un letto, tre pasti al giorno e tutto sommato medici, infermieri, psicologi e mediatori culturali che in caso di bisogno o crisi emotiva si prendono cura di te, sai che lì non ci dovresti stare perché non hai fatto del male a nessuno. Anzi, al contrario, sei in Italia perché cercavi una vita migliore.
Reportage di Alessandra Testa
La pensa così la maggior parte dei trattenuti, soprattutto le donne, nella struttura di via Mattei.
Su 58 ospiti, 26 sono donne. Hanno fra i 18 e i 50 anni e se chiedi loro perchè sono finite lì dentro, quasi tutte ti rispondono che non hanno fatto niente, che un documento non ce l’hanno perché glielo hanno rubato o non l’hanno mai avuto o, ancora, che hanno perso il permesso di soggiorno quando hanno perduto il posto di lavoro.
Le loro storie reclamano giustizia, protezione.
Soprattutto perché buona parte di esse in un centro di identificazione ed espulsione non ci dovrebbe stare: le richiedenti asilo e le vittime di tratta, per esempio.
All’ingresso del braccio femminile l’accoglienza la fa la più allegra del gruppo.
«Come ti chiami?», è la domanda. «Boh, eh chi lo sa!», è la replica. La chiameremo Yuliana, un nome di fantasia, così come faremo con tutti gli altri che, nonostante l’esasperazione, hanno scelto di scambiare due parole. In cambio, evitiamo loro di rendersi riconoscibili, sempre che si possa essere riconoscibili quando un documento in tasca non lo si ha. Yuliana è moldava, nel Cie di Bologna è giunta due mesi fa. In Italia però ci viveva da oltre dieci anni. «Ho fatto sempre la badante, per bambini e per anziani – racconta – Ma ho sempre lavorato in nero e le famiglie presso cui ho fatto servizio non mi hanno mai voluto regolarizzare». L’ironia della sorte è che, al suo paese, Yuliana paga un’altra badante per accudire sua figlia, con una malattia causata dalle radiazioni di Chernobyl. «Sono venuta qui per fare un po’ di soldi e mandarli a casa per le medicine – spiega – ma mi hanno trovata senza documenti e mi hanno portata qui». Le sue compagne la chiamano «la matta» perché parla ad alta voce, interrompe, scherza, ma Yuliana è tutto tranne che matta.
Sempre dalla Moldavia arriva Ana, 34 anni. «Due settimane fa mi hanno rubato la borsa e sono andata alla polizia per fare denuncia – è la sua versione – dentro la borsa avevo il passaporto e avevo paura di restare senza un documento». La polizia l’ha portata in Questura dove le hanno detto: «Ti mandiamo a casa perché non sei in regola». E così, dal 14 febbraio, questa è la sua prima volta al Cie.
In via Mattei di ex badanti ce ne sono tante, le loro storie si assomigliano tutte: un alloggio in affitto con alcune amiche e, a seguito della denuncia dei vicini, l’arrivo delle forze dell’ordine, un giro di giostra in Questura e poi in viaggio verso la struttura dove aspettano di capire cosa ne sarà di loro.
Le storie peggiori, però, sono quelle delle nigeriane. Dopo la brutta esperienza di una loro connazionale, che qualche mese fa è stata rimpatriata perché malata di Aids invece che affidata ad una struttura di cura, non vogliono più parlare. La maggior parte sono vittime di tratta ed è stata proprio la strada a metterle nei guai.
«Se ti racconto cosa mi è successo mi puoi aiutare?» – chiede una ragazza bellissima, quasi statuaria – No? E allora non ti dico niente». Gira i tacchi e se ne va. Raggiunge il gruppetto delle amiche, ce ne sono anche giovanissime, e continua ad intrecciare i capelli di una sua vicina in treccine. Di soppiatto allora si avvicina una 34enne, disposta a chiacchierare. «Sono in Italia da tanti anni – ricorda – ma il permesso di soggiorno l’ho avuto solo nel 2002». Lo aveva ottenuto grazie ad un posto in fabbrica dopo una esperienza abbastanza lunga sul marciapiede e una vita sfortunata. Orfana, è stata portata in Italia da una «madame» – così le ragazze chiamano le donne che le hanno spedite nel Bel Paese con la promessa di una vita migliore e l’obbligo di ricompensarle con cifre altissime che arrivano anche a 50 mila euro. Poi il riscatto: un nuovo lavoro, le pulizie in alcune case private. Quando si è però recata – dice lei – a rinnovare il permesso di soggiorno, le hanno annunciato: «Ora non hai un contratto, stai lavorando in nero, la tua carta è bloccata». Probabilmente quello che lei chiama «contratto falso» è solo un pezzo di carta che le hanno fatto firmare facendole credere che così sarebbe stata in regola. Il risultato? Trattenuta al Cie da due mesi. Come tutte le vittime di tratta in un centro di identificazione ed espulsione non ci dovrebbe stare. Dovrebbe vedersi applicato l’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, ma solo se farà richiesta di ricevere una protezione internazionale. C’è un legale al lavoro per questo. «Quella donna mi ha chiesto 50 mila euro, ne devo dare ancora 20 mila. Se mi rimandano in Nigeria – è la sua nera previsione – Questi mi ammazzano, perché quei soldi non ce li ho».
Veramente paradossale, invece, l’avventura di Agnija. Aveva un visto turistico, ma non si è recata in Questura come prevede la procedura. Quando l’hanno fermata per un controllo di routine, è stata dunque trovata non in regola. Si finisce al Cie anche per un’applicazione troppo rigida delle norme.
C’è poi il caso di Maria, che può essere preso ad emblema delle tante storie dei profughi dell’ex Jugoslavia. Né la Croazia né la Bosnia la riconoscono come propria cittadina. «Sono in Italia da quando avevo 18 anni, sono scappata dalla guerra – informa – siamo arrivati come profughi e qui nessuno ti dà dei documenti se non hai i tuoi». Maria si fa prendere spesso dallo sconforto e, qualche volta, ha pensato di togliersi la vita. Lo confessa, amaramente, mentre si contorce sul letto a causa di una patologia che le provoca forti dolori. Il legale che l’ha presa in carico sta facendo la procedura per farle riconoscere l’apolidia e poi avanzerà una richiesta di asilo internazionale. «Fra un mese ho l’udienza – annuncia – Ma anche se l’avvocato mi dice che riuscirà a farmi uscire, io mica ci credo».
Infine, una donna rom. Prima di raccontare la sua storia, telefona al figlio che invece il permesso di soggiorno ce l’ha e al cellulare gli detta il sito Internet su cui potrà leggerla. È da 30 anni nel nostro paese e l’hanno “pescata” in una baraccopoli di Torino. «Sono una girovaga, quando ci hanno presi dormivo in una carovana – ripercorre quanto successo qualche mese fa – Sono qui da quando sono piccola, nessuno di noi ha i documenti, per voi non esistiamo e senza documenti non possiamo lavorare». L’elemosina è l’unica cosa che può fare. Ha otto figli, il primo l’ha partorito all’età di 17 anni («A 17 anni qui siete ancora bambine e giocate con le bambole», sottolinea); il più piccolo ha 7 anni, la più grande 24. Come lei, tutti i rom portati in un Cie rischiano di uscirvi perché non identificabili per poi rientrarvi nuovamente al prossimo controllo. Che, sicuramente, non sarà l’ultimo.
Quando si esce dal braccio femminile per raggiungere quello maschile, Yuliana chiama da lontano. E’ scalza, si aggrappa alle inferriate e urla: «Principessa, la prossima volta che torni portami un paio di ciabatte nuove».
Se le stanze delle donne sono curate, con foto appese alle pareti, dipinti e poesie scritte sui muri, le camere degli uomini sono spoglie. La direttrice del centro, Anna Maria Lombardo, ci racconta che per loro è molto più difficile adattarsi a questa vita da rinchiusi. Non partecipano a nessuna attività, al corso di italiano che si svolge nella struttura per esempio. Vogliono uscire, trovano ingiusto essere finiti al Cie. A parte gli ex detenuti (l’85% dei trattenuti maschi), alcuni tunisini mostrano i lividi provocati – dicono – «dalle manganellate» che hanno preso la notte della prima scossa di terremoto, fra il 18 e il 19 maggio.
«Quando c’è stato il terremoto – confessa Karim – abbiamo avuto paura e siamo scappati verso l’alto per cercare di scappare da lì, vedi dove la cancellata è incendiata?». «Non l’abbiamo incendiata noi – ci tiene a dire – era già così, ma sono arrivati gli agenti ed è successo un casino». Qualcuno ha reagito ed è stato portato al carcere della Dozza. «Ma il carcere – continua Karim – è meglio che qui, almeno conosci il giorno in cui uscirai. Qui non si capisce cosa succederà». E poi, dentro al Cie, tutte le giornate sono uguali. «Dormo tutto il giorno – riporta Bechir – delle volte mi sveglio che è l’alba. Non si può fare niente. Guardiamo la tv, qualche volta giochiamo a pallone ma sul cemento, senza terreno, ci si fa male». Eppure il Cie di Bologna, da quel che dice una ricercatrice universitaria che ci accompagna nella struttura durante la nostra visita, è molto meglio degli altri. Ci sono tre pasti al giorno, si può scegliere fra due o tre portate e, a volte, c’è anche qualche piatto tipico dei paesi di provenienza degli ospiti. I trattenuti ricevono anche 2 euro e 50 come argent de poche da spendere nel discount della struttura.
«Ma quando sei qui senza capire il perché puoi solo impazzire», tira corto Samir. E non c’è menù che tenga.
Alessandra Testa