"Cucinare in massima sicurezza": quando il cibo si prepara in un carcere di massima sicurezza

30 Novembre 2013 /

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Cucinare in massima sicurezza
Cucinare in massima sicurezza
di Francesca Mezzadri
In questo manuale di cucina, le donne non ci sono. Non ci sono, ma è come se ci fossero: nelle lasagne allo stipetto, nella patata incappucciata, nei rotolini stuzzicanti, nei broccoli baresani alle acciughe, persino nel dolce galeotto. Perché dietro questi piatti ci sono le sorelle, le zie, le madri dei veri autori di Cucinare in massima sicurezza, detenuti in regime di massima sicurezza, che hanno reinventato le ricette di casa in un ambiente diverso: quello del carcere. E hanno reinterpretato i piatti a modo loro, con quello che si trovavano davanti, o meglio con quello che soprattutto “non avevano” nelle loro celle, cercando di replicare i sapori casalinghi grazie ai ricordi e alle telefonate con le loro donne – “quei 10 minuti dove ti spiegano perché le melanzane alla parmigiana sono venute acquose”.
E non è un caso che la sorella di uno di loro ammetta che “leggendo questo libro sono venuta a conoscere parti della quotidianità di mio fratello di cui sono all’oscuro da tanti, troppi anni. Mio fratello quando tornava a casa, trovava il pranzo pronto e finiva con il caffè che gli veniva portato in poltrona, per poi uscire nuovo. Scoprire che oggi si fa il pane è strano. Anche incoraggiante.” E tutto in effetti è nato proprio da un’affermazione di suo fratello “Io in cella mi faccio il pane!”, un’affermazione colta durante un laboratorio di comunicazione realizzato nel 2009 nel carcere di massima sicurezza di Spoleto e che ha dato origine al singolare ricettario Cucinare in massima sicurezza edito da Stampa alternativa/Nuovi equilibri nel 2013.

In questo libro, in effetti, le prospettive si rovesciano. E così questi uomini, che prima di essere imprigionati, erano soliti a non alzare un dito in cucina – c’erano le loro donne che ci pensavano -, hanno dovuto cambiare abitudine nel carcere dove sono chiusi ormai da molti anni. E hanno saputo riadattarsi in un contesto estremo, dove lo spazio è limitato, dove non tutti gli strumenti sono leciti e dove non ci sono libertà. E così un manico di scopa è diventato un mattarello, il televisore un forno per far lievitare il pane, il polistirolo un frigorifero, uno spazzolino da denti con un temperamatite è diventato un coltello.
Anche per questo Cucinare in massima sicurezza più che un ricettario è un manuale di cucina e di sopravvivenza (un po’ come quello delle giovani marmotte) con, in pole position (“Prima di tutto”), le illustrazioni che accompagnano le spiegazioni su come fare i vari utensili: come realizzare un forno, come fare un coltellino etc etc.. Il manuale è a cura di Matteo Guidi, giovane ricercatore e tutor di quel laboratorio di comunicazione nel carcere di Spoleto, che ha raccolto una trentina di ricette dei detenuti – che hanno deciso di chiamarsi MoCa collective. Un gioco di parole che è un acronimo di Mondo Carcerario e che ricorda anche l’oggetto più usato e creativo che ci possa essere all’interno di un carcere: la caffettiera.
Il libro ha appunto il privilegio di capovolgere molti stereotipi. A partire da quelli di Matteo Guidi.
“Quando sono entrato per la prima volta in carcere per lavorare all’interno del laboratorio, ero convinto che si mangiasse in mensa perché i film mi avevano insegnato così. E invece ho scoperto che c’è un carrello che passa di cella in cella e distribuisce i pasti come si fa in ospedale… il primo pregiudizio che ho dovuto distruggere. Ci sono poi momenti in cui si mangia insieme, ad esempio per la cena delle 18 si può fare richiesta di un’ora di socialità, ma per la maggior parte del tempo i detenuti sono soli anche 22 ore al giorno in pochi metri quadri.”Anche se con il problema del sovraffollamento questa abitudine sta scomparendo, chi alloggia nelle celle di massima sicurezza è perlopiù “in singola”. Si tratta di uomini soprattutto italiani, di 50-60 anni che hanno vissuto almeno 10 anni consecutivi in carcere con pene da 30 anni all’ergastolo.
“C’è un rapporto col tempo completamente diverso da come lo concepiamo normalmente, estremamente dilatato: qui ci sono persone che hanno una condanna che sulla carta finisce nel giorno 9 del mese 99 dell’anno 9999, una sorta di fine-pena-mai. Anche per questo nel manuale è centrale il concetto di lentezza” spiega Matteo.
Sì, perché ci vuole tempo. Ci vuole tempo a costruire gli strumenti per cucinare. Ci sono alcuni oggetti proibiti all’interno del carcere -per evitare fenomeni di autolesionismo- come i coltelli, ma anche le pentole non devono mai essere sopra i 24 cm di diametro, e la moka mai al di sopra delle 3 tazze perché potrebbe scoppiare. Bisogna quindi arrangiarsi con nuovi utensili da creare.
E ci vuole dell’altro tempo per realizzare le ricette. I detenuti ne hanno a disposizione tanto nella propria cella -purtroppo sono poche le attività da fare fuori, visto che c’è un calo netto di lavoro e attività laboratori. Lo stesso spazio angusto implica un rallentamento nei movimenti perché 7 metri quadri con tavolino, letto, wc e lavandino, sono pochi, e anche ordinare gli ingredienti per la spesa non è un processo immediato.
Spesso ci vuole tempo anche per metter insieme alcuni ingredienti. Una delle ricette più significative all’interno del libro è proprio “la crostata dell’amministrazione”, che nasce giorno per giorno con la raccolta di frutta che l’amministrazione poco a poco ti passa.
E infine c’è voluto tempo anche per raccogliere tutto il materiale. Infatti, oltre alle ricette realizzate dai detenuti di Spoleto, Matteo ha aggiunto anche quelle provenienti da altre carceri di massima sicurezza autorizzate e “il mezzo più rapido e efficace per entrare in contatto con altri detenuti è stato la lettera. Da lì è nato questo gioco di raccolta di ricette e di informazioni che mi venivano spedite e io le leggevo e le valutavo in modo che rispecchiassero un po’ l’idea del libro che è quella di dare agli strumenti una priorità rispetto ad ingredienti e ricette”.
È veramente cibo slow, come afferma Matteo. “Anche l’idea di inserire nel libro i disegni per spiegare come fare gli utensili nasce da questo concetto di lentezza: è un chiaro esempio di bricolage totale applicato alla cucina. Al contrario della foto, che nel carcere deve essere richiesta e autorizzata, per fare un disegno c’è bisogno solo della mano, che in questo caso è quella di Mario. Mario non è un disegnatore, ma i suoi disegni esprimono lentezza: con un tratto unico di penna a sfera, sulla carta si delineavano poco a poco oggetti, realizzati un pezzettino alla volta. Il disegno è il contrario di un’istantanea”.
Le illustrazioni di Mario, che è anche uno degli autori delle ricette, sono così belle che l’idea di Matteo è proprio quella di presentare il libro all’interno di una mostra con esposti i suoi disegni originali. A Firenze è già stata organizzata a maggio una presentazione presso il vivaio del Malcantone, e, oltre all’esposizione dei disegni c’è stata anche una sorta di dimostrazione pratica di una ricetta con una cuoca professionista. Ride Matteo: “Per preparare una cosa molto semplice come una minestra ci ha impiegato 2 ore e si è anche tagliata visto che non era abituata con quel tipo di coltello: e così è venuto fuori quello che è in realtà è stato tutto il percorso”. Lungo e difficile, ma creativo nella sua incredibile semplicità.
Anche in Sardegna il manuale è stato presentato presso il santuario di San Cosimo di Mamoiada, all’interno di un festival, e c’è stata un’altra presentazione a Bologna il 28 novembre alle ore 18.30 organizzata dall’associazione Harambe e dall’associazione Universo presso il teatro tenda del parco della Montagnola. Invece a Milano domenica 1 dicembre alle ore 19. la location sarà quella del Ristorante 28 posti, gestito dalle persone detenute nell’istituto penitenziario di Bollate e dallo chef Raffaele Mancini.
L’obiettivo infatti è quello di promuovere il libro anche all’interno del mondo carcerario, in uno spazio comune che sia di contatto tra chi ci vive e chi ne è al di fuori, proprio per cercare di abbattere tutti quei pregiudizi che, volenti o nolenti, noi tutti abbiamo.
Non a caso, i MoCa collective, ovvero gli autori e “cuochi” detenuti, hanno dedicato questo manuale alla massa, nessuno escluso: proprio perché le ricette sono uno strumento facile da interpretare, così come il linguaggio della cucina è comprensibile a tutti. Un modo anche per riallacciare i rapporti con un mondo che, anche per loro, è lontano. Dopo tanti anni in carcere, molti di loro sono come bambini di fronte alla modernità attuale: mantenuti dalle loro famiglie, spesso non hanno idea del costo della vita, neanche dei prezzi dei prodotti per le loro liste della spesa.
Matteo ha invece deciso di dedicare il manuale Alla possibilità di scelta. “Ci ho pensato quando ero in Palestina e mi trovavo a lavorare con persone che non avevano neanche la possibilità di scegliere se andare a bagnarsi i piedi in riva al mare. La vita quotidiana di ognuno di noi si modifica in virtù di scelte che si possono o non si possono fare. In un carcere questo concetto è estremizzato perché il contesto è più piccolo, più chiuso, e all’interno di un’istituzione deputata al controllo della persona. Nella cornice della cucina, la possibilità di scelta – e il libro lo dimostra – cade su cose ancora più spicciole: poter scegliere se tagliare la cipolla in un modo più semplice con un coltello o doverlo fare con una lametta da barba, poter scegliere quale ingrediente mettere e non poterlo fare perché appunto non può essere ordinato in carcere. Qualsiasi istituzione ci impone delle scelte”.
E una scelta del collettivo MoCa è stata appunto quella del nome da darsi. MoCa collective: un elogio al caffè. “Per noi il caffè è una delle sostanze più importanti, che ci mantiene attivi e vivi in una società che ci vorrebbe passivi e spenti, e ci accompagna in un momento fondamentale che è quello dell’ora di socialità. Il caffè è la prima cosa che viene offerta quando c’è un trasferimento in una nuova cella, quando c’è una novità. Il caffè esprime la stessa ritualità che c’è all’esterno.”
Il caffè è un sorso di libertà, da gustarsi con lentezza.

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