Una manciata di recensioni e considerazioni sulla stagione dei teatri

di Silvia Napoli /
28 Giugno 2025 /

Condividi su

Come già la serata alla sede degli amici di Altre Velocità ci aveva fatto intuire, la stagione dei teatri si spalma dalle sedi di città alle mille e una location festivaliere su tutto il territorio nazionale… C’è continuità talvolta di sedi come accade per le mille e una programmazioni dei Teatri di Vita per rimanere alle nostre aree di riferimento e talvolta sedi apparentemente molto distanti da quella che consideriamo compiutamente una fruizione culturale si rivelano come per esempio gli spazi della Montagnola Republic, pretesti per intelligenti rivisitazioni ed elaborazioni. Il caso, per esempio, del reading tratto dallo spettacolo testimonianza di Kepler 452, A place of safety, uno degli eventi che hanno segnato l’ultima stagione di Ert. Reading atteso e vissuto con partecipe attenzione da un pubblico evidentemente provato non solo dal caldo, ma dalle allarmanti vicende geopolitiche internazionali e sgomento dinnanzi l’evidente restringimento di futuro per le generazioni umane che ci si prospetta Anche in questa versione tutta la forza di un implicito messaggio a riconsiderare la follia del mondo da un punto di vista inusuale e orizzontale arriva forte e chiara dalle immagini di Baraldi, ormai socio cineasta a tutti gli effetti come pure dalle sottolineature musicali della contrabbassista in scena. A corollario del tutto le preoccupate note di Borghesi sullo stato teatrale dell’arte nella nuova versione ministeriale, che imporranno una presa di coscienza e parola da parte di tutto il mondo culturale italiano, mai così sfilacciato e depotenziato come in questo momento… nel frattempo, debutta anche l’ultimo lavoro di Andrea Adriatico, di cui si sentirà parlare in stagione, 7 bambine ebree, internamente a questa rassegna matrioska a carattere queer, ospitata dagli instancabili di Teatri di Vita a supporto culturale del Pride.  

Ci torneremo naturalmente, così come torneremo sugli studi di Febo Del Zozzo, che diverranno uno spettacolo vero e proprio per Arena del Sole nella nuova stagione. Intanto le Ariette hanno tenuto la loro classica conferenza stampa in stile vintage riguardo le programmazioni estive e si preparano a sanare le nostre ferite interiori e i nostri strappi territoriali, proponendoci la versione partecipata, corale, nelle piazze di Valsamoggia, dei Vangeli a lettura pasoliniana naturalmente rielaborata secondo le caratteristiche di un teatro di condivisione che abbiamo imparato a conoscere ed amare nel tempo. E naturalmente mai forma e sostanza si fanno più congruenti di così. Ma andiamo a recensioni ed anticipazioni che sono rimaste indietro, in attesa di potervi riferire da quel di Santarcangelo.  

Cominciamo naturalmente da Teatro Salute, ovvero questa peculiare realtà probabilmente non cosi comune in altre regioni, di intesa programmatica tra realtà sanitarie, istituti culturali della salute mentale, Istituzioni teatrali, di una compagnia stabile e residente, nient’affatto amatoriale o arteterapeutica, che si dota di un regista teatrale tra i più brillanti della sua generazione, Nanni Garella, al fine di mettere in scena compiutamente lavori teatrali complessi, classici, di repertorio, compositi, certamente non minimalisti. Spettacoli-mondo in qualche misura e rivolti tout public. Nel tempo inoltre gli attori con esperienza di disagio mentale, diventano retribuiti e professionisti a tutti gli effetti e nel tempo, la compagnia ha saputo anche investire sull’innovazione di se stessa grazie a sinergie inedite e significative quale quella con il teatro danza di Balletto Civile, la creazione di Michela Lucenti, autrice, coreografa, attrice kabuki, come scopriremo a breve nella avventurosa conversazione con lei, punteggiata dai vuoti e sussulti di Trenitalia al massimo del suo stress test sui binari liguri. Rammentiamo qui che Lucenti è artefice del progetto Carne, articolatissimo su base regionale, scientemente calibrato su una postura non festivaliera e che mille incertezze si aprono ora con un ERT sede vacante e con la deliberata volontà ministeriale di limitare e circoscrivere per usare un autentico eufemismo, tutte le espressioni e attività più ibridate e performative.  

Michela, dopo il successo, stante infatti la ripresa in questa stagione, di Orgia una riuscitissima combinazione di teatro di parola su movimentazione coreutica dei corpi, spiazza, sorprende, ma anche diverte, (in tutte le accezioni del termine) questo Don Giovanni, rutilante realizzazione della Compagnia. Adattamento da Moliere che ti vede anzitutto protagonista in panni maschili e poi prevalentemente attrice di parola, in costume, praticamente presente dall’inizio alla fine di una pièce a ritmo indiavolato.  

Si ci sono un po’ di cose da spiegare. Questo lavoro nasce al tempo stesso da una lunga attesa e da una forte determinazione di Garella che aveva in mente proprio una certa metodologia di lavoro su una storia che è sin troppo nota e rivissuta già storicamente in mille forme e linguaggi, per pensare di riuscire a innovare ancora rimanendo contemporaneamente dentro un perimetro di classicità e accessibilità. considera che anche il lavoro sul linguaggio e la traduzione ha spostato pochissimo rispetto all’originale. Casomai si è sforbiciato e le differenze più vistose sono nel finale. Nanni aveva anche le idee ben chiare sul ruolo che dovessi avere io per diverse ragioni. Vero è che io ho una formazione anche attoriale presso il Teatro della Tosse e la Danza esprime in qualche modo il mio lato più ribelle che si vede bene in questo festival di performatività a carattere civile come piace dire a me, che curo a Sarzana. o che emergerà in questo Le Fenicie, da Euripide che sto preparando per il festival del teatro greco e che vede una corposa compagnia al femminile in scena. Poi sto preparando un lavoro più piccolo che vede me e il mio musicista elettronico di riferimento, che aveva lavorato con me in Eclisse, centrato sulla figura di Giocasta. Sempre una derivazione della saga tebana ma che riflette di più sulla libertà femminile, la libertà di autodeterminazione sul suo corpo tanto conculcata e vede al centro il rapporto con un uomo più giovane. Ma voglio fare qui un affondo sulle Fenicie, perché in questo fosco momento storico io ho sentito impellente il richiamo di un ritorno alle fondamenta dei classici: questo testo dice tutto sui meccanismi distruttivi che sembrano predominanti nella Storia e ai quali si assiste con senso di impotenza. Specialmente alle Donne tocca questo destino di dolorosa testimonianza e nello stesso tempo tutta la speranza può essere affidata solo a loro. Tornando a Don Giovanni, avrai notato che tutta la compagnia nelle sue componenti è impegnata a ciclo continuo in una messinscena che ha tempi e modi della Commedia dell’Arte, in cui i personaggi riducono al minimo la componente etica e psicologica. Piu che altro sono maschere nel grande gioco delle convenzioni sociali e della lotta di classe. Tutto l’apparato moralistico, pseudo religioso, tutta l’annosa dialettica amore e morte vengono beffardamente e satiricamente messi da parte. In una vertigine storica è come se lo spettacolo prefigurasse un esprit de finesse illuminista, anticipatore di una postura di ragionata libertà. Lo so che Don Giovanni potrebbe risultare una antipatica figura patriarcale, maschilista e forse misogina. Ma attenzione, è come se la regia volesse suggerirci che il tema è la laicità delle nostre azioni e prepararci al fatto che le questioni di genere si dispongono di lì a poco in modo trasformativo.  

Anche le questioni della dissoluzione in chiave punitiva del peccatore, dei sensi di colpa come elementi dell’identità occidentale fondativi e imprescindibili vengono elegantemente e nello stesso tempo farsescamente sciolte in una questione materialistica: e la paga degli attori? Don Giovanni non risulta così una romantica figura in solitaria di eroe o antieroe, ma una sorta di capocomico millantatore che non paga i suoi personali debiti e non assolve alle sue funzioni di impresa. Perché è un inutile piccole nobile latifondista e diseredato, quindi la morte in prospettiva è quella della sua classe sociale. tutti i nostri attori provenienti dai percorsi sulla salute si sono impegnati al massimo come hai visto ed erano motivatissimi. perché alla fine il divertimento è tanto, quando si mettono in evidenza i meccanismi da vaudeville degli equivoci, dei personaggi in incognito, delle entrate e delle uscite.  

Augurandomi che siano ancora molteplici le situazioni in cui poter avere a che fare con questo tipo di progettualità, date le prospettive niente affatto rosee di finanziamento pubblico, passo a considerare di nuovo la scena ravennate dal punto di vista della prestigiosa super rassegna Ravenna festival, giunto ormai alla edizione numero 36. Iniziato il 31 di maggio, in chiusura il tredici di luglio, con una appendice prevista per l’autunno. Prima di addentrarci in un reportage da uno degli spettacoli più comunitari ultimamente visti, facciamo due chiacchiere con uno degli storici main curators di Ravenna festival, ovvero Franco Masotti. Il claim del festival di quest’anno recita Donde hay musica, no puede haber cosa mala, che è proprio una frase ripresa dal Don Chisciotte di Cervantes su cui speriamo di potervi riferire presto. Naturalmente ci piacerebbe pensare che le cose stiano così, ma in questo mondo ipertecnologico e medievale nello stesso tempo tutto il bello e tutto il male sembrano sempre più in grado di coesistere sincronicamente, senza alternanze.  

Possiamo riferirci ad una missione storica di questo festival così internazionale da sempre di riconnessione al genius loci di Ravenna porta d’Oriente, in linea peraltro di grande attualità con le teorizzazioni cacciariane degli imperi quali egemonie sincretiche e meticce? 

Si questo festival, che bisogna sottolinearlo, poteva una volta contare su finanziamenti pubblici molto più cospicui e strutturati, ha sempre avuto un collegamento preciso con il mondo quale insieme di comunità diverse ma tutte culturalmente attive e significative e con i tempi presenti in cui per sorte ci tocca vivere. questo significa una serie di relazioni e collegamenti che, come cerchi concentrici, partono anzitutto dal nostro circostante e dunque in primis Ravenna festival è connesso ad altre rassegne del luogo che quest’anno ci hanno parlato di conflitti, guerre, migrazioni. La musica e il nostro marchio distintivo perché è di per sé un linguaggio di grandi attraversamenti, più che mai necessari. A noi interessa avere un orientamento e una postura chiari sui temi della pace e del diritto internazionale ma non certamente schierarci come una tifoseria. Per questo accoglieremo sempre le voci di chi porta con sé questi valori e non ci faremo appiattire dentro gabbie censorie di cui abbiamo gi visto indizi preoccupanti all’inizio del conflitto russo ucraino. La musica, ritornando a lei è la massima espressione con la sua infinità varietà di stili, accademie, tradizioni popolari e contaminazioni, di un potente vettore di ispirazioni plurime, di suggestioni di autentica mixete. Ma naturalmente non c’è solo la musica. Il collegamento con tutte le altre espressioni performative è molto molto forte. Quindi le narrazioni di Marco Baliani sul tema del coraggio civile, la danza di Misha van Hoecke e di Monica Francia, Nerval Teatro, i fantasmi da Edith Warthon, di Fanny e Alexander, ma soprattutto le Albe in tutte le loro emanazioni.  

Questo Don Chisciotte ad ardere si inscrive in tutti i discorsi che ho fatto fin qui, perché al di là della qualità intrinseca e della potente rilettura di un classico picaresco, nomadico e un po’ folle, emblematico di come si possa rileggere culturalmente tutto il tema dello stigma e dell’intolleranza, ha il suo fulcro nel dispositivo della chiamata pubblica. Ebbene ci piace pensarci così come una grande chiamata pubblica che investa tutta la territorialità dal mare all’interno. Per questo per noi è molto importante coinvolgere piccoli comuni, spazi preziosi restaurati come Piangipane, recuperare feste tradizionali come la Romagna in fiore e il Trebbo. In questa ottica è grande motivo di orgoglio per noi aver coinvolto Luigi Gigio Dadina con la sua progettualità legata agli spazi del Cisim e il Grande Teatro di Lido Adriano. Quando mi parli di Porta d’Oriente devi sapere che proprio Lido Adriano, la nostra spiaggia popolare ed ora luogo di migranti, era questa immaginifica sede. Bene dunque ha reso onore a questo patrimonio di stratificazioni antropologiche la messa in scena tratta da Mahbarata del nostro Gigio che ha voluto proprio mescolare la chiamata pubblica meticcia con il pubblico vecchio e nuovo legato ad Albe, ai giovani del Cisim, alla critica più attenta. Una bella contaminazione su una sabbia così carica di storia.  

Per tornare alla vocazione musicale del festival, peraltro presente in modalità diversificate anche negli spettacoli più classicamente teatrali, mi colpiscono alcune caratteristiche salienti, come la mescolanza di alto e basso, il ritorno di grandi orchestre e messe in scene operistiche anche sul fronte della contemporanea, una certa significativa presenza femminile nelle autrici, interpreti, ma anche nelle tematiche. 

Come avrai compreso noi intendiamo la Cultura e le culture come potenti vettori di emancipazione, decolonizzazione, uguaglianza e universalismo. Da qui deriva una parolina magica che è accessibilità. Significa biglietti a costo contenuto, ma significa anche pop di qualità, autorialità femminile, internazionalismo. Sai bene che abbiamo concepito questo festival esattamente come un punto di approdo e future ripartenze. Il maestro Muti come prequel ha fatto questo viaggio musicale in 300 comuni d’Italia, ha invitato qui coristi da tutto il paese per un seminario gratuito di esercitazione su pagine verdiane: si tratta del progetto cantare amantis est. Abbiamo invitato anche quattro musicisti della diaspora palestinese qui a sottolineare che il nostro non è un ecumenismo casuale privo di distinguo. Ci sono pezzi di musica rock, che sono nel tempo divenuti classici di storia musicale del 900 come premiata Forneria Marconi. Poi abbiamo il pop di classe di Malika, certo, ma anche cantautrici di spicco e di nicchia insieme come Cat Power che si esercita su Dylan, per esempio. Oppure Fatoumata Diawara, espressione della musica della nuova Africa, già collaboratrice di Damon Albarn, tanto per farne un altro significativo. In tutto questo, proprio perché badiamo ai contenuti e non alle provenienze, abbiamo avuto Noa: il suo discorso sulla situazione di Gaza è stato durissimo nei confronti dello stato di Israele, uno dei momenti finora più toccanti di tutto il festival. Qualcuno dal pubblico ha provato a contestare e certo ci sta che si esprimano punte di dissenso in un momento così caldo, ma la nostra attitudine a favorire il dialogo, a non mettere veti e barriere culturali permane più che mai convintamente. Riguardo al femminile che mi dicevi, ci sarà questa chicca rappresentata dall’opera di Per Luigi Pizza su Anita Garibaldi, una figura forse sorprendentemente trascurata anche dal femminismo nostrano: sarà rappresentata proprio alla fattoria le Mandriole dove la nostra eroina infine mori. Ci sarà una orchestra di 60 elementi, con una soprano e un baritono in scena. Una sorta di mise en espace. Mi consta anche di sottolineare il grande ritorno di tre mostri sacri della musica contemporanea quali Arvo Paart, Heiner Goebbels, regista e uomo di teatro a tutto tondo che porta qui la sua opera mondo Surrogate cities e infine Uri Caine che in linea con lo spirito di rivisitazione decoloniale di cui accennavamo, propone questa sua nuova opera tra jazz e musicalità altre dedicata alla straordinaria figura di Octavius Cato, attivista nero per i diritti civili nell’800, cresciuto a Filadelfia, città natale dello stesso Caine e brutalmente assassinato per le sue posizioni.  

Mi congedo da questa illuminante intervista, certo in parte sollevata dal sentire ribadita in questa narrazione tutta la forza, che ha saputo avere spesso e volentieri nella nostra regione la sinergia virtuosa tra pubblico e privato, intuizioni di singoli, traino e valorizzazioni istituzionali, partecipazione popolare nel senso migliore del termine, risonanza mediatica.  

Tutto questo appare evidente nella realizzazione di quella che anche a distanza di qualche tempo mi appare come una esperienza multidirezionale, nel senso che esplora le infinite possibilità del basso, della verticalizzazione dell’intersezione di corpi, linguaggi, anime e generazioni che è stato il Bhagavad Gita, nella direzione artistica di Luigi Dadina e Lanfranco Vicari. Stiamo parlando di un testo sacro di 700 versi, parte del Mahabharata di cui si diceva. poema assurto a celebrità occidentale per via di un famoso spettacolo mondo da parte di Peter Brook e in seguito anche di una resa cinematografica non meno nota che vedeva protagonista il compianto Mezzogiorno. Il core del poema è rappresentato dal dialogo costante e incalzante tra il guerriero Arjuna, e il dio Krishna. I temi affrontati, al di là del complesso contesto familiare, tribale e dinastico sotteso ad una trama che definire intricata è usare sicuramente eufemismo, sono quelli eterni della responsabilità morale dell‘individuo in relazione alla collettività e delle sottili ma pregnanti distinzioni e considerazioni tra difesa, aggressione, non violenza, pacifismo, antimilitarismo, resistenza, guerriglia, guerra guerreggiata sul campo, sangue di innocenti comunque versato, destino e missione. Quanto sia lecito sottrarsi alle proprie responsabilità sociali e morali. Cosa significhi aderire al proprio posto nel mondo eppure esercitare critica… Dunque, quello a cui partecipiamo, perché assistere non è proprio il termine appropriato è una ricchissima azione monstre per durata ma più che altro per numeri quantitativi, più di un centinaio di persone coinvolte, che da un remoto e lontano passato viene a guardarci fissi in viso con gli occhi del presente. Per questo dentro l’epica indù si situano ogni tanto personificazioni di figure intellettuali dell’800 quali Simone Weil e naturalmente Gandhi, figure della resilienza. A quanto pare prezioso bene per fortuna trasmettibile, esportabile al di là del colore della pelle e della generazione di appartenenza, secondo i nostri autori. Tutto questo è possibile grazie ad un contenitore formato e progetto di grande respiro, nato da una reale volontà giovanile dal basso, quale è stata la storia di Cisim, nel tempo, in tutte le sue evoluzioni prima di saldarsi all’esperienza delle Albe Ravenna Teatro e costituire una felice combinazione di contaminazioni e sconfinamenti che a mio avviso ha pochi eguali in Italia.  

Oggi quelli che fino a qualche anno fa erano regaz in fissa con il rap, sotto la sigla-ombrello Il Lato oscuro della Costa, sono giovani e al contempo maturi professionisti dell’arte, della cura e dell’organizzazione tout court. Dal primo momento rituale e magico in spiaggia, pubblico più attori, ci si trasla nel giardino di Cisim, sbalorditi di assistere ad un qualcosa di irripetibile e inclassificabile, dato che tutte ma proprio tutte le generazioni a sottolineare il peso del lascito, sono plasticamente rappresentate e vedere bimbi piccolissimi in grado di stare in scena per due ore e di scandire battute filosofiche condite di nomi astrusi e impronunciabili per qualsiasi adulto medio ci consente di dire che la pedagogia di non scuola che forse è addirittura simposio, ginnasio, ateneo, funziona eccome ad ogni livello. Perché il fatto è che ci sentiamo in una vertigine spazio-temporale difficilmente raccontabile al core della nostra matrice indoeuropea che precede la classicità greca così come la conosciamo. E il tutto avviene ai nostri occhi in una cornice che ha del musical, dal momento che a vista abbiamo il gruppo musicale guidato da quel Lanfranco Vicari che oggi al posto del freestyle, ci impartisce momenti emotivi altri grazie a composizioni musicali ad hoc cantate da lui e da una straordinaria voce femminile non professionista. Gigio tutto il tempo in scena, ma discosto e quasi celato alla vista si riserva pochi tocchi a leggio a sottolineare l’urgenza dei rovelli e delle risposte: potere, identità, destino, sono i contenuti del nostro oracolare quotidiano.  

I costumi a cura della meravigliosa onnipresente Federica Vicari, che risolve ogni tua esigenza perché magicamente conosce ogni tuo bisogno quasi telepaticamente, ricollegano ad una verità scomoda da elaborare, ovvero il senso del sacro legato comunque ad una certa idea di guerra, di conflitto ineluttabile e forse palingenetico che fa parte del nostro Dna e perciò abolisce fronzoli e colori sgargianti solitamente collegati ad un certo immaginario esotista, per vestire tutti ma proprio tutti in tuta o comunque pantaloni militari e anfibi. Emozioni in sequenza, loro sì, rutilanti e un gran finale con cena collettiva romagnola anche questa un po’ magicamente predisposta, quasi che una lampada di Aladino si fosse messa in funzione. Consentite le ore piccole anche ai minori e tanta allegria all’ultima rappresentazione dopo diversi allestimenti precedenti. La promessa che faccio a me stessa, ai miei interlocutori e ai lettori è di ritornare al più presto su una esperienza globale e paradigmatica quale questa di lido adriano, attivissima peraltro in tutto l’arco dell’anno con programmazioni pomeridiane e serali di tutto rispetto. Nonostante i tempi grami ancora è possibile parlare di una Romagna Felix.  

Articoli correlati