Licenziamento tecnologico: non basta un messaggio sul telefono per perdere il lavoro

19 Febbraio 2019 /

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di Sergio Palombarini
In un celebre film del 1989, R. Zemeckis ipotizzava un futuro anno 2015 in cui si poteva essere licenziati con un messaggio e una video-chiamata. Gli amanti di “Ritorno al futuro” forse non immaginano che, nella realtà del 2016, un licenziamento simile non sarebbe sembrato così assurdo alla Corte d’Appello di Firenze. Ma per comprenderne la ragione bisogna partire dal passato.
Il licenziamento non è cosa da prendere alla leggera, ed infatti il legislatore ha stabilito le “norme per i licenziamenti individuali” con la legge n. 604 del 1966. In particolare la legge (oggetto di diverse modifiche negli anni) stabilisce che il datore di lavoro “deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”, che viceversa sarebbe “inefficace”(art. 2, co. 1). Per il legislatore non vi è dubbio su cosa sia la “forma scritta” o la “firma” di un documento.
Tuttavia l’avvento dei computer prima e dei cellulari poi hanno costretto il legislatore a intervenire nuovamente e, dal 2006, per avere un documento informatico dotato di “validità ed efficacia probatoria” è stabilito il requisito della cosiddetta “firma digitale”. Per la precisione il documento dev’essere formato “con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore” (art. 20, co. 1-bis, d. lgs. n. 82/2005, modificato con d. lgs. n. 159/2006).

Allora senza firma digitale il documento informatico è inutile? Dipende. Infatti, aggiunge il legislatore, “in tutti gli altri casi, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio”.
Viene spontaneo chiedersi come si sia concretizzata tale “libertà di valutazione” nei tribunali. La Corte di Cassazione aveva già evidenziato che, in tema di forma scritta del licenziamento, non bisogna usare canoni “restrittivi”. Infatti non è imposto l’uso di “formule sacrali” al datore che vuole licenziare e tale volontà può essere manifestata in forma indiretta, purché chiara al punto da permettere al lavoratore di difendersi (v. Cass. sez. lav. n. 6900/1995; Cass. sez. lav. n. 17652/2007).
Partendo da questo assunto, la Corte Suprema ha prodotto il seguente ragionamento. Dato che l’art. 2705 del codice civile stabilisce che il telegramma sottoscritto dal mittente ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, allora anche il telegramma dettato tramite il servizio telefonico, se si prova la sua provenienza (anche per testimoni o presunzioni), ha la stessa efficacia.
E, dato che la lettera di licenziamento è una scrittura privata (un atto unilaterale recettizio per la precisione), allora anche il licenziamento può essere comunicato tramite telegramma sottoscritto. E dunque ben si può considerare valido ed efficace il licenziamento comunicato con un telegramma dettato al telefono, se il mittente è certo (v. Cass. n. 19689/2003; Cass. n. 9790/2003; Cass. sez. lav. 10291/2015).
È su queste basi che la Corte d’appello di Firenze (sent. n. 629/2016), statuendo sulla validità di un licenziamento di cui non era in discussione la provenienza, ha riconosciuto il requisito di forma scritta a un sms. La sentenza certo può sembrare originale, ma in realtà è tutt’altro che isolata. A ogni modo, prima che qualcuno metta mano allo smartphone, è bene precisare due cose.
Innanzitutto, che gli orientamenti della Cassazione sono influenti, ma non vincolanti per i giudici di merito, che possono contraddire il parere del giudice di legittimità. In secondo luogo che in tribunale il datore di lavoro di “Ritorno al futuro” sarebbe pesantemente sanzionato se Martin Mc Fly impugnasse il licenziamento.
Infatti (e per fortuna) oltre alla forma scritta vi sono altri requisiti per licenziare legittimamente qualcuno (come una chiara ed adeguata motivazione): non basta un messaggio con scritto “sei licenziato”.

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