di Cash City Workers
Pubblichiamo un’intervista che abbiamo fatto ad Alberto Prunetti, autore del bellissimo libro Amianto – Una storia operaia (qui una recensione di Valerio Evangelisti ). Alberto, nel suo libro, raccontando la storia del padre assassinato dall’amianto ci racconta un pezzo di storia della classe operaia italiana e i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni.
E così è stato anche in questa intervista, dove partendo dalla vergognosa sentenza della Cassazione sul processo Eternit si è arrivato a parlare di Jobs Act, di Rojava, di come sui luoghi di lavoro ci ammazzano e succhiano ogni energia vitale in maniera sistematica e organizzata e di tanto altro. Una chiara indicazione emerge da questa chiacchierata e più in generale da questa vicenda: non dobbiamo dimenticarci che lottare contro questo stato di cose presente è una maniera anche per preservare le nostre vite e che niente ci viene gentilmente concesso dai padroni che nella lotta di classe sono disposti ad impiegare qualsiasi tipo di arma, anche quelle chimiche.
Da quanto tempo è noto il fenomeno dell’amianto? Che tipo di effetti ha?
In questi giorni i giornali hanno riprodotto una sentenza del tribunale di Torino che denunciava la pericolosità dell’amianto per la salute dei lavoratori. Era una sentenza del 1906. Il fenomeno ovviamente era anteriore. Comunque già ai primi del secolo scorso la letteratura medica cominciava a denunciare la pericolosità del minerale. Negli anni Settanta, c’erano ampie prove scientifiche al riguardo. I tre principali e consolidati pericoli per la salute umana, correlati all’esposizione, professionale e ambientale, sono l’asbestosi, il tumore polmonare e il mesotelioma.
Quest’ultimo è un tumore rarissimo ma che colpisce con più frequenza nei siti dove si lavora amianto, o nei bacini industriali che facevano uso di amianto (ad esempio, nei pressi di raffinerie e acciaierie). L’asbestosi è simile alla silicosi e spesso dà luogo a gravi difficoltà respiratorie, con cui si riesce anche a convivere, nonostante tutto. Nei casi più gravi porta però alla morte per soffocamento. È tipica dei lavoratori che estraevano o manipolavano l’amianto. Il tumore polmonare è frequente in quei lavoratori che oltre all’amianto poi sono stati a contatto con altri agenti inquinanti. Probabilmente mio padre, che è morto per tumore polmonare dopo 15 anni di esposizione professionale all’amianto, ha patito la sinergia tra fibre di amianto incistate e il benzene e altri inquinanti (gas di saldatura, metalli pesanti) respirati in raffineria.
Raccontando la storia di tuo padre, sei riuscito a raccontare molti degli aspetti della vita della fabbrica e dei suoi cambiamenti dagli anni 60 ad oggi, dalle ristrutturazioni alle esternalizzazioni. Come, secondo te, questi cambiamenti hanno influito sul fenomeno dell’avvelenamento sistematico degli operai?
È chiaro che la riduzione della conflittualità operaia e la dismissione industriale da un lato, assieme alla delocalizzazione e al sistema della “somministrazione” interinale dei lavoratori “esterni” dall’altro, hanno peggiorato le cose. I lavoratori esternalizzati e i trasfertisti tendono a essere più esposti a malattie professionali perché i padroni fanno fare il lavoro sporco alle ditte in subappalto, così che se qualcuno si fa male o si ammala, non saranno loro a pagare. Al peggio, il rischio va sulla ditta appaltatrice. Inoltre la crisi e la dismissione industriale (o la riconversione con delocalizzazione verso mercati con costo del lavoro più basso e normative sulla sicurezza e sull’ambiente meno stringenti) implicavano anche una scarsa manutenzione degli impianti, che diventano più pericolosi.
Mio padre si lamentava del fatto che gli impianti industriali in cui lavorava a fine carriera nei primi anni Novanta erano vecchi e logori, pieni di “pezze”, rispetto agli stabilimenti di fine anni Sessanta in cui aveva cominciato a saldare da giovane. Inoltre i colleghi neo-assunti ormai arrivavano dalle ditte interinali che facevano caporalato o avevano comunque contratti brevi e questi ragazzi tendevano a non dichiarare i problemi di sicurezza perché rischiavano di essere licenziati. O meglio: rischiavano di non vedersi rinnovato il contrattino a tempo determinato. Anche la fine delle grandi mobilitazioni operaie degli anni Settanta produce un aumento del rischio: se il padrone si sente il fiato sul collo dei sindacati e degli operai, è costretto a tenere alti i salari e a occuparsi di sicurezza, altrimenti pacche sulle spalle e tanti saluti. D’altro canto va anche detto che negli anni Settanta si tendeva a monetarizzare il rischio: ovvero, fai un lavoro usurante? Chiedi più soldi in busta paga. Ma fallo uguale.
Come si sono organizzati i lavoratori, anche in maniera individuale, per combattere la nocività e quali sono stati i momenti più alti della lotta? Il sindacato è stato sempre al loro fianco nella denuncia delle condizioni di lavoro?
Riguardo al tema dell’amianto? Direi che a Casale sono stati i pionieri della lotta contro l’amianto, perché il problema da loro era letale. Là il motore della vertenza è stato fatto girare per 30 anni da due sindacalisti della CGIL, Bruno Pesce e Nicola Pondrano, che sono ancora adesso in prima fila. Bruno e Nicola hanno incarnato lo spirito migliore del sindacalismo. Se tutti i sindacalisti fossero come loro, sarebbe un altro paio di maniche. Pian piano, assieme ai familiari delle vittime, sono riusciti a mobilitare tutta la città e a portare il tema al centro dell’opinione pubblica. Tra i momenti più alti della lotta penso vada ricordata la notte in cui i cittadini scoprirono che il proprietario dell’Eternit stava convincendo il comune a uscire come parte civile dal processo: i casalesi invasero il municipio e ottennero di non barattare quattro spiccioli con la giustizia.
Ovviamente la giustizia è di là da venire, ma questa è colpa delle istituzioni. Quanto al sindacato, ti direi che spesso su questo problema in passato è rimasto immobile e solo alcuni sindacalisti, per spirito personale, senso di giustizia e impegno politico, hanno in maniera individuale lottato a fondo, tirandosi qualche volta dietro il sindacato per la giacchetta. Alla Breda di Pistoia ricorderei il caso di Marco Vettori, lui stesso morto per un tumore, che ha dedicato anni della sua vita a combattere e a mobilitare gli operai che costruivano i vagoni ferroviari, infestati d’amianto. D’altro canto, la logica del sindacato degli anni Settanta era volta innanzitutto a difendere il posto di lavoro e gli stessi Pesce e Pondrano, quando chiedevano la chiusura degli stabilimenti Eternit di Casale, avevano spesso il sindacato contro, sindacato che rivendicava prima di tutto l’occupazione e i posti di lavoro. È un vecchio problema che torna spesso a galla. Aggiungiamo anche che non sono mancati sindacalisti pagati o “infiltrati” dai vertici aziendali, come è emerso dalle carte delle inchieste.
Come si lega la lotta alle nocività alla lotta per il diritto al lavoro e per la riduzione dell’orario di lavoro?
Non sono problemi scissi gli uni dagli altri. Bisognerebbe trovare occupazione facendo lavori di bonifica che devono essere fatti pagare a chi ha inquinato. Il problema è che il mantra della politica è che “non ci sono i soldi per fare le bonifiche”, ma poi la giustizia prescrive chi inquina. La giustizia ovviamente non è uguale per tutti, difende il sistema di potere e gli assetti di classe in atto. Lo diceva una vecchia talpa tanti anni fa e non mi sembra che gli eventi di oggi possano smentirla. Del resto, se nessuno presenta mai il conto ai padroni, è difficile fare bonifiche. Ormai anche gli orari di lavoro tendono a aumentare, invece che a ridursi, come cresce l’età dei lavoratori. Soprattutto chi lavora nella grande industria, invecchia male. Così ci si espone non solo a nocività ma anche a rischi e pericoli. Pensiamo a quanti lavoratori muoiono a pochi metri dalla pensione. Una riduzione degli orari a parità di salario e dell’età pensionabile potrebbe ridurre i morti e gli infortuni sul lavoro, con un risparmio sulle spese sanitarie e sugli indennizzi Inail. Ma al solito il padronato si ferma all’economia e alla contabilità meccanica sulla produttività estratta dalle ore lavorate… insomma, le cose vanno in senso opposto a come dovrebbero andare. Lo prova il fatto che mentre scrivo viene approvato il Jobs Act, che sarà l’ennesimo colpo ai lavoratori, la medicina amara da ingoiare che non fa bene, ma ti avvelena.
Qual è stato il ruolo della politica in passato? E qual è adesso, con Renzi che in questi giorni ha incontrato i comitati, proprio nello stesso periodo in cui è il principale in cui si sta impegnando in un attacco senza precedenti ai diritti della classe lavoratrice?
Che devo dire? A lungo nella politica istituzionale e di palazzo ho visto una forma di rappresentazione fittizia delle istanze popolari, un loro travisamento spettacolare, una distrazione degli obiettivi all’ordine del giorno e un tradimento di ogni mandato ricevuto o usurpato dal basso. Detto questo, non mi sembra che le cose siano cambiate granché. Cambiano le forme, scompaiono gli abiti formali, arrivano le slide e le camicie bianche, ma il nuovo finisce qui e la sostanza è questa: tagliare i diritti, ristrutturare, rottamare le conquiste ottenute in passato con il conflitto. Ben altra cosa è la politica fatta dal basso, dai comitati, dai gruppi di lavoratori e cittadini. Il problema è che spesso questa politica dal basso viene esautorata o criminalizzata, o irrisa con sentenze come quella del caso Eternit. Pensa che siamo arrivati al Palazzaccio della Cassazione in un silenzio assordante della politica. Poi il giorno dopo i politici di professione erano tutti a piangere accanto ai cittadini di Casale. Una coincidenza singolare che può far mal pensare, no? Jobs act da una parte e vittime del lavoro dall’altra. Un colpo al cerchio, uno alla botte, nello stile fanfaniano. L’attacco ai diritti dei lavoratori con il Jobs Act è evidente. Quanto alle promesse ai familiari, appunto sono per ora le promesse del potere. I fatti sono un’altra cosa. Attendiamo e poi faremo i conti.
Quel che è certo, è che prima si distruggono le difese dei lavoratori a tempo indeterminato (vedi l’art. 18), facendole passare per privilegi agli occhi di chi ne escluso; poi si alimenta il lavoro precario senza garantire neanche un reddito sociale minimo; infine si lancia il messaggio che gli imprenditori qui in Italia possono inquinare e far ammalare i lavoratori e poi andarsene senza ripulire e farla franca… la lotta di classe insomma è tutta da un lato solo, quello del Capitale. Chissà, forse è un modo per far ripartire gli investimenti: non serve più delocalizzare, non ci sarà bisogno di andare in Romania o in Corea del sud, perché avremo in Italia le stesse condizioni di sfruttamento che permettono alle imprese di prosperare sulla pelle e sulla salute di cittadini e lavoratori.
L’amianto e gli altri materiali killer, sono secondo te, degli incidenti di percorso nella storia dello sviluppo economico italiano (e in più generale capitalistico) o sono connaturati a questo modello economico? Ci saranno nuove “Eternit”?
L’amianto non è un effetto collaterale, un errore marginale: è un elemento sistemico, una cartina al tornasole di quel cancro chiamato capitalismo. È qui che si vede che idea di responsabilità sociale appartiene a chi ha dedicato la propria esistenza all’estrazione di profitto dai lavoratori… Penso anche agli applausi ai vertici della Thyssen, incriminati per la morte degli operai torinesi, durante una riunione di imprenditori (che strazio sentire le mamme di quegli operai e che forza in quelle donne), penso alla necessità per i padroni di fare “filantrocapitalismo”, di fare white-washing, per sbiancarsi l’immagine, cosa in cui eccelle anche l’ex-padrone della Eternit. Penso alla periodicità con cui i disastri ambientali si ripetono (Seveso, Casale, Cengio, Bhopal, Chernobyl e poi Fukushima e i disastri petroliferi…). Il capitalismo inoltre è nocivo nel senso che spinge i lavoratori fuori dal loro equilibrio, li reifica, li traina fuori dall’umanità, fa di essi stessi una merce. Ma un uomo non è una merce. Fatto merce, il suo equilibrio cellulare si spinge fuori dalla dimensione dell’umano, produce una metastasi di cellule che non sono più organismo e diventano tumore.
Ovviamente non sto parlando in termini medici, la mia è una metafora, ma guardate cosa diventa un lavoratore, non uno che vive di sfruttamento del lavoro altrui, ma uno costretto a vendere la propria fatica e il proprio sudore, la propria manodopera, manuale o intellettuale: dopo 35 anni di estrazione di profitto da parte del suo datore di lavoro, la vita se ne va, si prosciuga, rimane la carcassa dell’uomo che era. Andate in fondo al mio libro e guardate le foto di mio padre, le tessere d’ingresso in fabbrica, guardate quale trasformazione… Quanto alle sostanze pericolose, il principio di precauzione non si associa all’etica capitalista. Viene prima il profitto, costi quel che costi, in termini di vite umane o di inquinamento. Continueranno a inventare nuovi materiali che daranno a pochi reddito immediato e che produrranno effetti devastanti nelle vite del 99 percento… del resto sono l’uno per cento ma hanno il coltello dalla parte del manico. Quindi, sì, ci saranno altre Eternit, mentre il disastro della Eternit storica continuerà a lungo a produrre scie di lutti. Per qualche decennio almeno.
Per molti lavoratori che hanno vissuto a stretto contatto con quelli che tu chiami “draghi”, il destino è comune: dopo essere stati avvelenati insieme ai loro familiari e concittadini, vengono scaricati e trattati quasi come eco-criminali perché vogliono difendere il loro posto di lavoro. Basti pensare ai lavoratori dell’Ilva di Taranto, della Lucchini di Piombino e tanti altri. Cosa pensi di questa situazione?
È una situazione comune a tante realtà.. stanno riducendo le dimensioni della grande industria verso un modello di sviluppo industriale più ramificato. Al tempo stesso, ricattano la gente, ora che cala l’occupazione, a ingoiare ogni tipo di veleno. Pensa che anche quando la Fiat ha comprato la Crysler negli Stati Uniti ha chiesto come garanzia che il sindacato seppellisse ogni forma di ostilità. Lo scenario poi si complica con l’arrivo di nuovi imprenditori di paesi BRIC. Tipo gli indiani che premono per collocare il loro acciaio in Europa, ma anche gli algerini interessati alla siderurgia piombinese. Non so dirti come sarà il futuro, se ci sarà conflitto o resa.
Io credo che se non ci sarà conflitto, la gente in ogni caso perderà anche il pane, perché il padronato non regala nulla. Possono criminalizzare i movimenti, possono dirci di mangiare brioches, possono alimentare la guerra tra poveri, dicendo che il problema sono i lavoratori migranti. Le tentano tutte, ovviamente, sono forme di distrazione di massa. Bisogna rispondere con il conflitto e con idee nuove. Il problema poi è che nelle grandi industrie petrolchimiche e metalmeccaniche non si possono nemmeno facilmente pensare delle forme di autogestione come le fabbriche occupate, che si adattano meglio alle piccole e medie imprese. Quella però è una strada da seguire in altri contesti (penso al tessile, per esempio) e bisognerà guardare a quello che è successo in Argentina. Tra l’altro sono formule che funzionano ancora adesso e anzi si espandono. Insomma, non ho una sfera magica, non so cosa accadrà. So che bisogna ripartire sempre da capo, magari da un momento all’altro ci saranno delle fioriture inaspettate. Se pensi a un nuovo maggio, come quello francese, non devi guardare a Parigi ma a Rojava o al Chiapas. O magari al Brasile, alla Turchia e forse un giorno all’India. Non è esotismo rivoluzionario: hanno interconnesso e globalizzato il capitale, sono interconnesse anche le lotte, le proteste, le mobilitazioni.
Cosa dovrebbero fare secondo te i lavoratori ora, oltre a cercare nei tribunali di far pagare qualcosa a questi criminali?
Chi combatte oggi perché non si compia uno scempio ambientale in futuro a ragione può anche rifiutarsi di seguire le vie della giustizia per prendere quelle della mobilitazione, ma chi combatte oggi per un disastro avvenuto nel passato ha poche altre vie da percorrere a parte quella della giustizia istituzionale. Che però come abbiamo visto è un bel muro tirato su a difesa delle classi imprenditoriali. Eppure bisogna tentarle tutte, perché se non fosse così il padronato avrebbe davanti praterie sul fronte dell’inquinamento e dello sterminio degli operai. Facciamo pressione sulla giustizia istituzionale e intanto pratichiamo la giustizia sociale.
La giustizia sociale si costruisce dal basso nelle vertenze, nelle mobilitazioni: è il mutuo appoggio, è la solidarietà tra lavoratori, tra i familiari delle vittime dell’amianto che vengono a ogni appuntamento a stringersi attorno alle gente di casale: dal Brasile, dal Regno Unito, dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Spagna, anche dal Giappone. La vera giustizia sociale sta nella lotta, nel percorso che le vedove di Casale, che i figli dei lavoratori uccisi dal profitto fanno per un’istanza di giustizia. Perché il nome del padrone sia sulla bocca di tutti, come responsabile di morte e inquinamento. Questo è un risultato già raggiunto. Il logo Eternit è ormai associato a un crimine tremendo, non importa se la Cassazione ha prescritto, pur ammettendo la colpevolezza dell’imputato. Con quella sentenza, inoltre, almeno un altro risultato è stato raggiunto. Abbiamo smascherato la giustizia. Le abbiamo tolto la benda dagli occhi e l’abbiamo vista sorridere al padrone. L’abbiamo costretta a dichiararsi ingiusta.
Questo articolo è stato pubblicato su Cash City Workers il 27 novembre 2014