Operaicidio: un appropriato neologismo per un libro che mancava 

di Maurizio Mazzetti /
12 Ottobre 2025 /

Condividi su

Questa rubrica è oggi dedicata a recensire un libro: Operaicidio, di Bruno Giordano e Marco Patucchi, Marlin editore 2025. 

L’efficace neologismo operaicidio “sostantivo maschile (composto dal sostantivo maschile operaio e dal suffisso –cidio, che dal latino caedes sta per uccisione, strage, massacro)” indica immediatamente l’argomento, cioè la quotidiana strage di morti sul lavoro, anzi, più correttamente come l’opera stessa afferma, di morti a causa del lavoro. Strage che colpisce quasi esclusivamente appunto coloro che svolgono un lavoro manuale, che per brevità si definiscono operai; lavoro manuale che, nonostante le ormai trite narrazioni su società dell’informazione, post-industriale, robotica, informatica e Intelligenza Artificiale, non è affatto scomparso né scomparirà. E’ certamente cambiato, sfilacciato nella nuova struttura economica caratterizzata da delocalizzazione/deindustrializzazioni (con nuova divisione internazionale del lavoro e connesse filiere produttive estese), automazione e robotica, produzione snella, spezzettamento delle produzioni in una miriade di fornitori e sub-fornitori, produzioni just in time, terziarizzazione dell’economia (spesso di un terziario povero e scarso valore aggiunto) finanziarizzazione globalizzata e nuovo feudalesimo dei giganti del WEB con i loro proletari o sottoproletari digitali (quelli che addestrano le Intelligenze Artificiali raccogliendo dati, ad esempio). E senza discutere non tanto se esista ancora una classe operaia caratterizzata non solo dalla sua posizione nell’organizzazione produttiva e nella società (il che resta vera), ma dalla coscienza di essere, appunto, una delle classi in cui ogni società è strutturata. E non si può non osservare che degli operai sui media si parla quasi solo quando muoiono appunto a causa del lavoro, più raramente se manifestano/scioperano (magari in cima ad una ciminiera, e per difenderlo, quel lavoro), quasi mai delle loro condizioni materiali di lavoro e di vita. 

Il libro è pensato per il grande pubblico ma resta apprezzabilissimo anche per gli addetti ai lavori. Gli autori (Bruno Giordano, magistrato di Cassazione e docente universitario, nonché nel 2021 -2022 direttore generale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro; Marco Patucchi giornalista di Repubblica e scrittore), demoliscono in primo luogo – non a caso il primo capitolo si intitola “Le parole della colpa, la colpa delle parole” – l’ipocrita circo mediatico e istituzionale che si leva dopo ogni evento (cui non segue alcuna azione concreta), nonché la tartufesca consuetudine del definire le morti a causa del lavoro come “morti bianche”. Bianche, quasi come dovute ad incolpevole fatalità e circondate da un’aura di purezza di cui il colore bianco è simbolo; quando invece sono omicidi, anche quando a stretta applicazione il diritto penale vigente non li si definirebbe tali, oppure, più spesso, non arriva ad individuare dei colpevoli. 

Il libro è diviso in due parti. In quella diciamo più tecnica (di cui ciascun capitolo meriterebbe commento ed approfondimenti; leggetelo!!) Giordano fotografa, sinteticamente ma con estrema chiarezza ed efficacia, la situazione attuale. 

Dà in primo luogo i numeri delle morti, senza fare sconti alla parzialità e incompletezza dei dati INAIL (di cui più volte si è parlato in questa rubrica,) tuttora però unici ufficiali, in quanto riferiti solo ai lavoratori coperti dalla relativa assicurazione pubblica obbligatoria. Seguono poi altri capitoli dedicati: 

  • a quegli eventi collettivi che correttamente si definiscono stragi (“Le stragi non sono mai casuali; sono il prodotto di ciò che non vogliamo sapere, vedere, fare. E non ci sono operai che vanno al lavoro per suicidarsi”): ne ricordo alcune, Brandizzo, Firenze, Suviana, Calenzano, da ultimo Marcianise … 
  • alle nuove figure di operai ed operaie, come i riders dipendenti da qualche piattaforma digitale, o i fattorini che concludono il ciclo degli acquisti on line; 
  • alla dimenticata (e colpevolmente taciuta con connessa inerzia operativa) perdurante carneficina delle morti per esposizione all’amianto, con numeri per morti per mesotelioma o altri tumori da esposizione all’amianto ogni anno più numerose di quelle per infortunio (media 1321 morti l’anno nel periodo 1993 -2021). E ciò accade sia per i lunghi tempi di latenza di queste patologie malattie, sia soprattutto perché, anche se proibito dal 1992, di amianto da bonificare in giro ce n’è ancora troppo e nessuna autorità sembra preoccuparsene troppo; 
  • alla sconsolante situazione degli infortuni agli studenti, sia in scuole e università, sia soprattutto durante prima l’alternanza scuola lavoro, poi ri-denominata PCTO o come chiamati oggi dalla sbrigliata fantasia ministeriale. 
  • alla ipocrita e moralistica invisibilità, almeno qui in Italia, delle lavoratrici e lavoratori del sesso, e connessa mancanza di diritti e tutele (queste ultime anche per la clientela, almeno dal punto di vista sanitario); 
  • le forme criminali di sfruttamento in certi settori produttivi come il bracciantato agricolo ove imperversano caporalato e nuove schiavitù, non sufficientemente contrastate quando non tacitamente tollerate (aggiungo io, in quanto non patologie, ma manifestazioni fisiologiche funzionali al modello economico vigente in agricoltura e non solo); 
  • alla inanità sostanziale della repressione penale per i responsabili delle morti sul lavoro, per motivi normativi, procedurali, organizzativi, con la prescrizione che è la conclusione normale dei processi. 

Infine, nell’ultimo capitolo, non a caso intitolato “Che Fare?” (titolo che a qualche vetero marxista-leninista riattiverà qualche neurone e magari farà sgorgare una lacrimuccia) vengono esposti possibili soluzioni ed azioni per ridurre il fenomeno. 

Per ovvi motivi di spazio, non posso che enumerarli, ancora con l’avvertenza che ciascuna di esse meriterebbe attenzione e trattazione anche maggiore di quella che il libro stesso dà loro. 

  • Costituire una Authority per la sicurezza sul lavoro che coordini davvero le tante (rinvio al sorprendente elenco, forse peraltro integrabile …) istituzioni che se occupano. 
  • Aumentare il numero degli ispettori di vigilanza e pagarli meglio (sottopagati sono quelli dell’Ispettorato nazionale del Lavoro, rispetto a INAIL, INPS, ASL) 
  • Assicurare finalmente l’interoperabilità e la condivisione delle banche dati di ciascuno (NB: a dimostrazione che la normativa italiana spesso si riduce alle grida manzoniane che l’avvocato Azzeccagarbugli cita a Renzo Tramaglino, la prima norma in tal senso risale al 2004, e ancora lo prevede il recentissimo disegno di legge delega 25 settembre 2025 – orwellianamente dedicata al salario minimo che in realtà non fissa), e restituire efficacia alla vigilanza abolendo il cosiddetto scudo ispettivo (D.L 19/2024, articolo 29, ampliato dal D. Lgs. 103/2024, articolo 5 autentico scandalo poco noto: preavviso delle ispezioni e della documentazione da esaminare, impunità successiva dell’azienda per un anno nel caso di mancanza di irregolarità, e simili nefandezze). Nefandezze che peraltro proseguono una politica dei controlli inaugurata più di vent’anni dall’allora indimenticato Ministro Sacconi (quello degli ispettori che dovevano fare i consulenti), proseguita dai pressoché tutti i governi di vario colore succedutetisi, e anzi rafforzata da Renzi, e riassumibile nello slogan che l’attuale Presidentessa del Consiglio dei Ministri proclamò all’insediamento:” Non disturbare chi fa”. 
  • Abrogare (NB: non riformare/migliorare!) la patente a crediti in edilizia, oggi di nessuna utilità sia per la sicurezza sia per la regolarità del lavoro, ma fonte solo di inutili ulteriori obblighi burocratici per le imprese (a proposito del non disturbare di cui sopra …) 
  • Istituire Procure distrettuali e nazionale del lavoro, con giudici specializzati, ed analogamente specializzati Albi nazionali di periti e consulenti tecnici per indagini efficaci e tempestive 
  • Arresto ritardato per i responsabili delle morti (ometto i tecnicismi giuridici) 
  • Provvisionali risarcitorie immediatamente esecutive e gratuito patrocinio a spese dello Stato per le vittime 
  • Riconoscimento di vittime del dovere anche per i familiari, con connessi benefici 
  • Nuovo reato di omicidio sul lavoro 

Le proposte, tutte condivisibili (unica perplessità, la reale efficacia dissuasiva del nuovo reato di omicidio sul lavoro) configurano (finalmente …) una strategia nazionale di prevenzione, o almeno un suo abbozzo, immediatamente o rapidamente applicabile, e dai costi contenuti. E fa specie che sia uno studioso e operatore del diritto a delinearla, non una istituzione o un sindacato… 

Poi certo detta strategia va integrata: non parla di formazione obbligatoria, già normata, anzi rinnovata di recente (cfr. gli articoli del 15 – https://www.ilmanifestoinrete.it/2025/06/15/accordo-formazione-sicurezza-sul-lavoro, e 29 giugno https://www.ilmanifestoinrete.it/2025/06/29/il-nuovo-accordo-stato-regioni-in-materia-di-formazione-sulla-sicurezza-sul-lavoro-parte-ii); e nulla si propone esplicitamente per limitare/vietare appalti e subappalti a cascata, almeno per quelli pubblici, o per per rafforzare la responsabilità dell’appaltante per quelli privati. 

Neppure si ipotizzano altre forme di incentivazione economica, che nei perpetui grami tempi della finanza pubblica solo l’INAIL è oggi in grado di fornire, ma in misura certo non adeguata anche se si utilizzasse maggiormente il relativo avanzo (nel 2024, ricordiamolo, 2678 milioni di euro di avanzo finanziario, di cui circa solo un terzo destinato ad interventi di incentivazione). E per lo stesso motivo è quasi una bestemmia (absit iniuria verbis) ipotizzare, per quanto autorevolmente sostenuta, (ad esempio dall’avvocato Fantini, cioè colui che, allora dirigente al Ministero del Lavoro, materialmente scrisse il vigente Testo Unico 81/2008) una defiscalizzazione anche parziale degli investimenti in prevenzione. Peraltro, in tema di incentivi economici a prevenzione e sicurezza sul lavoro, essi pongono un problema che è prima morale e filosofico che politico: gli incentivi possono essere (e sono tuttora) destinati o al rispetto degli obblighi vigenti (ad esempio, rimozione e smaltimento dell’amianto), oppure a miglioramenti (investimenti qualificati, compresa formazione non obbligatoria e implementazione di SGSL – Sistemi di Gestione della Sicurezza sul Lavoro). Gli incentivi sono da sempre finanziati da tutti coloro che però gli obblighi di legge in materia li rispettano a proprie spese; ma è giusto allora che vadano a supportare il rispetto degli obblighi per chi non li rispetta da solo? Non andrebbero invece destinati solo a chi investe in miglioramenti non obbligatori? 

La seconda parte del libro consiste in brevi, ma efficaci, racconti alternati ai singoli capitoli tecnici, che riassumono sinteticamente ben 110 infortuni mortali, alcuni collettivi, con brevi, ma toccanti, descrizioni di come accaduti e delle vite delle vittime; vite spesso non facili anche prima della loro tragica conclusione, in particolare quelle dei lavoratori stranieri (a ricordarci che più spesso degli italiani si infortunano e muoiono). 

Ma quel che personalmente mi ha più colpito in questi racconti è toccare con mano quel che si cela dietro le fredde statistiche e che pure sappiamo bene, cioè che ogni infortunio, compresi quelli mortali, È SEMPRE EVITABILE, MA CONTINUANO AD ACCADERE E SEPRE NEGLI STESSI MODI. Leggiamo infatti di come le persone muoiano perché cadono dall’alto (da ponteggi, scala, tralicci, piattaforme, tetti o coperture, spesso che cedono sotto il loro peso), o con l’ancoraggio di sicurezza che non funziona; oppure travolte da muletti o trattori che si ribaltano, o da mezzi di trasporto mal parcheggiati che si sfrenano, seppellite sotto qualche impalcatura o gru o muro o trincea di uno scavo che crolla. E, ancora, sono colpite o schiacciate da carichi sospesi che cadono o parti di macchinari in movimento, investite mentre lavorano in qualche cantiere o piazzale da camion o altri mezzi, vengono dilaniate o ferite mortalmente da esplosioni vere e proprie o da frammenti/parti di macchine per qualche motivo proiettate lontano, ustionate a morte ancora da esplosioni o getti di vapore, colpite dalle sponde del camion che caricano/scaricano (!) o sepolte sotto il relativo carico non più trattenuto, annegate se l’imbarcazione, l’auto, loro stessi affondano in acqua, sia mare aperto, un porto, un fiume o canale; e ancora stritolate, travolte o schiacciate da qualche macchinario o impianto in movimento. E in questi ultimi due casi con abbastanza tempo per rendersi conto come la morte sia inevitabile … ma quel che fa più male, e indigna, è come nella stragrande maggioranza dei casi evitare l’infortunio mortale sarebbe stato davvero facile, e che non è stato fatto per incuria, fretta, ignoranza, incoscienza, disorganizzazione, cinica, oppure forzata, accettazione del rischio pur di abbattere tempi e costi. E davvero sembra che nulla si impari dall’esperienza … 

Articoli correlati