L’assedio al diritto penale costituzionale

di ALberto Alessandri /
21 Aprile 2025 /

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Il testo denuncia l’attacco ai principi del diritto penale costituzionale, tra esautorazione del Parlamento, abuso del potere esecutivo e indebolimento della magistratura. Si evidenzia il rischio di un diritto penale piegato alla repressione del dissenso e delle marginalità. L’autore invita i giuristi democratici a reagire e proporre alternative.

Scrivo queste poche righe per lo sgomento che mi provocano le condizioni in cui versa il nostro ordinamento giuridico, che si pensava – si insegnava – fondato sullo stato di diritto a regime democratico.

È aggredito, a onde costanti, il diritto penale costituzionale, che fino a pochi anni fa sembrava una conquista solida. Nella situazione attuale si scorgono all’opera possenti forze e interessi impegnati a una progressiva demolizione delle conquiste democratiche, inserita nel disordine mondiale: solo un tratto si scorge chiaro, quello del ritorno al passato, all’epoca pre-liberale, degli autocrati.

È sotto gli occhi lo svuotamento progressivo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e lo sgretolamento della struttura ordinamentale che era stata pensata, con cura e attenzione, dal legislatore costituente.

Si guardi allo svilimento, se non all’emarginazione, del parlamento quale detentore del monopolio legislativo, particolarmente vincolante in materia penale. Si pensava che là ove il confine tra il lecito e l’illecito fosse presidiato dalla punizione, inevitabilmente afflittiva, allora dovesse intervenire solo il parlamento, unica espressione della volontà popolare.

Assistiamo invece a un’inversione: il parlamento è lento – si dice – sono la maggioranza e il suo braccio operativo, il governo, a dover gestire lo stato legiferando. Il ricorso ai decreti-legge – prassi anche prima censurabile – è diventata una raffica che snatura il rapporto tra i poteri: i decreti sono convertiti a colpi di mozioni di fiducia che compattano la maggioranza, eliminano il dibattito e azzittiscono il dissenso. Le scelte d’incriminazione, la necessità di ricorrere alla sanzione penale, la natura e il peso delle sanzioni, tutte questioni delicatissime, sono lasciate pressoché interamente al potere esecutivo che assumee si fa vanto, di essere la sola espressione della volontà popolare: basterebbe il mandato elettorale. Le leggi perdono il loro significato e la loro funzione di disciplina razionale della convivenza civile per assumere le forme dei manifesti elettorali. Un esempio recente. Il d.d.l. “sicurezza” – brutalmente securitario e ostile al dissenso – trasformato in decreto-legge. Qui, come altrove, i «casi straordinari di necessità e urgenza» sono stati divelti dall’eccezionalità del fenomeno da regolare e spostati a quello “dell’urgenza” nell’agenda dei lavori: è stato detto che troppo tempo era stato impiegato per la discussione del disegno di legge. Condivido in pieno il comunicato dell’AIPDP, in questa Rivista del 9 aprile

La separazione dei poteri – prezioso lascito delle rivoluzioni borghesi – è ogni giorno sotto attacco. L’obiettivo principale di oggi è quello di disarticolare e indebolire la magistratura (non solo quella ordinaria: si pensi a quanto sta accadendo con quella contabile), ad esempio con il dissennato proposito di separare le carriere – del tutto inutile per un migliore funzionamento della macchina giudiziaria – ma anche con la inaudita pretesa di non considerare vincolanti le decisioni dei giudici. La politique politicienne prevale su tutto; le decisioni sgradite, prima che eventuali errori, sono ingiuste e partigiane, che siano italiane o straniere o unionali, che siano di organi che la comunità internazionale si è data. Il recente rifiuto di eseguire un ordine della Corte Penale Internazionale esprime una totale indifferenza al rispetto di un patto che l’Italia ha sottoscritto: la Grundnorm kelseniana è infranta.

L’obiettivo sembra essere quello di dividere la magistratura per indebolirla e metterla alla portata dell’esecutivo. Anche l’interpretazione corre seri rischi. Lo si è visto con l’episodio della sottrazione delle competenze dalla sezione istruttoria del Tribunale a quella della Corte d’appello, nel caso di espulsione di migranti verso “paesi sicuri”, trattenuti a Gjadër.

Forte di una maggioranza ampia quanto supina (dopo i litigi), è l’esecutivo che valuta e dispone, in via pressoché esclusiva, l’intervento di nuove, numerosissime regole e fattispecie su temi rilevanti. Quel che si vede all’orizzonte è un alleggerimento generale del controllo penale sull’attività economica, a cui si attribuisce un’innata e “naturale” vocazione alla libertà (un ritorno all’antico), nonostante l’economia sia profondamente mutata, con il drastico ridimensionamento dell’industria a favore di un’economia di servizi, nella quale spiccano prepotenti le imprese di avanzata tecnologia, le Big Tech, insofferenti a ogni regolaGli alfieri del nuovo corso – v. il presidente americano – vorrebbero sbarazzarsi anche dei più tenui controlli: si veda quanto sta accadendo rispetto al Corporate Transparency Act (2024), oggetto di continui rinvii e ora snaturato con l’esenzione delle imprese americane dagli obblighi di disclosure.

Il penale sembra aver poche strade davanti a sé. È alle spalle quella del controllo sull’attività economica o amministrativa, liberato dalle figure più fastidiose (abuso d’ufficio); l’ineludibile tema del cambiamento climatico (ove vi sarebbe bisogno anche di sanzioni equilibrate) è allontanato come “una bufala” o una montatura dei radicali. La penalità si avvia verso il ghetto ideale delle broken windows, cadendo nell’imbuto della repressione dei soggetti disturbanti, di coloro che non sono allineati, di chi si trova o è costretto a trovarsi ai margini della convivenza civile. Chi non si adegua al mercato o da esso non è accolto o non riesce a entrarvi (ne abbia colpa o meno), non merita di essere parte della comunità, viene allontanato. Noi e loro: paradigma classico del populismo politico anche penale.

Non sono ovviamente solo i diversi a costituire l’obiettivo del populismo penale. Come l’esperienza di questi ultimi anni ha mostrato, la platea è assai più ampia. I dissidenti, gli antagonisti politici e sociali, ma anche coloro che vivono secondo stili di vita diversi da quelli tradizionali. I dissidenti politici sono in una condizione di minorata difesa, non hanno a disposizione i mezzi di comunicazione né la potenza mediatica: sono soggetti passivi, deboli, la cui repressione o esclusione è coperta dal clamore orchestrato ad hoc. Il dissenso – anima del liberalismo – la protesta, anche se passiva, anche se di persone custodite (i detenuti) non sfuggono alla punizione: v. il decreto-legge sicurezza.

La “copertura mediatica”, per usare una locuzione di moda che vuol comprendere telecomunicazioni, social e ora AI, provvede efficacemente a insonnolire le coscienze (magari con esiti di frustrazione), a persuadere i cittadini che c’è qualcuno “che pensa a loro” e dunque non si curino di quanto accade, facciano piuttosto affari. L’attivismo frenetico, il linguaggio popolaresco, spesso insultante, sono fatti passare per segnali di una cura sì sbrigativa ma efficace, guidata dal ripudio della scienza a vantaggio di un pensiero muscolare: l’attuale presidente degli Stati Uniti ne è l’esempio e il modello, con gli ordini esecutivi che mortificano il Congresso, accompagnati dalle deportazioni e dall’adesione alla pena di morte.

Se il diritto nazionale è labile – tranne che in certi settori importanti per chi detiene il potere economico-politico e dove svolge il suo necessario ruolo regolatorio tra pretese contrastanti oltre che di tutela delle proprietà – quello internazionale è sfarinato. L’ambizione ad un ordinamento internazionale, con organi che ne fossero espressione, che garantissero la pace e il miglioramento delle condizioni di vita, più volte tentato, dalla Società delle Nazioni all’ONU, è ormai considerato come un patetico sogno, frantumato dalla pura logica di potenza. Le Carte dei diritti sono vecchiume da mandare al macero (lo si sta facendo materialmente, ora negli Stati Uniti, anche con i data set scientifici del cambiamento climatico).

Il diritto penale è primariamente esposto a queste spinte retrograde. Ha pienamente ragione Zaffaroni (in questa Rivista, 10 aprile) a ricordare che il diritto penale è quello che è nella realtà, non quello che si vorrebbe o che i giuristi teorizzano.

Qui entra il momento politico: è giusto e doveroso proporre un diritto penale diverso da quello che è in realtà, battersi per un “diritto penale in trasformazione”. Dire questo significa impegnarsi per una lettura politica del diritto penale, che parta dallo svelamento delle forze, reali appunto, che lo formano così com’è.

In un’epoca di grandi trasformazioni, di nuova collocazione dei poteri e degli interessi, di cambiamento morfologico dei legami sociali, è necessario guardare a quei poteri e interessi per vederne gli effetti sulla disciplina giuridica, per capire la postura che sta assumendo, per cogliere le ragioni dei mutamenti.

Aderisco all’idea – schiettamente politica – che sia da realizzare un diritto penale razionale, laico, rispettoso della dignità di tutte le persone. Una lotta per il diritto penale che sia basato sui principi fondamentali che la modernità ci ha consegnato, raggiunti con le Rivoluzioni e con la critica attiva dell’esistente, per tutto il Novecento. Quei fondamenti si trovano per noi, ora, nella Costituzione repubblicana che, tra le poche, traccia le linee maestre dell’intervento penale: legalità, irretroattività, personalità, offensività, umanità delle pene e loro tendenziale rieducatività; controllo di costituzionalità accentrato, indipendenza dei giudici e soggezione di questi solo alla legge.

Guardando al reale, la legalità – già indebolita dalla crisi della rappresentanza – è insidiata, il principio di colpevolezza conta poco rispetto all’attenzione mirata ai soli comportamenti oggettivamente distonici alla situazione voluta da chi detiene il potere; l’offensività è un lusso al quale si può tranquillamente rinunciare. Sono (purtroppo da tempo) disattesi i principi della Carta che dovrebbero presiedere all’esecuzione delle pene. Basta uno sguardo alla situazione incivile delle strutture penitenziarie per cogliere quanto il rispetto della dignità della persona sia costantemente violato. Mentre antiche forme di custodialismo vengono riesumate, quali la deportazione dei migranti, senza la minima attenzione alla complessità dei problemi posti dagli spostamenti delle popolazioni. I migranti lasciano il loro paese per le disperate condizioni di vita o per le guerre (ne sono state contate cinquantasei in corso), non sono truppe di aggressione da respingere (delle quali poi l’agricoltura e l’industria hanno bisogno, ma di nascosto).

È stato scritto che il neoliberismo produce inevitabilmente l’accentuarsi della repressione verso chi conta poco o nulla. Forse ci vorrebbe una riflessione più approfondita riguardo alla consecutio tra i due fenomeni. Quell’analisi è comunque inattuale, poiché non siamo più nell’epoca del neoliberismo, già al tramonto con la fine del millennio, che richiedeva la libertà di circolazione delle persone e la libertà dei mercati. Mi azzardo a dire che siamo speditamente avviati (altri paesi più di noi) a una struttura economico sociale di oligopolismo, nell’ambito di una crescita stellare delle disuguaglianze: una struttura economica che considera come ostacoli assurdi le leggi e i giudici, utili solo a garantire la tranquillità sociale e il possesso dei beni.

Il diritto penale rischia di perdere, o perde così, i suoi essenziali riferimenti ai valori, al punto da diventare solo luogo ideale e congegno pratico della distribuzione del male della pena. Sono sterili i richiami ai principi che dovrebbero regolarlo, sia nel momento della predisposizione astratta che in quello dell’applicazione concreta. La legalità è apparente quando il parlamento è espropriato e si zittiscono i dissenzienti che propugnano interessi diversi rispetto a chi detta le norme. Il significato della garanzia giurisdizionale viene meno quando i giudici sono cambiati per ottenere una risposta consona alle attese. La pena degrada, con un ritorno al passato, alla pura afflittività custodiale. Perde peso un’interpretazione costituzionale della disciplina penale se i principi della Carta sono sotto assedio. Franco Bricola ci ricordava che i principi costituzionali in materia penale vanno sempre considerati nel complesso, nelle loro forti interazioni e che il tradimento di uno si traduce nell’indebolimento di tutti.

I democratici – li penso senza colori di appartenenze partitiche ma nell’adesione ideale a un ordinamento rispettoso delle libertà e dei diritti – sono smarriti e talvolta silenziosi di fronte alla situazione attuale, la cui gravità è accresciuta dal fatto che essa non è solo nazionale: siamo circondati da Stati in cui il populismo e la reazione sono entrati di prepotenza.

Si dice spesso che ciò è avvenuto per l’incapacità, gli errori, le cecità dei democratici, che non hanno visto in tempo i fenomeni che arrivavano, che non hanno elaborato strategie alternative, che non hanno mantenuto l’attenzione ai legami con i cittadini. Quesiti politici si quali riflettere, per i quali non è questa la sede. L’accusa rivolta ai democratici – sì, tanti sono stati gli errori – non dovrebbe tuttavia investire soltanto quelli del nostro paese, inevitabilmente andrebbe estesa al di fuori dei nostri confini. Molti sono i paesi nei quali forze reazionarie sono enormemente cresciute fino a conquistare il governo o a contenderlo. Difficile pensare che tutti i democratici abbiano sbagliato nello stesso modo: e non mi convince la tesi che sia solo il ressentiment popolare ad alimentare la marcia contro lo Stato di diritto.

Le preoccupazioni diffuse per la sicurezza e per i migranti, combustibili del populismo – seppur contrastate dai numeri – costituiscono un problema serio e reale, che merita riflessione. Sono interrogativi sul tappeto che non possono essere elusi, poiché rimandano alla necessità di capire quali siano le dinamiche economico-sociali che sono in atto e che stanno trasformando la nostra comunità. E quali possano essere le risposte efficaci e rispettose dei diritti costituzionali.

Non amo i punti interrogativi ma uno lo devo usare: che possono fare i penalisti e, più in generale, i giuristi democratici?

Si può subito rispondere che sono cittadini come gli altri e quindi possono contribuire a contrastare politicamente, nelle sedi adeguate, l’onda che avanza.

Forse qualcosa di più, ma è solo un mio pensiero.

Vi è un gran bisogno di capire, di comprendere i fenomeni e le loro cause, di individuare gli effetti di un certo modo di regolare e di gestire la casa comune. I giuristi, avvezzi a maneggiare le regole, possono in questo avere un importante ruolo da svolgere, quello di dire, di sfatare la “narrazione” corrente e di illuminare le concrete ricadute di certe scelte politiche e legislative. Nell’attualità e all’orizzonte vi sono temi impegnativi che richiedono energia e il superamento del tradizionale ritegno ad occuparsi delle cause della legislazione e degli effetti della sua distorsione. C’è bisogno di arricchire la cassetta degli attrezzi dei democratici di rimedi possibili, di orientamenti all’azione, rispetto a una classe politica, anche quella democratica, spesso impreparata agli impegnativi problemi che ci assillano.

Non vorrei che questo richiamo fosse liquidato come un cascame gramsciano: non è questo il mio pensiero. Credo solo che i giuristi, in particolare i penalisti proprio perché hanno a che fare con l’esercizio monopolistico della forza, ne possono meglio cogliere il senso, chiarirne le finalità, illustrarne gli effetti e le ricadute: e soprattutto svelarne gli inganni.

Questo articolo è stato pubblicato su Sistema penale il 15 aprile 2025

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