Rette parole sono l’Amore e la Morte, è il suggestivo titolo dell’ultima, si fa per dire, perché già si avvia una successione, fatica di Oscar De Summa, singolare e poliedrica figura di uomo di teatro a tutto tondo, tanto per seguitare con metafore geometriche.
In questo lavoro di un’ora e mezza circa De Summa, ormai cittadino bolognese a tutti gli effetti da qualche anno, riempie la scena e il nostro immaginario avvalendosi di una affabulazione piana, che affonda nel colloquiale affannoso dipanarsi delle nostre quotidianità di inconscio provinciale e di suggestiva effettistica sonora e visual da Wunderkammer. Eh no, non si tratta tuttavia di un lavoro un po’ fighetto sulle sperimentazioni dei devices in quanto tali, quanto del ricreare la misteriosa connessione con le nostre memorie, la nostra interezza, le relazioni con gli altri e con l’universo…
Struggente, straniante e vero come un sogno lo spettacolo, orchestrando con perizia gli strumenti affilati di un teatro che è prassi, che si nutre di messe alla prova e di colpi bassi, spari di pistola, come avrebbe sostenuto il compianto Raul Ruiz, pur di portare il pubblico alle porte del cosmo, che sono però ovunque, non più su in un nord mitico, ma persino in un paesino del Sud Italia, tocca in una modalità quasi antropologica corde intime ma condivisibili ai più. Si esce rapiti e commossi dopo essere stati trascinati in tutta la maestosità di un plot minuto paradossalmente quasi inesistente. Il pretesto narrativo è presto detto: il nostro io narrante in scena è alle prese con il titanico compito di scrivere una bella storia, quando per puro caso, da quel cassetto proibito che è la nostra memoria, si impone per essere detta la storia di questa timida e, diciamolo pure, secchiona ex compagna di scuola, del nostro autore vulnerabile come noi tutti davanti al foglio bianco da sostanziare, che è poi la nostra esistenza. Un’ispirazione ci vuole ogni giorno per alzarsi dal letto o salire su un palco e, sorpresa, essa può essere semplice, si fa per dire, come il respiro e l’armonia pur disfunzionale ai nostri occhi, degli accadimenti e delle coincidenze.
Il sottotesto vibrante a questa storia di chiusure provinciali, di culture giovanili, di inciampi familiari, di continuità e scossoni insieme tra le generazioni, è quello della paradossalmente trionfante messa in crisi dell’autore demiurgo della storia e dunque parallelamente della regia che ciascuno di noi vorrebbe fare della propria vita…Eppure, un riscatto c’è e ci viene, come nelle favole, dagli ausili più impensati, come la fisica quantistica o le canzoni del Duca Bianco. Insomma, come direbbero i buddisti, De summa chiede all’Universo e ha l’accoglienza e il coraggio giusti per ascoltare le risposte che esso non lesina, anzi… E sono risposte di trasformazione. In fondo una bella metafora anche dell’esperienza teatrale stessa.
Impossibile non pensare di fare due chiacchiere con De Summa, nel bel mezzo di una magnifica esperienza, quella di una sorta di lunga premiere di due settimane, in casa, praticamente, al Teatro delle Moline, dopo il debutto al festival di Roma e prima di iniziare una lunga tournee: nel frattempo sono uscite le nomine dei finalisti a tutti i premi Ubu, che verranno a breve assegnati ed è in questi frangenti che ci incontriamo io e Oscar.
So che spesso ti fanno questa domanda, anche data la varietà nello storico delle tue apparizioni teatrali e produzioni, tra classico e assolutamente innovativamente contemporaneo, ma vedendo, come dire, la forza incarnata della tua scrittura, che emerge potente in quest’ultimo lavoro, mi pare inevitabile chiederti in quale versione di te stesso ti senti più a tuo agio o comunque in quale direzione vorrai continuare a ricercare
Allora, diciamo che anche le esigenze produttive, come sai molto complesse in un paese come l’Italia, la fanno da padroni. A me in realtà piace essere e fare tutto. Mi sento fondamentalmente un attore, come hai potuto ben vedere, attività che mi dà, dico sempre, quella botta adrenalinica che spesso nei remoti e non smart angoli della vasta Italia di piccoli dimensioni, moltissimi giovani di poche fortune e molta frustrazione si procurano con modalità illecite, violente, illegali. Io, che di quelle terre ed esperienze sono in parte figlio, sublimo salendo sul palco. En passant, naturalmente è bellissima questa opportunità offertami da Ert di rodare con continuità per un certo tempo lo spettacolo. Il teatro vive di relazioni, mi pare si sia capito quanto relazionale sia la mia visione dell’esistenza e del lavoro. Anche tra diversi e non affini. Figurarsi tra chi si sceglie in quella che è già una nicchia culturale di per se. Quindi è davvero molto bello raccogliere e incamerare le reazioni e i feedback degli spettatori in maniera intima e continuativa. Ma in verità, se non fossero ormai date così frenetiche e secche, che non danno il tempo di adattare la forma spettacolo al mood dei posti dove vado, a me piace anche il meccanismo della tournee. Io per esempio, andando in giro, ho fatto questa scoperta interessante …. Ovvero che ovunque la gente giudica le cose con la filosofia dell’erba del vicino che è sempre più verde e sentendosi un grande complesso di provincialità. Ma proprio per questo io parto spesso dal mio specifico vissuto pugliese che poi dichiaro sempre… l’ho già fatto come sai, anche nella Trilogia della Provincia… alla fine più parlo in buona sostanza di me come prototipo, mettiamola in questo modo, più raggiungo tutti quanti. E questo ti dice quanto la scrittura però mi piaccia tantissimo. Anzi, in questo momento storicamente confuso e convulso, così frammentato e cominciando a stancarmi di questo teatro mordi e fuggi, sempre più sento il bisogno di scrivere. Ma non è che mi piaccia sempre essere in scena o da solo sul palco. Mi piace moltissimo scrivere per altri ed è quello che sto facendo ora.
Però, anche qui, è tutta una questione economica… io ho bisogno di studiare e documentarmi tanto prima di mettermi a buttare giù la scrittura teatrale, devo avere un certo tempo…in questo caso ho avuto il lusso, ma se lavoro con gli incastri di altre persone come sto facendo ora, un lavoro prossimo futuro per 5 attori che debutterà in marzo, è un po’ un problema. Io scrivo prima per i fatti miei, poi mi faccio venire in mente di solito persone con cui ho un bel rapporto fiduciario e che so come reagiscono con quelle parole li: faccio un lavoro artigianale perché riadatto su di loro quello che ho scritto… adesso ci vedremo allo stabile di Bolzano, per esempio, per fare un primo round, ma so già che arriverò alla prima poco rilassato. Qui invece sono andato molto più in scioltezza, evidentemente…
Io ho avuto l’impressione che in questo lavoro tu abbia usato una serie di teorie scientifiche in realtà come grimaldelli e pretesti per andare ad aggredire l’umano troppo umano che è in noi e soprattutto mi ha affascinato moltissimo la tua grande capacità di costruire una grande epica della vita che consideriamo da ordinary people… una grande estetica dei sentimenti comuni e, azzardo, persino un erotismo del buon senso, tanto che la scogliera nostrana che ci fai intravedere a un certo punto, senza spoilerare troppo, potrebbe essere la nostra brughiera a strapiombo Da Cime tempestose… in realtà, tu racconti anche una serie di atti mancati, ma senza il nichilismo da teatro dell’assurdo, recuperando felicemente persino la casualità apparentemente insensata, senza ombra di cinismo e compiacimento nello stigma e nell’esibizione della mediocrità. Un po’ come se, persino lo spauracchio peggiore di tutti, quello del fallimento, fino alla fine sempre nota della storia, sia possibile valorizzarlo e non viverlo in quanto resa. Quale reazioni, o meglio quali tasti, volevi andare a sollecitare e toccare negli spettatori e in generale quali sono le magagne peggiori che ci rendono difficile anche culturalmente un’accettazione della nostra condizione?
Allora, questa è una fase della mia vita in cui io studio moltissime possibilità filosofiche e scientifiche, attenzione, scientifiche, che hanno il mistero, l’astrazione la purezza di una mistica religiosa e che mi possano far intravedere la possibilità di un ribaltamento dei valori correnti. Non mi interessano le tecnologie, le applicazioni pratiche, i devices… questi sembrano pensati per concepirci come monadi solitarie e chiuse. Quando ci aggiungi conformismo, stigma, paura del giudizio altrui, ecco ti sei costruito una corazza dalla quale davvero non esci più. E in cui sei maledettamente solo. Per questo la gente cerca senso contemporaneamente di appartenenza e annullamento in quelle situazioni come lo stadio. Finite le grandi riforme religiose, le utopie politiche, le ideologie, oggi non so se siamo nel post umano, certamente abbiamo perso un po’ il senso di essere organismo viventi dentro un grande organismo vivente, palpitante complessivo. Questo è il progetto grandioso da capire. Sono affascinato dallo scoprire che tutto e tutti siamo campi energetici che entrano in contatto tra loro… La fisica quantistica apre, non chiude, a infinite possibilità. Siamo viventi vibranti e relazionati. Mi piace sciogliere quel grumo emotivo che ognuno ha dentro di sé, ma che trova difficile raggiungere, giù nel profondo e portare a valore. Io lo faccio, io vado contro a modo mio la logica dell’utilitarismo immediato, del minore dei mali e cerco di reinterpretare anche un’etica del sacrificio e del lavoro che se quando funzionava ci ha dato buoni principi seppur restrittivi, oggi è diventata, una volta inserita nel regno del consumo, una logica di avidità, successo e funzionalità, che rifiuta ed espelle i non adatti.
Tu nello spettacolo fai un uso veramente chirurgico sulle emozioni e travolgente, di brani di David Bowie e devo dire che mai, quando finalmente arriva, risulta così azzeccato l’inserimento di Heroes… credo che sia il pezzo perfetto nel momento perfetto…
Certamente attingo ad un patrimonio di memorie, rese esplosive appunto da quella componente di ricezione mediata e provinciale sempre e comunque qui in Italia, della grande onda rock. Nel caso di Bowie, ho trovato studiando, coincidenze pazzesche tra la data di uscita di space Oddity e lo sbarco sulla luna, coincidenze cabalistiche o forse no, invece preveggenza, regia della propria vita fino alla fine… se pensi ad un album come Black star… David Bowie sapeva di dover morire e ha fatto in modo di comunicarci di lasciarci un heritage, relativa al fatto che la morte, il tabu più inaffrontabile, è infine una trasformazione.
Ecco questo è riuscito a farlo perché lui stesso aveva fatto sua questa consapevolezza. Io cerco modestamente con i miei mezzi di lavorare sulla consapevolezza di se, del proprio sentire. Tutta questa gente come assente da se, tutto questo abusare di facili emozioni, di sensazioni epidermiche, di atmosfere, di trend, moods, mi fa un po’ paura perché bisognerebbe coltivare invece i sentimenti. Questi ultimi però abbisognano di tempo, avvicinamento, spazio, fare largo, concedersi agio. Per questo mi piacciono le teorie in cui si esaltano e insieme collassano le categorie spazio temporali, esattamente come accade tra sogni e ricordi. Li giace la nostra consapevolezza, li c’è la nostra riconnessione tra testa, cuore, anima, li alloggia la possibilità del sentimento, del confronto, per esempio con il femminile, inteso come essenza principio… Siamo in grado di trasmettere ai più giovani tutto questo o li lasciamo in balia dei capricci e delle pulsioni predatorie del momento? Io trovo che tanta di questa profondità di visione tra errori, cadute, bassezze e ascese sublimi sia concentrato nella vita ed opere di Bowie e comunque qui dava un tocco romanticoesotico perfetto per la storia. In fondo se vuoi, tutto il mio operare possiamo dire che è una consapevole versione del “personale è politico”, come si usava ai vecchi tempi. Da esperienza personali portate alla coscienza è possibile lanciare traiettorie culturali a tutti, anche a quelli non affini, tanto diversi da noi.
Per concludere, cosa però potrebbe far bene al sistema cultural teatrale italiano e cosa potrebbe aiutare le generazioni più giovani?
Guarda è presto detto: valorizzare la cultura, l’educazione, l’istruzione. Non in senso utilitaristico, che poi tanto l’ascensore sociale dei nostri tempi, si è bloccato ai piani bassi da un pezzo, ma in senso di consapevolezza e cittadinanza. Apprendere serve a dare valore a se stessi e questo nell’epoca degli indici di gradimento, dei likes, del sondaggio, del successo effimero è molto importante da capire. Sul teatro, è veramente troppo debole e piccolo il sistema delle residenze. Ci vorrebbero forse più incentivi e borse di studio per i talenti giovani ma senza ansia meritocratica. Sono bellissimi i festival, le rassegne, le vetrine e anche i premi intesi come feste, ma non penso che in senso culturale sia utile parlare di meritocrazia e competizione.
Lascio Oscar con un caldo invito a recuperare questo suo riuscitissimo lavoro, appena possibile, magari in qualche teatro Ert, ricordando che sono sempre prestigiose le produzioni su cui poggia il suo sapere artistico, come, ad esempio, sarà poi la volta del Metastasio di Prato…
Intanto, se i premi servono comunque a far conoscere un po’ di teatro anche internazionale e avviano comunque discussioni, ben venga…perciò ricordate il 16 dicembre all’arena del sole l’appuntamento celebrativo con le assegnazioni Franco Quadri- Ubu. Pero certo, più che fiori giovano opere di bene a sostenere la capillarità diffusa del nostro teatro ed è per questo che voglio ritornare sullo spazio Dom, la cupola del Pilastro, che celebra esattamente in questi giorni i suoi 30 anni forse incauti, magari più che altro coraggiosi e fedelissimi alla causa della Periferia, aggiungo io nonché fidelizzanti nei confronti della cittadinanza in loco. Dal oggi 4 all’undici, una serie di avvenimenti e libagioni, sessioni laboratoriali e di presentazioni celebrerà una storia che ne ha dentro tante altre documentarie, archivistiche, radiofoniche, televisive, minute ma anche di scala nazionale quale quella della Uno Bianca… una storia che ha corso il rischio di troncarsi, una volta che erano venuti meno i fondi ministeriali alle residenze e che oggi riacquista un minimo di futuro e prospettiva grazie ad un finanziamento ministeriale stavolta dedicato all’attitudine sperimentale e transdisciplinare di compagnia Laminarie, da sempre affascinati da ogni forma di arte visiva…e con una autentica passione per i risvolti urbanistici del loro stare. Cosi stasera alle venti si inaugura con Libagioni, che comprende, dopo altri assaggi e convegni universitari dei giorni scorsi, la riproposizione di una performance di Febo Del Zozzo dal titolo Invettiva inopportuna, un buffet, a seguire, di buon auspicio, poi la proiezione golosa di Almanacco, una sorta di video documentaria summa di quanto Laminarie ha esplorato e fatto all’estero, per chiudere in bellezza con un incontro tra giovanissimi gruppi, operatori, talenti coordinati da Giorgia Boldrini, direttrice del settore Cultura e creatività al Comune di Bologna.
Tra il nove e l’undici, i laboratori di Ludo, rimarcheranno la grande vocazione alla città educante espressa negli anni dalla Compagnia, tramite mitici ssttigs di pratiche teatrali dedicati all’infanzia Si chiude il cerchio o meglio questo Ampio Raggio, con il secondo studio Interpretato in scena da Febo, ma con la cura drammaturgica e registica di Bruna Gambarelli, di Edifici. Tre vite che non demordono. Un lavoro complesso e visionario sull’ immaginario di edifici come contenitori, cornici, istituzioni totali, possibilità di elaborazione e cambiamento attraverso tre vite esemplari tratte dalla politica e dalla letteratura, in cui il tema della costrizione e della prometeica tenacia di invenzione e resilienza è centrale e risolto da una messa in campo di energia performativa e sonora al calor bianco controllata e gestita nei minimi dettagli. Da vedere. Per poter dire poi che non abbiamo soltanto teatro minimale e ripiegato. Laminarie si riprende il lusso della forza e di una dimensione europea in un angolo di Pilastro, dimostrando che tanto altro si può fare in certi luoghi senza autocompiacimenti vittimistica.
Ma a proposito di iniziative in corso, lasciamo il un attimo il teatro e ricordandovi intanto, di consultare sempre il calendario dei lunedì del Top Doc dei Pop Up Cinema, parliamo un attimo di questo Cinevasioni.EDU, giovane di questa sua seconda edizione e brillante nel titolo e nelle intuizioni, ovvero il primo festival di cinema in carcere e nei luoghi di cura. Un festival che naturalmente è un progetto e processo spalmato lungo un anno intero che prende le mosse da una virtuosa sinergia di chi, come l’Antoniano, opere francescane da sempre storicamente è vicino ai più giovani in funzione aggregante ed anche agli umili e agli ultimi e i Corsi di cinema documentario, che partiti qualche annetto fa come forma integrativa di apprendimento sociale dal Liceo linguistico musicale Laura Bassi, sono oggi quattro corsi in diversi istituti, riuniti in una APS e con una ambizione e determinazione ad una formazione e distribuzione specifica in tema. Naturalmente anche qui si parla di concorso, ma prima di arrivare a parlare di questo, bisogna ricordare che ben 15 sono i plessi scolastici coinvolti in area metropolitana e coinvolti in possibili percorsi come dicevamo che oggi fanno sul serio. Tanto che la programmazione complessiva prevede masterclass con professionisti dal titolo i Mestieri del Cinema, il Camper Cinegiro che ha iniziato in ottobre le sue attività pronto a riprenderle in primavera, attrezzato per proiezioni in 15 luoghi pubblici en plein air, seguirà tra Gennaio e Maggio il programma delle cinevasioni in carcere, le prime visioni in ospedale a tema sociale e sanitario dedicate a pazienti, utenti, operatori e le proiezioni del cinema in mensa dedicate ai luoghi di raccolta dei più fragili e marginali. Chiaramente qui le collaborazioni diventano poi tantissime e accanto a quelle produttive filmiche certo spicca quella dell’Ausl città di Bologna e del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università. Anche in questo caso, per ciò che concerne i temi della rassegna concorso al Perla dal due al sette dicembre, il tema è vagamente dedicato alle alterità, all’essere un po’ alieni come accadeva, ricordate? Per Terraviva Festival. Il fatto è, come viene ricordato in conferenza stampa dal direttore curatore docente Piero di Domenico, che oggi si assiste quasi ad una crisi della fantascienza e della fiction utopica o meno. Distopie a parte, le maggiori rassegne internazionali di cinema sembrano mostra una produzione molto volta alla rappresentazione del passato e con ben pochi slanci e affondi su percorsi di storie futuribili. Una crisi di immaginazione senza precedenti, forse essendo tutti un po’ stanchi di queste magnifiche sorti e progressive…ma queste Cinevasioni dedicate e in parte gestite direttamente dai più giovani, titolate alla Terra vista dalla Luna, vogliono aiutarci ad aprire spiragli. Quindi, una serie di corti sin dal mattino, talks nel pomeriggio e infine una proiezione più adulta alle 21. Si è iniziato benissimo con la Guerra del Tiburtino terzo lunedì, con i mitici Manetti Brothers in sala, quelli di Diabolik e Coliandro per intenderci, si è proseguito con L’uomo che comprò la Luna, Gli Asteroidi di Germano Maccioni, ma si va a concludere giovedì e venerdì con uno spettacolo teatrale e un concerto rock, perché l’aspetto relazionale e performativo sia sempre presente anche per chi non opera direttamente a nessun livello, ma viene anche solo per assistere. Sabato alle 15 e 30, premiazioni sempre al glorioso cinema Perla: ecco una formulazione intelligente e ricca di quello spirito emiliano di febbre del fare che consente di ripensare formulazioni già coraggiose ai tempi dei cineforum, delle schede cinematografiche e dei famosi dibattiti a seguire, poi come si sa rigettati. Un know how di base che oggi reinterpretato forse ci consente di fare futuro ancora e per un bel pezzo.