“Amici di Ampasilava”, una Onlus con sede in via del Pratello, da quasi diciotto anni garantisce assistenza sanitaria pubblica in una remota località nel sud ovest della grande isola, dove gestisce l’ospedale “Vezo di Andavadoaka”
Storia bella, quella che andiamo a raccontare, nata quasi per caso diciotto anni fa per merito di un medico di Cento, Sandro Pasotto, che con sua moglie Rosy Tassinari, infermiera, ha dato vita al progetto Amici di Ampasilava, dal nome del paese del Madagascar in cui si trovava allora. Sua fu l’idea di costruire un piccolo ambulatorio là dove c’era il nulla nel raggio di 200 km, e dove la sanità era (ed è) a pagamento, anche negli ospedali pubblici.
Attraverso donazioni e il recupero di materiali sanitari fuori uso, Pasotto trovò negli anni a venire praticamente tutte le attrezzature necessarie per mettere in piedi un piccolo nosocomio nella terra di nessuno. Poi, successivamente, assieme a colleghi e amici, ha fondato la onlus, l’associazione bolognese con sede in via del Pratello, dal 2018 guidata dal dottor Vito Pedrazzi, ex responsabile Uo Dater Dialisi e Ambulatori dell’Ospedale Maggiore – attualmente in Madagascar impegnato nel rinnovo della convenzione di partenariato con il Ministero della Sanità malgascio – e con responsabile alla logistica Elena Trigari.
Indipendente e apartitica, la onlus è impegnata dal 2006 nell’assistenza sanitaria pubblica in questa remota località nel sud ovest del Madagascar, dove gestisce l’ospedale “Vezo di Andavadoaka”, esattamente a 160 km dal capoluogo di provincia Tulear.
Ma riavvolgiamo il nastro. Era il 2006 quando Pasotto e un gruppo di medici bolognesi, là in vacanza, visitarono per caso la piccola comunità malgascia di pescatori e il loro villaggio, Andavadoaka. All’orizzonte nessuna struttura sanitaria, nemmeno a centinaia di chilometri, e fu proprio da questa constatazione/preoccupazione che scaturì l’idea di realizzare un piccolo presidio ospedaliero. Di lì alla realizzazione il passo fu davvero breve e il 15 ottobre del 2008 venne così inaugurato un primo ambulatorio, trasformatosi poi negli anni in un vero e proprio ospedale, il “Vezo”, dal nome dell’etnia che vive nel villaggio, divenne subito una delle 18 realtà sanitarie presenti e riconosciute dell’enorme isola, una delle più grandi al mondo (590mila km quadrati), ‘coprendo’ un territorio di 200 chilometri quadrati e offrendo servizi a una popolazione di 200mila abitanti.
Dalla sua costruzione a oggi, la struttura è sempre stata attiva: garantisce prestazioni clinico-assistenziali e di emergenza 24 ore su 24. È stato costruito su un terreno indicato e messo a disposizione dalla comunità locale, e ogni anno circa 30mila persone si rivolgono ai suoi medici. Le cure sono gratuite, come spiegava qualche tempo fa l’ex Dg dell’Azienda ospedaliero-universitaria Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna, Augusto Cavina, allora coordinatore del Comitato scientifico dell’associazione, colui che fornì anche il primo ecografo all’associazione. I posti letto sono 15, c’è una sala travaglio, una sala degenza per mamma e bambino; una sala operatoria; una sala di sterilizzazione, due ambulatori generalisti, tre ambulatori specialistici (oculistica, ginecologia, fisioterapia, odontoiatria), un ambulatorio per le medicazioni; una sala di diagnostica per immagini; la radiologia digitale che, abbinata alla telemedicina, consente la lettura delle immagini anche dall’Italia; un laboratorio analisi e una farmacia.
Oggi, mediamente, c’è un turn over di cento volontari tra medici, infermieri, tecnici, terapisti, altri professionisti sanitari e logistico-organizzativi provenienti da tutta Italia. Tanti anche i professionisti italiani che lavorano all’estero. E molti sono i giovani neolaureati o in specializzazione che si prendono un periodo. Si fanno carico delle spese del lungo viaggio, pagano una diaria per il vitto, alloggiano in una struttura ad hoc.
L’ultimo post di qualche giorno fa tratto dalla pagina Facebook dell’associazione rende bene l’idea di cosa significa operare laggiù, e di com’è la situazione in Madagascar. Il post cita un ragazzo, visibile in foto, Pota: saluta prima di tornare a casa in piroga. Arrivato moribondo durante l’ultima alluvione, mentre, come raccontano i medici, «in Hospitality eravamo senza elettricità. È stato intubato all’arrivo perché moribondo. Nelle 12h in cui lo abbiamo ventilato manualmente dandoci il cambio, abbiamo fatto continuamente i conti sul tempo che avevamo a disposizione prima che il gasolio con cui il generatore permetteva di produrre ossigeno finisse».
Hanno salvato Pita, Pita è vivo.
L’associazione cerca personale sanitario e anche piccoli donazioni, per info scrivere a: info@amicidiampasilava.org
Questo articolo è stato pubblicato su Cantiere Bologna il 2 settembre 2024