Il Nuovo Accordo Stato Regioni in materia di formazione sulla sicurezza sul lavoro (parte II)

di Maurizio Mazzetti /
29 Giugno 2025 /

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Nell’articolo pubblicato il 15 giugno scorso (QUI) si erano illustrati sinteticamente i contenuti del Nuovo Accordo Stato Regioni (d’ora in avanti, ASR), che completa le relative previsioni del vigente TU 81/2008, pienamente in vigore dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 17 aprile; e ci si era soffermati in particolare su alcune positive novità. 

Parliamo ora degli aspetti che non definirò sic et simpliciter tutti negativi, ma che lasciano comunque questioni e problemi non risolti. 

Già si era anticipato che la nuova, pur meritoria, distinzione tra soggetti “istituzionali”, “accreditati” e “altri soggetti” formatori, vede una disciplina tuttora incompleta: mancano il provvedimento attuativo e il repertorio nazionale previsto dall’Accordo stesso per gli “altri soggetti”. Il che significa che ancora oggi non esiste un unico elenco di tali soggetti (la formazione è obbligatoria, ricordiamo, almeno dal precedente Testo Unico, il 626/1994), pur promesso dalla Presidente del Consiglio nell’incontro con le parti sociali dell’8 maggio. L’apposito Tavolo tecnico promesso allora si è almeno insediato, ma ovviamente i lavori restano in fase interlocutoria. Ripeto inoltre che occorre tempo per una valutazione dell’efficacia del nuovo ASR, sia per quel che riguarda l’efficacia interna, cioè la qualità intrinseca della formazione, sia per quella esterna, cioè l’incremento dei comportamenti sicuri con conseguente diminuzione di infortuni e malattie professionali. 

Un secondo aspetto, se non completamente negativo, ma certo critico, è quello legato alla tempistica. Le disposizioni transitorie fanno entrare in vigore subito alcuni obblighi, per altri il termine è di 12 mesi, e in ogni caso non si rinviene un meccanismo di coordinamento. Ed è noto che nelle pieghe delle proroghe si possano infilare deroghe, annacquamenti e indebolimenti sostanziali degli obblighi. 

Più critica è la previsione che Regioni e Province Autonome possano introdurre norme “migliorative” rispetto a quello dell’ASR. Ben vengano norme migliorative, ma in che senso lo devono essere? Il termine si presta ad interpretazioni differenti: migliorative per chi? Per i datori di lavoro e i soggetti formatori con meno obblighi e controlli, o per più stringenti requisiti e contenuto della formazione, e quindi per i discenti?  Inoltre, non si capisce chi decide se sono davvero migliorative o meno (non basta classificarle migliori per esserlo realmente…); e in ogni caso esiste la possibilità concreta che l’uniformità regolativa nazionale venga meno. E per assurdo, potrebbe accadere che una formazione fatta in una Regione non sia valida in un’altra che ha proprie norme “migliorative”? 

Pecche ancora  maggiori risiedono però nell’assenza di qualsiasi riferimento ai rischi specifici dello smart working, o comunque del lavoro ibrido o a distanza (si vedano gli articoli già pubblicati a riguardo su questo sito QUI e QUI), modalità di lavoro sempre più diffuse ed in tendenziale espansione, su cui anche l’Agenzia Eu-OSHA ha da tempo puntato l’attenzione. E analogamente nulla si dice sui PCTO (Percorsi Competenze Trasversali e L’Orientamento, l’ex alternanza scuola lavoro) o per i tirocini formativi, curriculari o meno, che pure riguardano centinaia di migliaia di giovani e che, aggiungo, spesso consistono in attività lavorative vere e proprio con poco o nulla d’altro, (quindi mera manodopera gratis o a buon, anzi ottimo mercato). E senza nessun obbligo formativo codificato, assenza appena temperata dalla previsione di un costante accompagnamento allo studente o stagista da parte del Tutor o comunque di personale dipendente; ma che la previsione sia spesso disattesa ce lo dice la cronaca. E i numeri degli infortuni sui PCTO, anche mortali (600 nel primo trimestre del 2025 di cui 4 mortali, secondo i dati INAIL) indicano invece che il punto andrebbe trattato, e con urgenza. 

 Infine, come è noto l’intelligenza artificiale – AI – è ormai entrata nei luoghi di lavoro, e nulla fa pensare che ne uscirà o ridurrà il suo peso, anzi, tutto fa pensare semmai il contrario. L’ASR non sembra cogliere la centralità di questo elemento, e la tratta qua e là, non organicamente. Osservo che vi sono elementi che riguardano la formazione di chi la usa o ne è comunque interessato: i vari sistemi di monitoraggio, attraverso droni, sensori, chatbox, realtà aumentata o virtuale ecc. di posture, comportamenti, eventi infortunistici o near miss (quasi incidenti) comportano trattamento di dati biometrici e decisioni automatizzate; decisioni che, attenzione, non possono però eliminare la responsabilità umana, del preposto o di tutti coloro ad egli sovraordinati. Perché se accade un infortunio per un errore dell’algoritmo, chi ne risponde? Un sistema automatico basato sull’AI è quanto richiede la legge per evitare responsabilità civili e/o penali, quindi basta, oppure l’elemento umano resta indispensabile? Personalmente credo di sì, ma giurisprudenza sul punto ovviamente non c’è ancora. 

Ancora, come si integra l’AI e i suoi modelli predittivi con gli SGSL – Sistemi di Gestione della Sicurezza sul Lavoro – e/o i MOG – Modelli di Organizzazione e Gestione -, strumenti (per usare i quali ancora occorre formazione specifica) tutti incentrati su procedure e in cui l’attività umana è predominante se non unica? E come si affronta la possibile discriminazione algoritmica, che può penalizzare, come bene sanno riders, corrieri ed affini, i lavoratori più anziani, più lenti, meno reattivi, meno flessibili, o analogamente appaltatori e subappaltatori “non all’altezza” (almeno quanto appalti e subappalti non sono solo uno strumento per abbassare i costi)? Abbiamo già scritto in altra occasione che l’AI può essere integrativa, ma mai sostitutiva delle attività e responsabilità umane; ne consegue che la formazione va progettata e erogata in maniera integrata, evitando che l’uso di sistemi di AI sia occasione, o il pretesto, per ridurre il presidio umano alla sicurezza (un sistema AI una volta installato non fa pausa né ferie, non ha cali d’attenzione, non sbaglia, non si lamenta, probabilmente costa di meno). Ma se pure formazione, possibilmente ben regolata, su questi aspetti serve, per affrontare al meglio quella che costituisce l’ultima rivoluzione industriale ci vuole un cambio di passo, una cultura diversa. E per discutere della quale altre che un articolo, non basta un volume, anzi forse neppure una biblioteca. 

A proposito di cambi di passo culturali ed organizzativi a fronte di elementi nuovi, incombendo l’aumento delle temperature causate dal cambiamento climatico, ecco che il rischio calore torna ad incombere nelle attività lavorative, sia all’aperto (dove si somma al rischio da radiazione solare diretta o da superfici riflettenti) sia al chiuso, in ambienti non climatizzati, dove si possono sommare alta temperatura e umidità, scarsa o nulla ventilazione, attività fisica intensa, uso obbligato di dispositivi di protezione o indumenti pesanti, bruschi cambiamenti della temperatura (si pensi alle celle frigorifere) con difficile o impossibile acclimatazione. Ora, è vero che il rischio calore non è che uno dei tanti rischi, anzi di tutti i rischi, che il datore di lavoro deve valutare secondo l’art. 28 del TU 81/2008, con conseguenti obblighi di eliminazione, mitigazione, protezione, sorveglianza sanitaria, informazione, formazione ed addestramento; ma il recente incremento del rischio stesso non si è tradotto in un affinamento/completamento del TU 81 con decreti vincolanti quali emessi per altri rischi, che prevedono magari soglie di esposizione ammesse, metodiche di rilevazione, obblighi precisi. Nell’articolo pubblicato lo scorso anno il 24 luglio (QUI) si era riportato come un Protocollo ministeriale non fosse stato condivisi tra le parti sociali, e che vi fossero diverse Linee guida sull’argomento (si citava quello della Regione Toscana). Quest’anno dal punto di vista tecnico lo scorso 19 giugno la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato delle specifiche “Linee di indirizzo per la protezione dei lavoratori dal calore e dalla radiazione solare” (https://www.regioni.it>download>news) che dovrebbero quantomeno orientare uniformemente in tutta Italia l’attività dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro delle ASL, o altri analoghi enti, oltre che fornire indicazioni metodologiche ai datori di lavoro. Il documento peraltro non è un decreto e quindi non ha efficacia vincolante (usa espressioni come “si raccomanda” “occorre” “sarebbe auspicabile”, “si può adottare”); quanto ad eventuali accordi quadro tra le parti sociali, che incidano anche sullo svolgimento stesso dell’attività lavorativa fino ad una sua sospensione, o proibizione in certi orari/condizioni, non si riscontra ancora un Protocollo di carattere generale. Troviamo accordi settoriali quali quello di Confartigianato Edilizia, ordinanze comunali o regionali emanate o allo studio in materia di attività lavorative/produttive, (che però possono semmai vietare, difficilmente imporre comportamenti e misure), un Piano caldo del Governo sul rischio calore in generale e non solo lavorativo, e provvedimenti degli enti locali variamente denominati ed eterogenei. Magari qualcosa si muoverà dovesse scapparci qualche morto per colpo di calore, che buchi il flusso della cronaca… 

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