Nel carcere di Regina Coeli a Roma, dove ci sono 1.100 detenuti per 628 posti, perfino le aule scolastiche sono state trasformate in celle. In quello di Pavia non ci sono abbastanza letti per far dormire i 684 detenuti, così la notte sono aperte delle brandine che al mattino sono richiuse. Dalla sezione femminile dell’istituto di Agrigento scrivono: “Siamo tre detenute in cella. Il bidet viene usato sia per lavarci che per pulire le stoviglie. Le docce sono in comune e ne funziona solo una su due. Siamo invase da blatte e formiche. Dal bidet fuoriescono i topi. I materassi sono pieni di muffa. Spesso e volentieri siamo senza acqua e luce. Non abbiamo mai accesso alla biblioteca. Non ci sono corsi da frequentare. Non c’è nessuna attività”.
L’associazione Antigone ha intitolato il suo nuovo rapporto di metà anno sulla situazione negli istituti penitenziari italiani Il carcere scoppia. Non ci vuole molto a capire perché. Oggi dietro le sbarre ci sono 61.480 persone, ma i posti disponibili sono 47mila. Non erano così tanti dal 2013 Nelle sezioni maschili di San Vittore, a Milano, il tasso di affollamento è del 227 per cento, a Taranto del 194. Nel paese la media è del 120 per cento. Solo 38 istituti su 190 non sono sovraffollati.
Sulla parola sovraffollamento bisogna intendersi. I posti in carcere sono calcolati sulla base di un decreto del ministero della sanità del 1975, secondo cui “la superficie delle celle singole non può essere minore di 9 metri quadrati e per le multiple sono previsti 5 metri quadrati aggiuntivi per ciascun detenuto”. In quasi un carcere su tre degli 88 visitati da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti neanche tre metri quadrati a testa: la soglia minima della dignità secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo. Per i maiali l’Unione europea prevede che lo spazio minimo negli allevamenti sia di 6 metri quadrati ad animale.
Ma non è solo questione di spazio. Nella settima sezione di Regina Coeli le finestre sono più piccole e fanno filtrare poca aria e luce. In altre aree dell’istituto manca l’acqua. A Carinola, in provincia di Caserta, non c’è allaccio alla rete idrica. Ad Avellino non c’è acqua corrente dalle dieci di sera alle sei del mattino. Le finestre della sezione femminile sono schermate con il plexiglass, impedendo all’aria di passare. In carcere anche l’aria aperta è chiusa.
In celle del genere, le persone possono trascorrere fino a 23 ore al giorno. Qualcuno però non ce la fa: e ingoia pile, si taglia le braccia con le lamette, si uccide. Quest’anno i detenuti che si sono suicidati sono 58. Nove solo nel mese di luglio. Otto erano in carcere da pochi giorni, 27 da neanche sei mesi. Undici invece stavano per uscire. A Novara e Pavia si sono ammazzati due ragazzi di appena vent’anni. Ad Augusta un uomo di 67 anni è morto dopo sei mesi di sciopero della fame. A loro bisogna aggiungere i cinque agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Conoscere i motivi dietro gesti così estremi è complicato: ma il degrado e la violenza in cui sono costretti a vivere carcerieri e carcerati mostra un pezzetto di questa complessità.
Queste condizioni e questa violenza colpiscono anche i minori. A metà giugno erano 555 le ragazze e i ragazzi negli istituti penali per minorenni. Nel 2023 erano 406. Bisogna risalire al 2009 per trovare un numero più alto dei cinquecento. Negli ultimi anni la media si era attestata sui trecento e anche i crimini commessi erano in calo. Quello che è successo è che nel 2023 il cosiddetto decreto Caivano del governo Meloni ha reso più facile prendere un ragazzo e chiuderlo in cella, anche per fatti di poco conto, invece di immaginare per lui percorsi alternativi nelle comunità.
Il sovraffollamento non è una calamità naturale, ma il risultato di politiche che alimentano insicurezza, creano emergenze e rispondono alla percezione di pericolo con leggi che riempiono le galere, punendo spesso i più deboli. Dal 2022 sono almeno sette i provvedimenti del governo che rispondono a queste logiche.
Il carcere, sempre innamorato di se stesso, e i carcerieri, sempre innamorati dei carceri degli altri, non riescono e non vogliono immaginare alternative, e perciò sognano nuove galere. Da anni Fratelli d’Italia punta ad aumentare il loro numero, e il ministro della giustizia Carlo Nordio ha da poco annunciato un commissario straordinario per capire come fare. Tuttavia, la verità è che piani del genere, oltre al fatto che impiegherebbero decenni per essere realizzati, finora hanno dato vita solo a inchieste per corruzione. In Italia, quando non si vogliono affrontare i problemi si nominano commissioni e commissari, e quando si cerca di fare i conti con i disastri delle galere si promette di costruirne di nuove.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) ha indicato un’alternativa più semplice ed efficace: permettere ai detenuti di lavorare. I dati dimostrano che la percentuale della recidiva tra chi ha un impiego, sia dentro sia fuori le mura di una prigione, scende dal 68,7 per cento al 2 per cento. Ma in Italia il lavoro all’esterno coinvolge meno del 5 per cento dei carcerati.
Il resto cerca di non finire inghiottito dalle sabbie mobili. In meno di un mese, dal 27 giugno a oggi, ci sono stati undici casi di proteste e rivolte: la maggior parte per il suicidio di un detenuto e contro le condizioni invivibili delle strutture.
D’altronde, sono gli stessi tribunali a riconoscere queste condizioni come inumane e degradanti, giudicandole in base all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Nel 2023 sono stati presentati circa diecimila ricorsi per condizioni di vita degradanti, dice Antigone, e più di quattromila sono stati accolti, concedendo sconti di pena oppure risarcimenti, calcolati in otto euro al giorno.
Significa che l’Italia ammette di far vivere i detenuti in condizioni disumane, ma stabilisce per legge che la dignità calpestata di una persona non valga che pochi spicci.
Il sistema carcerario sta esplodendo, ma chi sente il rumore di questa esplosione?
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 23 luglio 2024