Se per un sortilegio fosse dato a Benedetto Croce, Thomas Mann, Paul Valéry o José Ortega y Gasset di aggirarsi per l’Europa di oggi, primavera 2024, possiamo presumere che non rimarrebbero troppo spaesati di fronte al nostro panorama storico-politico. E non tanto (o non solo) per le ragioni fatte valere da quanti assimilano gli anni 1930 e i nostri. A voler rintracciare analogie, è soprattutto l’Europa di fine Ottocento ad esserne prodiga. Il liberalismo democratico si rivelò allora non all’altezza delle sfide poste dalla società di massa; assieme alla sfiducia nel parlamentarismo, nella politica e nelle élites, guadagnarono terreno i populismi. La guerra ispano-americana per il controllo di Cuba mostrò all’Europa come il suo ruolo nel mondo fosse per sempre cambiato. E ci si accorse con angoscia dell’inadeguatezza del sistema internazionale organizzato per nazioni a far fronte ai pressanti problemi di carattere sovranazionale, posti da un mondo sempre più interconnesso, con la rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione. Di fronte ai limiti oggettivi del liberalismo democratico, e contro la diffusa tentazione di fare tabula rasa dei suoi valori, autori come Croce, Mann, Valéry e Ortega si sforzarono di ripensarne alcune nozioni chiave (come individuo, felicità, responsabilità). Le loro riflessioni, vane nell’immediato a contrastare una seconda guerra mondiale, innervarono in seguito la ricostruzione: gli anni 1960, in cui le democrazie liberali concepite anche nel solco delle loro meditazioni parevano procurare all’Europa occidentale benessere sociale, crescita economica e ottimismo civile e culturale, li avrebbero rinfrancati.
Un malcelato moto di amarezza potrebbe dunque percorrere i loro volti nel constatare che il dibattito è fatalmente tornato, nel 2024, a vertere sui malumori verso le democrazie liberali, e sulle antitesi di sovranismo/internazionalismo e guerra/pace, con un’Europa per giunta nuovamente stretta tra due guerre, stavolta in senso non cronologico ma geografico.
È tuttavia lecito supporre che non rimarrebbero né eccessivamente delusi (scortati dall’idealismo cauto, o pessimista, che fu sempre il loro), né troppo sorpresi ritrovandosi davanti qualcosa che tanto li aveva occupati e preoccupati: l’illiberale, che riaffiora nell’Europa del 2024 con incarnazioni più o meno gravi, più o meno superficiali, a seconda dei paesi e degli ambiti. Si affretterebbero dunque a rammentarci due o tre punti per loro importanti, e capaci peraltro di far fare qualche passo avanti al nostro dibattito su fascismo/antifascismo/populismo.
Primo: l’illiberale è una questione, prima ancora che di contenuti, di toni e di stile, comunicativo e di pensiero. Non di rado il vero messaggio, nei discorsi politici e non solo, è affidato ai toni più che ai contenuti; e non è detto che persone che sostengono idee simili o apparentate, lo facciano con gli stessi obiettivi e significati (si può ad esempio criticare l’ideologia woke con modalità e presupposti molto diversi da quelli di Vannacci).
Secondo: l’illiberale è contagioso, si diffonde a macchia d’olio. Già Aristotele metteva in guardia rispetto alla pericolosità della condotta illiberale perpetrata anche solo da un singolo all’interno della comunità, poiché apre una breccia destinata ad allargarsi, e può in definitiva arrivare a minacciare l’esistenza stessa della società liberale.
Terzo: il problema del tono illiberale è che può dare l’illusione, o venire scambiato, per concretezza, franchezza o determinazione. Non si può non dare ragione a Carl Schmitt quando constatava che le dittature sono più efficaci e decisioniste che non le democrazie, impigliate in processi decisionali complessi (qualcosa di simile, ma a favore della democrazia, diceva anche Tocqueville). Ma occorre beninteso chiederci al servizio di cosa vogliamo mettere la concretezza, e anche distinguere quando è solo parvenza.
Quarto: al polo opposto dell’illiberale sta, per Croce, Mann e altri, meno il liberalismo (termine dalle mille accezioni, su cui non ci dilungheremo qui) che la liberalità, ovvero l’ideale etico di apertura mentale, disponibilità al dialogo, generosità e larghezza di vedute, descritto e difeso da Aristotele come da Cicerone e per tutto l’umanesimo (umanesimo tra l’altro evocato anche da Macron nel recente discorso alla Sorbona). Chi fa esercizio di liberalità accetta di ascoltare le ragioni dell’altro, rispetta i molti modi di essere o di pensarsi felici, desidera un mondo che consenta alle inclinazioni e attitudini di ciascuno di fiorire. Gli ostacoli alla realizzazione delle proprie inclinazioni sono molti, e sempre nuovi e imprevedibili; ma vale la pena che la politica si dia il compito di provare a rimuoverli. Questo è alla fin fine il più ambizioso obiettivo della democrazia liberale, ovvero di quel tipo di democrazia che cerca di far posto a tutti, anche a coloro che non fanno parte della maggioranza.
Se la democrazia liberale non può ridursi alle sue pratiche istituzionali, ma presuppone (anzi coincide con) un insieme di condotte etiche, assieme mentali e pratiche, siamo chiamati tutti, in prima persona, a tenerla viva giorno dopo giorno, a farci davvero democratici e liberali nella condotta quotidiana, prima ancora che nella vita di cittadini e nel rapporto con le istituzioni. La questione è assai meno avulsa dal voto europeo di quanto possa sembrare: uno degli spartiacque del prossimo parlamento europeo sarà proprio l’accettazione dello stato di diritto democratico-liberale.
Un altro tema decisivo sarà se e quanto l’unione debba essere approfondita. Leo Strauss osservava, a proposito della situazione della Germania tra le due guerre, che la debolezza della democrazia di Weimar rendeva molto probabile la sua dissoluzione, ma non l’avvento del nazismo. Detto altrimenti: che mai come nei passaggi storici cruciali è importante riportare in primo piano la domanda “che tipo di uomo, che tipo di società vogliamo”. Valéry riteneva che gli uomini si differenzino dagli altri animali soprattutto per la capacità di “sognare”; e in effetti alla politica dovremmo anzitutto chiedere di aiutarci a concepire nuovi sogni e ad articolare meglio quelli esistenti, oltre che creare le condizioni per inverarli. Ecologismo e sostenibilità sono certamente molto, ma, da soli, insufficienti a rispondere ai tanti quesiti che la vita in comune pone. D’altra parte, le visioni in qualche modo suggerite dai “conservatori europei” pretendono di costringere la nostra comprensione del mondo entro concetti vecchi: la quotidianità delle nostre società è più aperta, inclusiva e flessibile dei termini ottocenteschi usati per descriverla, e dobbiamo esigere, da noi stessi e dalla politica, un aggiornamento delle nozioni con cui pensiamo la comunità.
“Contro l’orribile facilità di distruggere”, intitolava Valéry una sua nota: un altro monito che uomini che vissero le prime due guerre mondiali si sentirebbero di rivolgerci. La distruttività ci circonda: non solo in senso proprio, con le guerre e il carico di morte e macerie che generano, ma anche con il catastrofismo sensazionalista dei giornali, l’insulto divenuto prassi del dibattito politico, una riflessione sull’Europa spesso appiattita sulla critica all’eurocentrismo (pur necessaria, intendiamoci) e su altri approcci decostruzionisti. Com’è noto, all’indomani delle due guerre mondiali, gli europei ebbero l’audacia di concepire un progetto di unione i cui punti cardine, incredibilmente ambiziosi se pensiamo alla situazione storica in cui vennero formulati, includevano un’unione energetica, militare e politica di cui constatiamo ancora oggi tutta la necessità. I traumatici eventi delle guerre da cui l’Europa è circondata e dell’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto ci daranno almeno il coraggio di chiederci cosa vogliamo essere?
Questo articolo è stato pubblicato su Le parole e le cose il 4 gigugno 2024