Forse saranno gli orrori che ci vengono mostrati a incrinare le nostre certezze, noi che avevamo sempre creduto che la pace e il negoziato – da “negozio” – venissero sempre e comunque prima di ogni altra cosa. Come dopo Srebrenica, spontaneo viene il rigurgito: perché non abbiamo saputo, potuto evitarlo?
Le vittime innocenti gridano vendetta, oggi come sempre, come in ogni dove. Già i nostri bellicisti commentatori ammoniscono che le immagini di corpi senza vita abbandonati lungo le strade tra le rovine «dovrebbero togliere ogni alibi a chi in nome del pacifismo o di una neutralità ponziopilatesca suggerisce che non si faccia niente per fermare tutto questo» (Polito sul Corriere). «Il mostro non è solo la guerra. A Putin non deve restare altra alternativa che la pace.» Ma ha forse alibi il pacifismo? O, come ha affermato Di Francesco sul manifesto, è piuttosto contro-contro, altro che né-né.
Noi sappiamo quanto inermi siamo e non saranno quelle armi in più che d’impeto abbiamo deciso di concedere a un esercito a cambiare le cose sul campo. Perché le guerre sono maledettamente complicate, perché nonostante l’orrendo delitto di Mladic oggi a Srebrenica «non c’è più un solo minareto», come mi disse orgoglioso l’autista che mi ci guidò tra le sue case tranquille, quando tutto era finito. Le guerre le decidono i potenti sulla testa, e i corpi, della povera gente.
«Sulla sofferenze non si sbagliavano mai gli antichi maestri: quanto bene ne avevano compreso la posizione umana, come può avere luogo mentre qualcun altro sta mangiando, aprendo una finestra, o solo facendo due passi… Non dimenticavano mai che anche il più terribile martirio può avvenire in un angolo, dove il cane fa i suoi bisogni, mentre il cavallo dell’aguzzino escoria l’innocente dietro un albero». William H. Auden sapeva, ricordandoci la callosità dell’animo umano.
Perché chi, oggi, nel dirci che Putin è un mostro – «ve l’avevamo detto» – insiste che non vi è altra scelta che non armare i poveri ucraini e armarci noi tutti, ci vuole anche convincere che se deve essere guerra, che sia, anche se a farne le spese sarà la povera gente, a milioni. Era quello che non avevamo mai voluto e ci avevamo creduto, persino accettando le promesse del mondo “nuovo” che si era lasciato intravedere dopo la caduta del muro simbolo.
Si era aperto un orizzonte: la fine dei blocchi, l’apertura di nuovi Paesi e milioni di uomini e donne bramosi pronti finalmente a godere della felicità del libero mercato e del consumismo. Facciamo tacere i fucili, smantelliamo gli apparati militari, che il capitalismo saprà avere la meglio dove il comunismo ha fallito, questo ci avevano promesso. Poi, però, le cose sono andate diversamente.
Se Putin oggi ha “riportato indietro l’orologio della storia” è però anche vero che la storia ha radici profonde, che non poteva essere l’economia dello scambio diseguale a cancellare. Si accusano i pacifisti e le molte frange della sinistra nel mondo occidentale di ragionare con la vecchia logica dei blocchi (e, ça va sans dire, dell’anti-americanismo). Ma non è forse quella logica che ci porta a dire, oggi, di nuovo, che bisogna stare da una parte – e ben armati – contro l’altra, disumana e totalitaria com’è?
Certo, questa guerra – «questa invasione di uno stato da parte di un altro stato, nel cuore dell’Europa» – segna un nuovo spartiacque, tanto quanto lo fu il radioso 9 novembre dell’89. Con due tratti distintivi: la fine della globalizzazione e la fine dell’Europa. La globalizzazione capitalistica liberista – borderless, limitless – che ha finto di “soprassedere” al ruolo della politica e della storia, dei popoli e delle loro culture. Perché si fanno affari con tutti, che importa chi c’è al governo, la rete dei commerci renderà inutili le differenze di regimi, politiche, finanche i confini, che segnano i limiti dei rapporti tra le genti. Un’Europa che non ha mai saputo guardare oltre a sé se non come a un insieme di entità economiche, prive di un orizzonte comune e condiviso.
Le sfere d’influenza torneranno ad essere segnate da una demarcazione che non è più “ideologica” ma dettata comunque dalla logica militare e politica di una potenza che – avendo perso la primazia economica – può comunque vantare quella bellica. L’Europa, che dopo l’89 aveva avuto l’occasione di esprimersi come il centro di un nuovo multi-lateralismo, includendo nella sua grande “unione doganale” tutti, Russia compresa, guardando al superamento dei blocchi e all’annullamento definitivo dell’opzione nucleare, ha mostrato la sua piccolezza. Dopo aver glorificato per anni i suoi padri fondatori oggi raccoglie i frutti di quella cecità e non può altro che tornare a ripararsi sotto l’ombrello americano.
Gli europei, nel loro insieme, destinano già 232 miliardi di dollari all’anno alle spese militari, contro i 62 della Federazione Russa (e i 778 degli Stati Uniti). Ora, si dice, ogni Paese europeo dovrà spendere di più. Perché dobbiamo essere più “protetti” da mostri come Putin. Già, ma come costringeremo il mostro alla pace, forse facendogli guerra? E che guerra potrà mai essere che non lasci sul terreno solo morte e distruzione e nessuna “vittoria”? Davanti a noi c’è il nostro fallimento di europei – dall’Atlantico agli Urali – di non aver saputo mai, in questi trent’anni, far uscire dalle nostre prospettive l’opzione militare. Perché fa parte della nostra storia, e peccato per gli innocenti che ne dovranno, come sempre, pagare il prezzo.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 5 aprile 2022