Un report dall’incontro “Il lavoro deve essere sicuro!”

5 Maggio 2024 /

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Lo scorso 22 aprile a Bologna, Il manifesto in rete, anche in preparazione della Giornata mondiale della sicurezza sul lavoro del 28 aprile, ha organizzato un convegno sull’argomento (LOCANDINA QUI), i cui partecipanti sono indicati qui (vedi locandina allegata). Sulla pagina Facebook (…) è parimenti presente la registrazione dell’intero evento. 

È difficile dare conto in un articolo di un dibattito ricco e forse inaspettatamente articolato e “sentito” durato oltre tre ore, e che, possiamo dirlo, per queste caratteristiche avrebbe meritato una platea ben più ampia. E la toccante testimonianza della madre di un giovane morto sul lavoro ha offerto un quadro anche straziante di quel che accade prima, e dopo, una morte sul lavoro, anche nella ricerca di verità e giustizia; e senza dimenticare che nella giornata in cui scrivo i morti sul lavoro sono, una volta di più, tre. 

Si esporrà di seguito una sintesi della discussione, che, anticipiamo, ha finito per coprire l’intero spettro della materia. 

Dati: i dati INAIL, unici “ufficiali”, indicano negli ultimi anni una sostanziale stabilità del numero di infortuni (tra i seicento e settecentomila l’anno), con piccole oscillazioni ma un calo drastico dai picchi deli anni 60 e 70; purtroppo, minore la diminuzione di quelli mortali assestatisi intorno ai tre morti al giorno; il 90% degli infortuni si concentrano nelle piccole e medie imprese, le malattie professionali piuttosto nelle grandi. Pare inarrestabile la crescita invece delle malattie professionali, ordine di grandezza qualche decina di migliaia all’anno, fenomeno peraltro multifattoriale e più sfuggente, ma insufficientemente studiato e attenzionato. I dati INAIL quali presenti nella relativa banca dati riguardano però solo i lavoratori coperti dalla relativa assicurazione obbligatoria, lasciando fuori qualche milione di soggetti (partite IVA, riders con contratti di collaborazione occasionale, agenti di commercio, pensionati che continuano a lavorare, ecc.); e gli indici di frequenza e di gravità, pur di nuovo (da poco) presenti, non rinveniamo approfondimenti e commenti. Se conoscere i dati è indispensabile per intervenire, si sente quindi acutamente la mancanza di un reale, (e pur previsto dal Testo Unico) SINP – Sistema Informativo Nazionale della Prevenzione – che integri tutte le informazioni (sugli eventi, la vigilanza, le infrazioni, le soluzioni, le esposizioni ai rischi, eccetera). E ammirevoli iniziative di privati, come l’Osservatorio sui casi mortali di Carlo Soricelli che autonomamente integra i dati INAIL solo assicurativi, non bastano a coprire questa mancanza. 

Norme: la normativa italiana è una delle più avanzate d’Europa, a partire già dal Codice civile del 1942 (l’articolo 2087 in particolare), cui seguono la Costituzione, le direttive europee, I Testi Unici fino al vigente TU 81/2008, e relativa normativa di dettaglio e sistema sanzionatorio anche penale. L’obbligo di sicurezza ricadente sui datori di lavoro è indubitabile e rafforzato dalla legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche; ed il sistema (legge 231, Testo Unico 81/2008) è configurato in maniera tale da incentivare l’adozione di Modelli di Organizzazione e Gestione – MOG – che hanno efficacia esimente ma anche migliorano nei fatti la sicurezza sul lavoro ove non restino sulla carta (la norma recita “se efficacemente adottati). Emergono però problemi rilevanti di applicabilità ed effettività della normativa, in un sistema in cui operano molti soggetti diversi, con datori di lavoro assai differenziati circa dimensioni, capacità economiche e organizzative. Problematica è spesso anche la conciliazione dei precetti costituzionali di diritto al lavoro e diritto a salute e sicurezza; infine, emerge la tendenza di governi e Parlamento ad interventi spot, sull’onda di eventi di particolare risonanza mediatica, con innovazioni normative che si accumulano sulle preesistenti ma senza un disegno complessivo, comunque di dubbia efficacia. In materia di appalti e subappalti, punto dolente a detta di tutti gli intervenuti, la ormai consolidata liberalizzazione normativa, e connessa diffusività degli stessi a cascata, trova pochi argini in quelle norme del Codice civile (articoli 2049 e seguenti) perché tendenzialmente limitati al primo anello della catena. 

Vigilanza – Manca una banca dati complessiva delle aziende ispezionate e della tipologia di sanzioni, ogni ASL ha i propri dati raccolti poi dalle Regioni, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro i propri. I LEA (Livelli essenziali di assistenza) in materia di sanità pubblica prevedono una percentuale minima del 5% di aziende ispezionate ogni anno; il dato della provincia di Bologna per la sola ASL è oggi del 7,5%. Tutti gli interventi sono stati concordi nel dire che quand’anche i numeri crescessero (previo indispensabile reclutamento di personale dedicato, invece in tendenziale calo pur con qualche debole segnale di inversione di tendenza)  e i sistemi di intelligence migliorassero, la mera vigilanza repressiva con funzioni di deterrenza, per quanto indispensabile (e, mi permetto, auspicabilmente incrementabile e mirata e più coordinata), non può bastare; più efficaci strumenti come la sospensione dell’attività. Differenti valutazioni sono emerse sull’opportunità di sanzioni più severe, anche penali, fino all’introduzione di una nuova figura di reato di omicidio sul lavoro.; sul punto mi limito a fare un parallelo con il reato di omicidio stradale, che non pare abbia avuto significativa efficacia preventiva. Circa la tipologia delle infrazioni, la vigilanza in questo territorio fa emergere soprattutto falle nel sistema di gestione interna della sicurezza specie, ancora,  nelle piccole e medie imprese, poco strutturate e impreparate: gestione della sicurezza solo burocratica, quasi fosse una qualsiasi consulenza e non un obbligo non delegabile del datore di lavoro, scarso o nullo aggiornamento della valutazione dei rischi anche dopo infortuni, formazione carente in quanto o mancante, oppure aspecifica ed astratta, senza verifiche di efficacia, quando non addirittura falsa, con una sorta di mercato di false attestazioni. 

Imprese, appalti e subappalti – emergono situazioni e approcci molto diversi. 

  • Grandi imprese associate a Confindustria – appaiono consapevoli che a) meno infortuni significano meno costi, più produttività, maggior benessere, e la sempre più importante, oggi, migliore reputazione aziendale; di qui, investimenti tecnologici (robotizzazione, sensoristica, AI) ed organizzativi (ad esempio certificazioni di qualità, che i dati INAIL- Accredia indicano in effetti largamente adottati nelle grandi imprese, reti di comunicazione come il CLUB degli RSPP, formazione su cui vedasi oltre) b) il rispetto della normativa di sicurezza, come delle norme in materiali di lavoro, fiscali ecc. è essenziale per la concorrenza leale.  
  • Piccole imprese (qui presente CNA) – la normativa attuale si applica con difficoltà ad aziende piccole e poco strutturate, la gestione della sicurezza costa, prevale una logica burocratica di adempimenti formali anziché una cultura della sicurezza che la vede come un investimento (specie nei titolari delle piccole!); occorrerebbero strumenti appositi che mancano, e più formazione. Peraltro, da un lato molte di queste PMI affrontano oggi un delicato passaggio generazionale, la manodopera qualificata è difficile da trovare; ma soprattutto penalizza il sempre più diffuso sistema di appalti e subappalti, nel quale le PMI appaltatrici sono schiacciate da logiche produttivistiche e da tempi sempre più ristretti. 
  • Appalti e subappalti – i dati sulla vigilanza e quelli sugli infortuni confermano che questo è l’anello debole della catena non solo dal punto di vista economico e normativo. La liberalizzazione a cascata degli appalti, e la cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro che troppo spesso è mera precarizzazione, rompono la catena delle responsabilità, rendono difficile la formazione, ma anche la stessa gestione della sicurezza. Appalti e subappalti possono non essere un male in sé se le aziende di maggiori dimensioni vi ricorrono per procurarsi competenze specializzate non presenti al proprio interno; ma più spesso sono solo strumenti per abbassare costi e tempi, e sono le attività meno qualificate ad essere appaltate; e in ogni caso il controllo della grande azienda appaltatrice si esercita solo sul primo anello della catena – (problema di qualificazione dei fornitori). È posizione quasi unanime tra gli intervenuti che appalti e subappalti vengano maggiormente regolamentati e controllati. 

Formazione: spesso considerata la panacea, ma parlando di vigilanza si sono già visti dei limiti di fatto. Il mercato del lavoro precario non aiuta, sono evidenti le difficoltà di una formazione reale nel proliferare di contratti a tempo determinato e/o in somministrazione di breve durata, per non parlare del lavoro nero o del falso lavoro autonomo. Nei settori più a rischio (edilizia, agricoltura, trasporti, certe attività metallurgiche) la formazione sui molti lavoratori stranieri incontra difficoltà linguistiche e culturali, l’obbligo formativo è recentissimo per i datori di lavoro, e per i soggetti “atipici” quali le partite IVA non ne è previsto alcuno. Inoltre, l’obbligo formativo prescritto si colloca a livelli minimi, l’attenzione all’addestramento e all’aggiornamento è insufficiente, l’Accordo Stato-Regioni che regola la materia risale al 2011, è scaduto del 2021 e non è ancora stato rinnovato; in ogni caso le metodologie didattiche obbligatorie sono ferme alla lezione frontale per numeri tot di ore e metodi di valutazione dell’efficacia “laschi”.  Metodi di formazione partecipata (ce ne sono tanti), o con realtà aumentata e virtuale (ad esempio, il “gemello digitale” dell’operatore che consente una visione esterna dei rischi all’operatore stesso) sono poco diffusi, poco conosciuti e scarsamente o punto incentivati. 

Organizzazioni sindacali – oltre alla necessità di un maggior controllo e regolamentazione di appalti e subappalti (restrizione fino al divieto in particolare per le stazioni appaltanti pubbliche, per alcuni), le organizzazioni sindacali concordemente ritengono che una cultura della sicurezza vada diffusa in tutti i modi, anche con iniziative mediatiche, ma soprattutto debba partire dalla scuola; ma non esiste un disegno organico su questo pur in presenza di un certo numero di singole iniziative non coordinate. Pressoché unanime è anche il giudizio sugli effetti negativi dello spezzettamento del mercato del lavoro e la necessità di migliorare la formazione (unanime il giudizio e negativo sui ritardi del rinnovo dell’Accordo Stato regioni), come anche di un intervento pubblico (cfr. oltre) più incisivo, o impegno degli enti bilaterali ove presenti; come è noto sulla necessità di un salario minimo legale e non contrattuale, che disincentivi appalti al ribasso, esistono posizioni diverse. Uno strumento da potenziare, in termini di conoscenza, controllo, consapevolezza dei rischi e loro valutazione/mitigazione è certo quello degli RLS – Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, terminali delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro. Gli RLS però non sempre sono presenti in tutte le aziende, ed allora subentrano gli RLST (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriali), con ovvi problemi di conoscenza ed effettività dell’azione se territori ampi e rischi diversi, oppure quelle di sito (RLSS), indispensabili in quei contesti (esempio, porti, grandi complessi industriali) in cui fisiologicamente e continuativamente operano più aziende diverse. Infine, si è posto l’accento che sull’inarrestabile aumento delle malattie professionali, che peraltro chi ne è affetto ha l’onere di denunciare, manchino sufficiente attenzione e controlli. 

Politiche pubbliche e strumenti volontari – A fronte di eventi gravi e mediaticamente rilevanti, normalmente la reazione dei decisori politici è quella di inasprire le sanzioni o istituirne di nuove, senza una riflessione sul perché quelle esistenti (che, si è visto, non mancano) si ritiene non funzionano o non sono state sufficienti. Strumenti normativi di carattere generale come la patente a punti, o crediti, in edilizia (al momento del convegno il testo definitivo non era conosciuto, in ogni caso in vigore da ottobre 2024), hanno ricevuto un giudizio negativo unanime in termini di insufficienza, inefficacia sostanziale, e anzi incremento degli oneri amministrativi per le aziende e per i soggetti pubblici preposti ai controlli; inoltre la filosofia resta quella del mero rispetto delle norme, senza alcuna spinta/vantaggio ad miglioramenti ulteriori. Il problema è inoltre che non sono inquadrati in una strategia complessiva che manca: manca una politica nazionale per la prevenzione che non insegua singoli eventi e coordini i diversi strumenti a disposizione (dati, soluzioni tecniche e organizzative, norme, controlli, formazione, incentivazioni); evidentemente, la sicurezza non è percepita come una questione sociale. E l’autonomia regionale differenziata in discussione oggi, ove tra le competenze “devolute” compare anche il lavoro, e quindi la sicurezza, non potrò certo favorire questa strategia nazionale oggi mancante. Sempre a livello nazionale, l’INAIL ha un attivo annuale ormai consolidato intorno ai tre miliardi di euro; ma altre esigenze ritenute prioritarie fanno sì che i bandi per investimenti in prevenzione, i cosiddetti Bandi ISI tendenzialmente annuali e attivi i da più di vent’anni, abbiano a disposizione quest’anno poco più di un decimo di quell’avanzo, e è già un incremento rispetto agli anni precedenti. Analogamente, gli altri meccanismi di incentivazione economica dell’assicurazione obbligatoria INAIL (tariffe modulate secondo il meccanismo bonus malus, ulteriori sconti di premio per interventi ulteriori e migliorativi rispetto a quelli obbligatori), hanno un peso economico non particolarmente rilevante; e sorprendentemente poca diffusa e pubblicizzata è tutta l’attività di studio e ricerca che la stessa INAIL conduce e mette a disposizione gratuitamente.  

A livello territoriale, gli enti locali (regioni, città metropolitane, comuni) hanno poteri di coordinamento e impulso di iniziative, attraverso quelli che le norme chiamano Tavoli e che coinvolgono, come il presente convegno, i diversi soggetti a vario titolo competenti o interessati alla sicurezza sul lavoro. Come esempio, citiamo gli interventi che il rappresentante della Città metropolitana di Bologna ha enumerato, con singoli aziende o su siti produttivi (aeroporti, centri logistici, grandi insediamenti commerciala),  e che riguardano vigilanza, controlli, in una certa misura qualificazione delle aziende operanti; e negli appalti/lavori pubblici specifici Protocolli che prevedono limiti o divieti ai subappalto, livelli minimi salariali, applicazione dei CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Il limite di questi strumenti è però che richiedono una volontà politica dell’ente coordinante, ma soprattutto che sono volontari e, aggiungo, non incentivati. Il limite della volontarietà è il medesimo anche per tutta una serie di strumenti organizzativi, formativi e simili, efficaci ma che hanno un costo economico e gestionale a fronte di incentivi nulli e scarsi, e con vantaggi differiti nel tempo; e o stesso dicasi per strumenti come gli SGSL – Sistemi di Gestione della Sicurezza sul Lavoro – certificati, che l’esperienza dimostra come riducano gli indici di frequenza e di gravità degli infortuni ma che non sono nella possibilità di tutte le organizzazioni. 

In conclusione, molto resta da fare e molto si può fare e, in una certa misura, si fa. Ma l’assenza di una strategia complessiva, di una politica nazionale sulla prevenzione resta confermata e non si può che auspicare, e lavorare secondo le proprie possibilità e competenze, perché ci si arrivi e divenga operativa. 

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