La cultura dell’odio e quella della pace

di Aldo Tortorella /
1 Febbraio 2024 /

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Il segretario generale dell’Onu Guterres a un certo momento della guerra in Palestina ha detto una cosa ovvia: che le azioni di Hamas «non vengono dal nulla». Naturalmente aveva prima e tempestivamente condannato in modo giustamente duro i crimini commessi dai commando che entrarono in Israele e assalirono alcuni villaggi e dei ragazzi in festa assassinando bambini, adolescenti, donne, civili inermi. Ciononostante fu subito accusato dai governanti israeliani di aver giustificato il terrorismo, tanto che ne chiesero le dimissioni. Ma sforzarsi di capire non vuol dire giustificare.

Senza dubbio, i crimini commessi dagli uomini di Hamas in quella incursione sono inescusabili e condannabili da ogni persona civile e da qualunque parte li si guardino. Ma pur se si vogliono definire «non uomini ma bestie» gli autori di quei crimini, come fece Netanyahu, bisognerà comunque chiedersi che cosa possa trasformare delle persone in modo tale da negarne la natura umana. Pare che fossero drogati, ma erano soprattutto drogati da un odio incontenibile, feroce, accumulato nel tempo, un odio che nessuna bestia prova ma che è solo e tragicamente umano. L’odio folle di chi soffre l’indicibile e vede ricco e felice il vicino vincitore. Sono state ricordate (da una nota giornalista, Alessandra Sardoni) le parole di Andreotti nel 2006 quando vi era un ennesimo scontro: «Ognuno di noi se fosse nato in campo di concentramento e da cinquant’anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista».

L’odio non è da una parte sola. È alimentato dal vincente che lo prova dentro di sé verso chi ha perso e non si rassegna. Secondo l’osservatorio dell’Onu negli ultimi dieci anni le vittime palestinesi nei territori palestinesi della Cisgiordania occupati dai coloni israeliani sono state dieci volte più numerose di quelle israeliane, migliaia contro centinaia. Le carceri d’Israele traboccano di palestinesi incarcerati, il capo più amato dei palestinesi, Marwan Barguthi, è in carcere da venti anni per accuse di cui si è sempre dichiarato innocente.

L’odio porta al desiderio di vendetta, non di giustizia. Lo prova ciò che è accaduto e che accade a Gaza, mentre scrivo queste righe: una continua e opposta strage dettata dal governo israeliano e moltiplicata molte volte rispetto alla prima (quante volte? già molte più di dieci) di bambini, ragazzi, donne, civili inermi. Una strage non meno orrenda e inescusabile della prima. Gaza, un cimitero di bambini, disse il segretario dell’Onu, maledetto dai governanti israeliani.

Basta con la carneficina aggiunsero a un certo punto il presidente francese oltre ai paesi arabi miracolosamente uniti. E, quando fu impossibile tacere, anche il presidente-protettore americano, i cui sommessi consigli di qualche prudenza nella vendetta erano stati sprezzati, mormorò: «troppi civili uccisi». Ma l’industria bellica americana continua nei suoi profitti. Galli della Loggia ha voluto ricordare le stragi spaventose di civili operate dagli inglesi verso la fine della seconda guerra mondiale contro i civili di città tedesche ormai allo stremo (ma ha dimenticato quella della bomba atomica su Nagasaki dopo Hiroshima).

Stragi spaventose, si dice, che hanno preceduto un felice tempo di pace. Il raggelante paragone, a parte la logica e il sentimento che rivela, non tiene conto della differenza di una guerra tra forze equivalenti e tra equivalenti stragi umane e la guerra tra aerei supertecnologici carichi di bombe a tonnellate contro i parapendii sospinti da una motocicletta con il terrorista a bordo. Il fatto che noi bianchi dominanti abbiamo compiuto in tutti i tempi eccidi, stragi, massacri, genocidi tra di noi stessi e ancor più verso i popoli soggiogati non giustifica la tendenza a continuarli. Si vuole distruggere Hamas, si semina altro odio per sempre.

Non si può capire quello che accade senza ricordare la storia. Si accusa giustamente Hamas di negare la legittimità stessa dello Stato di Israele, mentre altra e opposta parte della dirigenza palestinese l’aveva e l’ha accettata, con Arafat prima, con Abu Mazen adesso. Ma lo Stato di Israele non ha mai accettato l’idea di uno Stato palestinese al suo fianco. Quando le Nazioni Unite (oggi oggetto di contumelie dai governanti israeliani) nel 1949 riconobbero lo Stato d’Israele contemporaneamente affermarono l’esistenza di uno Stato arabo palestinese dividendo in due parti la Palestina allora sotto controllo britannico.

La fondazione dello Stato di Israele era l’attuazione di una idea del movimento sionista maturata alla fine dell’Ottocento e costituiva il risultato di una lotta dura, compreso il terrorismo, contro il protettorato inglese, ultima dominazione dopo il crollo dell’impero ottomano a seguito della prima guerra mondiale. E la sede in Palestina del nuovo Stato veniva considerata non solo dal movimento sionista come un legittimo ritorno, iniziato in realtà con le immigrazioni dall’Europa orientale nella prima metà del Novecento, dopo una diaspora millenaria. Una dispersione forzata fattasi intensa in seguito alla vittoria di Tito (il futuro imperatore) nella guerra ebraica finita nel 70 d.C. con l’assedio di Gerusalemme e la distruzione del tempio e della città, anche se un ultimo bastione resistette ancora altrove. E la diaspora divenne definitiva cinquanta anni dopo con la repressione feroce (essendo imperatore Adriano) della terza guerra giudaica conclusa con una strage genocida: era il 135 d.C., diciotto secoli prima del Novecento.

Il ritorno dopo quasi duemila anni e la formazione dello Stato di Israele sulla metà di un territorio occupato da centinaia di anni da un altro popolo avrebbe chiesto una straordinaria opera di comprensione reciproca. Esso si scontrava contro qualcosa che è diventato senso comune con il riemergere del sentimento nazionale e la fine degli imperi: qualcosa di vivo ancora oggi, quando si affermano i diritti della maggioranza dei popoli residenti contro le rivendicazioni fondate sulle radici storiche (gli ultimi episodi qui in Europa furono il Kossovo, antica culla della Serbia ma a maggioranza albanese e l’Ucraina, antica culla della Russia ma in cui i russi sono minoranza).

Molti dei sostenitori dello Stato israeliano teorizzarono il contrario con la negazione della esistenza stessa di un popolo palestinese (lo slogan era: «una terra senza popolo per un popolo senza terra») nonostante un popolo assai numeroso esistesse su quella terra e che la provincia di Palestina sotto l’impero ottomano avesse addirittura relazioni proprie con alcune dei maggiori Stati di allora. E i palestinesi si sentirono chiamati a pagare loro per le infamie compiute dai cristiani prima e per il genocidio nazista poi.

Era certo legittima l’aspirazione espressa dal movimento sionista di costruire uno Stato per gli ebrei. Il guaio fu che contro la decisione dell’Onu di creare due Stati per due diversi popoli, prevalse in gran parte della dirigenza israeliana, più o meno apertamente, a causa anche degli attacchi armati arabi, tutti sconfitti, il fastidio o l’intolleranza per il diritto degli altri. Andare a vivere in casa che altri consideravano propria avrebbe richiesto una comprensione innanzitutto dal vincitore, certo particolarmente difficile quando, come in questo caso, l’opposto punto di vista si radica anche in integralismi religiosi. Ma prevalse in entrambi la negazione dell’altro.

È dunque giusto dichiarare inaccettabile la negazione dello Stato di Israele da parte di Hamas. Ma dovrebbe essere combattuta perché inaccettabile la negazione stessa della esistenza di un popolo palestinese come avvenne e come avviene nella destra estrema israeliana (fino alla invocazione dell’atomica su

Gaza da parte un ministro di quella parte politica). E dovrebbe essere egualmente considerato giusto giudicare inaccettabile la negazione pratica di uno Stato palestinese: basti pensare alla proliferazione delle colonie israeliane nella Cisgiordania palestinese e il regime di permanente assedio della striscia di Gaza. Un assedio talmente occhiuto anche da parte dei servizi segreti israeliani famosi per la loro efficienza da rendere evidentemente falso che il governo Netanyahu non sapesse niente di un attacco preparato da gran tempo: e infatti il capo dei servizi ha detto che non è vero. Il New York Times lo ha rivelato. Forse non ci si aspettava la dimensione dell’attacco, ma è certa la volontà del governo con la destra estrema di distruggere Hamas.

Spettava anche all’Europa agire per la reciproca comprensione. Ma va ricordato che la corretta tesi di una notevole parte della Dc (da Moro ad Andreotti) di una eguale amicizia per entrambe le parti fu osteggiata non solo dai governi destrorsi israeliani, ma anche dai loro protettori atlantici.

Prevalse l’idea che il giusto sostegno a Israele dovesse cancellare ogni attenzione sugli abusi e sulle persecuzioni contro tutti i palestinesi e non solo contro i terroristi. È anche questo isolamento che ha fatto diventare l’Olp minoranza (perdi più minata all’interno dalla corruzione) e rese Hamas maggioritaria a Gaza e in Cisgiordania. In realtà l’attuale e terrificante episodio di una infinita tragedia è anche una sconfitta e una vergogna per le forze che hanno dominato e in parte dominano ancora il mondo, cioè quella comunità occidentale che si raduna attorno agli Stati Uniti d’America.

Ed è un risultato della guerra mondiale a pezzi (copyright papale) ormai da tempo in atto tra la potenza americana – finora dominante per la sua superiorità economica, politica, tecnologica, mediatica oltre che militare – contro le potenze che rivendicano il loro ruolo alcune essendo decadute (la Russia) e altre essendo divenute adulte (la Cina, l’India) o nasciture. Anche le guerre più vicine a noi, ciascuna con le proprie cause specifiche, fanno parte di questo scontro: la Libia, la Siria e ora quella stessa che si combatte in Palestina. E l’Europa è trascinata in questo scontro senza aver nulla da dire, annuitrice subalterna ai voleri e agli interessi della potenza maggiore.

Ma non si può parlare delle colpe degli altri senza riflettere sulle proprie. Anche le forze maggioritarie della sinistra di tipo socialdemocratico (compresa quella italiana) abbandonarono quel poco di interesse per la causa palestinese dopo il fallimento, con l’assassinio di Rabin nel ’95 (e il successivo sabotaggio di Netanyahu per la prima volta primo ministro) degli accordi di pace patrocinati da Clinton tra Rabin e Arafat, e dopo l’insuccesso, agli albori del nuovo secolo, del nuovo tentativo di Clinton, attraverso il primo ministro laburista Barak, di una soluzione pacifica questa volta respinta da un Arafat ormai indebolito politicamente dalle lotte di fazione interne alla società palestinese e dal crescere delle posizioni più estreme dinnanzi agli abusi dei vincitori.

Prevalse tacitamente anche nella sinistra maggioritaria europea l’idea della causa palestinese come una sorta di causa persa particolarmente dopo la vittoria di Hamas a Gaza nello scontro elettorale e poi militare contro Al-Fath, la formazione armata dell’Olp (cui seguì la messa fuori legge delle milizie di Hamas da parte di Abu Mazen). Le lotte tra le molte fazioni palestinesi, il declino dell’Olp che non osò più organizzare elezioni, la protezione atlantica, cioè statunitense, di Israele quale che fossero i suoi abusi (nell’insediamento delle colonie, nello spostamento della capitale a Gerusalemme, nelle misure di apartheid eccetera) fecero sì che la sinistra di orientamento socialdemocratico lasciasse il tema palestinese, nella sostanza se non nella forma, alle organizzazioni umanitarie.

Non c’è nessuno che possa dichiararsi innocente di fronte alla tragedia palestinese. E nessuno sfuggirebbe alle conseguenze dell’eventuale estensione del conflitto. Perciò hanno ragione le straordinarie manifestazioni di pace e di vicinanza al popolo palestinese che è ben più vasto di Hamas. Così come il popolo di Israele e gli ebrei sparsi nel mondo non possono essere identificati con il governo Netanyahu che fu combattuto in piazza da milioni di israeliani per le sue tendenze liberticide. Dobbiamo ringraziare i coraggiosi intellettuale ebrei che hanno levato la voce della opposizione e ci hanno aiutato a capirlo.

L’antisemitismo è una tendenza antica spesso usata dai potenti per trovare un capro espiatorio per i propri misfatti. Uno strumento di potere diventato genocidio con i nazisti e i fascisti combattuti e vinti dall’alleanza antifascista. Ma il latente antisemitismo trova nuova linfa per opera di un governo israeliano colpevole prima di non aver difeso i suoi cittadini con una politica di pace e con una corretta vigilanza e colpevole ora di voler cancellare le sue colpe antiche e recenti con un massacro.

Non è antisemita chi combatte la politica di Netanyahu non a caso oggi sostenuto dalle destre europee estreme tradizionalmente antisemite e ora islamofobe. Chi combatte la politica di Netanyahu combatte anche contro la ripresa dell’antisemitismo che vuol ricacciare su tutti gli ebrei le colpe di una politica sciagurata. Così come l’islamofobia vuol ricacciare le colpe dei gruppi terroristi arabi su tutto l’Islam. Antisemitismo e islamofobia si sostengono a vicenda come uno zombi e un vampiro: hanno la stessa sete di sangue e vanno combattuti insieme. Impegnarsi contro il genocidio dei palestinesi vuol dire anche pensare all’avvenire degli israeliani. Sostenere il diritto dei palestinesi ad avere il loro Stato corrisponde alla lotta per il diritto degli israeliani a vivere in pace. E al dovere, particolarmente per noi italiani ed europei che subimmo il fascismo e il nazismo razzisti e antisemiti, dopo averli inventati in Italia e in Germania, di batterci contro la cultura dell’odio e della vendetta.

Parlare di fraterna comprensione tra i popoli mentre le guerre infuriano appare come una ingenua utopia ma non c’è altra strada per evitare il peggio.

Questo articolo è stato pubblicato su Critica Marxista, numero 5 anno 2023

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