Mentre ci accingiamo a commemorare la Shoah – il più radicale genocidio che la storia umana ricordi – e a ribadire il fermo ripudio della persecuzione razziale antisemita messa in atto dal nazismo e dal fascismo, non possiamo esimerci dall’esprimere nel contempo la più ferma condanna della violenza che ha insanguinato il Medio Oriente e in particolare la Palestina dall’ottobre 2023. Non è possibile rievocare la memoria dell’Olocausto come se nulla fosse accaduto negli ultimi 14 mesi. Sotto i nostri occhi è successo l’indicibile: i discendenti delle vittime del genocidio, oggi al governo nello Stato di Israele, sono a loro volta chiamati a rispondere dello sterminio di un popolo, quello palestinese. Nel maggio 2024 la Corte penale internazionale ha dichiarato colpevole di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per le azioni efferate compiute dal suo esercito ai danni della popolazione civile di Gaza e della Cisgiordania. Associati nello stesso verdetto di condanna i principali leader di Hamas, responsabili del feroce assalto terroristico condotto contro cittadini israeliani il 7 ottobre 2023. Si calcolano 2.000 caduti tra gli israeliani e oltre 47.000 tra i palestinesi, ai quali vanno aggiunti circa 110.000 feriti e mutilati.
Fra le vittime civili, migliaia sono bambini, e immani le distruzioni di case e ospedali nell’intera striscia di Gaza, ridotta a un cumulo di macerie. Scuole e biblioteche sono state rase al suolo assieme a fabbriche e impianti energetici. Se questi sono i risultati, è doverosa una domanda: cosa non ha funzionato nel progetto di insediare in terra palestinese i superstiti della mattanza antisemita provocata dal delirio di Hitler e degli altri “volenterosi carnefici”, attivi in ogni Paese europeo, Italia compresa?
Se escludiamo la breve parentesi garantita dagli accordi di Oslo del 1993, presto vanificata sia dall’assassinio del primo ministro israeliano Rabin da parte di un fanatico fondamentalista ebraico, sia dal rifiuto di Hamas di riconoscere lo Stato israeliano, disarmanti e impietosi sono i risultati del controverso progetto sostenuto dalla maggioranza delle Nazioni Unite nel 1947 (37 voti su 56).
Ricordiamo che tra arabi e israeliani, dalla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 al 1973, sono scoppiate ben quattro guerre (nel 1948, nel 1956, nel 1967 e nel 1973). Ai conflitti militari si sono aggiunte ripetute e spontanee rivolte popolari palestinesi, le Intifada: la prima dal 1987 al 1993, la seconda dal 2000 al 2005. L’Onu dal 1948 al 2016 è dovuta intervenire almeno 75 volte, con Risoluzioni atte a pacificare i conflitti perenni e a sanzionare condotte illegittime. Nel 1948 sono stati espulsi dalle loro terre circa 750.000 palestinesi, costretti all’esilio nei Paesi arabi limitrofi. In tempi successivi altrettanti ebrei sono stati cacciati dai Paesi arabi dell’Africa e del Medio Oriente. Prima dell’ottobre 2023 si contano circa 35.000 vittime palestinesi in scontri a fuoco con le truppe israeliane e 170 attentati terroristici ai danni degli ebrei, con oltre 700 vittime civili. I miliziani di Hamas da anni scaricano raffiche di missili sui villaggi israeliani prossimi ai confini, con danni alle persone e agli edifici.
Per separare i due popoli che prima degli anni Venti del secolo scorso erano convissuti sulla stessa terra relativamente in pace, sono stati costruiti da Israele oltre 740 Km di muri imponenti e reticolati, intercalati da minacciosi check-point di controllo. Il territorio palestinese della Cisgiordania è stato invaso, frammentato e occupato illegalmente da coloni israeliani armati, in più riprese. Si consideri che il territorio stesso era già inadeguato nel 1948, dal momento che alla popolazione araba – corrispondente ai 2/3 degli abitanti complessivi – era stata riservata meno della metà delle terre disponibili e fertili. Quanto ai coloni israeliani intrusi, questi ammontavano a 100.000 nel 1992, saliti oggi a 700.000. I loro villaggi fortificati e isolati vengono difesi come enclave all’interno dei confini palestinesi. Dopo il 7 ottobre tale presenza è ancora più aggressiva, nonostante le promesse del governo israeliano di limitarne l’afflusso.
Il giornalista Federico Rampini, inviato in Israele nel 2018, descrive sgomento il “groviglio di frontiere che s’intrecciano e si confondono, un labirinto che è impossibile disegnare su una carta… israeliani e palestinesi sono separati ora da alti muri, ora da fili spinati, posti di blocco, videocamere, divieti di attraversamento. Un coacervo assurdo”.
Non è possibile ritornare al 1945 e rifare tutto daccapo, ma almeno la storia di quanto accaduto al termine della guerra va ricostruita correttamente. Alla fine del secondo conflitto mondiale, nel quale sei milioni di cittadini di religione ebraica sono stati sterminati, circa 250.000 loro correligionari scampati ai lager, temporaneamente raccolti nei campi profughi o vaganti senza meta attraverso le macerie europee, attendono di conoscere il proprio destino. Se i più giovani nutrono fiducia nei tempi nuovi, gli altri non vogliono far ritorno nei luoghi dai quali i nazisti li hanno deportati, complici spesso concittadini “ariani”. Gli ebrei polacchi che ardiscono tornare – come accade nella cittadina di Kielce nel 1946 – vengono aggrediti ferocemente alla maniera dei pogrom di inizio secolo. In altri casi il rientro dei sopravvissuti viene accolto con diffidenza e sospetto perché si teme che reclamino – com’è naturale – la restituzione dei beni sottratti.
In tutti loro è ancora viva e bruciante la memoria dei dinieghi ricevuti da parte dei governi europei quando, braccati dagli antisemiti in camicia bruna, avevano chiesto accoglienza. Alla Conferenza di Evian promossa dal presidente Roosevelt nel 1938, solo due Stati – entrambi fuori dall’Europa – mostravano umanità verso i perseguitati, la Repubblica Dominicana e la Colombia, assieme alla città di Shangai in Cina. Agli ebrei in fuga aveva precluso l’ingresso anche l’Argentina, indicata dal padre del sionismo Theodore Herzl come possibile patria per gli ebrei, oltre alla Palestina.
Dunque dopo la fine del conflitto si ripropone la domanda, ora in termini ancora più drammatici: dove andare? Dove ricominciare a vivere dopo l’incubo della deportazione e delle camere a gas? La nuova Europa democratica, spinta dal senso di colpa per il dramma che si è consumato entro i suoi confini, rispolvera la soluzione proposta dal ministro britannico Balfour nel 1917 di riservare agli ebrei un “focolare nazionale” in Palestina. E se nel primo ventennio del Novecento in quelle terre in gran parte aride vivevano insieme in un clima di relativa tolleranza circa 80.000 ebrei e 700.000 arabi, trent’anni dopo in conseguenza delle persecuzioni naziste approdano in Terra Santa masse di israeliti raggiungendo le 450.000 unità, un terzo dell’intera popolazione. L’immigrazione crescente crea dissapori e conflitti con i residenti di origine araba, contrasti dei quali gli inglesi sono ben consapevoli.
Per parte loro gli arabi palestinesi, rimasti sotto il mandato britannico dalla caduta dell’impero ottomano nel 1918, stavano faticosamente costruendo la propria identità di popolo, coltivando la speranza di vedere riconosciuto il legittimo diritto all’autodeterminazione. Ciò non era scontato se è vero che in quel periodo gli abitanti del territorio non venivano designati come “arabi” ma quali “comunità non ebraiche della Palestina”. Quando nel 1947 si chiude la parentesi della procura, gli inglesi abbandonano in tutta fretta l’area mediterranea di competenza dichiarandosi di fatto incapaci di governare i rapporti sempre più conflittuali tra i due popoli.
La patata bollente passa all’Onu che nomina un’apposita Commissione, l’Unscop, nella quale non è rappresentata alcuna nazione araba. Nel corso dei lavori, come pure nei dibattiti in Assemblea generale, si presta scarsa attenzione al problema nazionale palestinese, data l’urgenza di risolvere a ogni costo la questione dell’insediamento ebraico. La deliberazione di creare due Stati indipendenti sulla stessa terra, sottraendone parte cospicua ai palestinesi, viene approvata a maggioranza, con il mondo arabo decisamente contrario. Gli ebrei proclamano in breve tempo il loro Stato, ed è subito guerra: il linguaggio delle armi allontana indefinitamente la creazione del secondo Stato, quello palestinese.
Ben presto la geopolitica dell’intera area medio-orientale con i suoi inesauribili giacimenti petroliferi viene subordinata ai cinici e lucrosi interessi degli Usa e degli Stati arabi, i quali alimentano lo scontro continuando a fornire armi e denaro ai contendenti. E sconcerta che i Paesi europei, lungi dal proporsi come mediatori autorevoli e credibili fra le parti, si siano accodati agli Stati Uniti sostenendo senza riserve Israele, come stanno facendo da mesi. Quali voci si sono levate per chiedere che si mettesse fine alla quotidiana uccisione di civili a Gaza, effetto secondario della caccia agli esponenti di Hamas, da parte israeliana?
Rinascono nel contempo fondamentalismi religiosi intolleranti e nazionalismi aggressivi, insofferenti delle regole dettate dalle Istituzioni internazionali, sempre più neglette. Il resto è ben noto. Si è perpetuato il conflitto fra due popoli entrambi vittime della storia, secondo la calzante e amara definizione dell’intellettuale palestinese Edward Said. I tragici esiti sono sotto gli occhi di tutti, anche nell’immagine di una Gaza spettrale, simile a Hiroshima. La realtà attuale richiede una risposta costruttiva non più rinviabile, nel rispetto dei diritti di entrambe le parti. Ne hanno assoluto bisogno i giovani e i bambini ebrei e palestinesi che stanno crescendo come nemici irriducibili e che non trovano davanti a sé un futuro di pace con la prospettiva di una vita degna di questo nome. Una riconciliazione allontanerebbe lo spettro dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria, oggi evocato dai focolai di guerra accesi un po’ ovunque, a cominciare dalla vicina Ucraina. Va scongiurato l’incubo di un mondo dove la diffidenza verso l’altro e la paura del diverso inducono al rifiuto e ai respingimenti, dove le contrapposizioni diventano implacabili e lo spirito di vendetta sovrasta la richiesta di giustizia, mentre il confronto civile e la diplomazia cedono il campo all’invettiva e all’esibizione muscolare.
Per coloro che hanno il compito di tessere la tela del dialogo è d’obbligo uscire dalla logica aberrante della guerra, che minaccia di distruggere il mondo intero agli albori del nuovo millennio. E ci auguriamo che non prevalga l’idea di creare nuovi Stati mono-etnici e mono-religiosi. Quelli teocratici di cui abbiamo oggi esperienza alimentano soltanto fanatismo, scontri belluini e intolleranza. La stessa intolleranza dalla quale trae origine anche la pretestuosa accusa di antisemitismo rivolta verso tutti coloro che ardiscono criticare la linea politica e la condotta dell’attuale governo israeliano.