Pluriverso

di Sergio Messina /
5 Dicembre 2021 /

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Una delle sfide più importanti dell’umanità contemporanea è quella di sapersi orientare in un mondo a crescente complessità. Ancor più difficoltoso risulta definire linee di azione e di trasformazione comuni che facciano capo a differenti contesti geografici ed esistenziali, i quali tuttavia condividono o possono condividere orizzonti di ricerca-azione trasversali.

Uno degli strumenti basilari che consente di porre in essere tale impegnativo percorso (che investe tanto il piano individuale, quanto quello collettivo) è l’individuazione di parole-chiave sia per il presente, sia per l’avvenire. Parole-chiave che sono state spesso dispiegate attraverso la costruzione di un dizionario, il quale si differenza dalle enciclopedie perché mentre queste ultime assumono una funzione teorica e conoscitiva per una determinata branca del sapere o dello stesso sapere universalmente inteso, il primo costituisce una cassetta degli attrezzi immediatamente operativa.

Ciò che di primo acchito balza agli occhi è che Pluriverso (Orthotes Editrice) è un dizionario elaborato sulla falsariga di precedenti lavori (ad esempio il Dizionario dello sviluppo, curato da Wolfgang Sachs, Staying Alive: Women, Ecology and Development di Vandana Shiva, sulla decrescita progettato da Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgio Kallis, ecc.) ma con la differenza che esso rappresenta ancor più marcatamente un quadro non solo di concetti in senso lato ma anche di realtà viventi, di azioni e strategie collettive, di risorse valoriali e politiche che si pongono in alternativa allo spazio-tempo liscio e atonale del neoliberismo.

Il dizionario, curato da studiosi provenienti da diverse aree geografiche e disciplinari, dietro l’apparente frammentarietà delle voci innerva un assemblaggio di proposte collegate a un filo comune con tratti decisamente innovativi rispetto all’ortodossia dell’analisi (eco)marxista: la fuoriuscita dal capitalismo grazie all’adozione plurale e non “occidentale” di un paradigma di pensiero e di azione qual è l’ecologia politica, assunta a bussola omnicomprensiva sia per l’interpretazione, sia per l’intervento attivo sui processi reali. Una visione integrata che non consiste come è noto nel perseguire esclusivamente solo l’equilibrio dell’ambiente naturale così come inteso astrattamente dalla scienza ecologica, ma di tenere conto e di organizzare politicamente un possibile mutamento di relazioni che sono insieme socio-economiche ed ecologiche.

Un architrave che a sua volta non solo si richiama a un’idea di “giustizia ambientale” (in rapporto alla iniqua distribuzione dei rischi che popoli o comunità di diversi Paesi del Sud del mondo subiscono a causa del modello entropico di produzione proprio delle nazioni maggiormente industrializzate e politicamente più influenti nel panorama internazionale), ma – come sostengono anche i curatori dell’edizione italiana – edifica rapporti di reciproca convergenza e contaminazione tra diversi orientamenti, propri di movimenti come quelli femministi e decoloniali. Come evidenziano i curatori: <<La Tessitura Globale delle Alternative è un’iniziativa che ha lo scopo di creare reti di solidarietà e alleanza strategica tra tutte queste alternative, a livello locale, regionale e globale>>[1].

Ciò che più balza evidente è che tale arazzo di alternative pone una sfida all’assetto della “governance” tecnocratica e manageriale-espressione non autoritativa di amministrazione e gestione che coinvolge tanto soggetti pubblici quanto privati, anch’essa “pluralistica” ma solo apparentemente orizzontale e democratica, dato il differente peso economico e politico che hanno gli stakeholders nell’influenzare il processo decisionale.

Centinaia sono le parole che emergono all’interno delle singole voci; eppure al netto dei dettagli delle svariate concezioni (economiche, giuridiche, religiose, antropologiche ecc.) si possono individuare a mio avviso quattro assi portanti che caratterizzano tale sfida non solo politica ma anche “istituzionale”: 1) il carattere “globale” e non solo locale dei beni comuni (acqua, clima, energia, cibo, conoscenza, tecnologia) che travalicano i confini amministrativi in generale e statali in particolare; 2) gestione comunitaria della produzione e delle risorse (comunità energetiche, alimentari, economiche, culturali e politiche); 3) perseguimento di una sostenibilità ambientale “forte” orientata non alla ingannevole “ecoefficienza”, ma al rispetto dei limiti biofisici del pianeta; 4) un’etica politica non antropocentrica come filo conduttore che accomuna contesti culturali derivanti da diversi paesi (Buen vivir, Ubuntu, Swaraj ecc.).

Sbalordisce la miriade di esempi riportati quale espressione di diversi modi di concepire la natura, l’economia, il diritto e i rapporti sociali in dimensioni che si pongono al di fuori del tecnicismo economico, tecnologico e giuspolitico dell’Occidente (compreso quello delle istituzioni europee) cui si accompagnano nella maggior parte dei casi le proposte “riformiste”, e le similitudini che le accomunano: adottare una differente visione “sistemica”. Un tentativo disperato di far uscire fuori dall’invisibilità[2] voci non solo dissenzienti ma capaci di prospettare altre forme di vita, altri progetti di convivenza civile.

Particolare attenzione è dedicata ai femminismi di varie parti del mondo le cui rivendicazioni si contrappongono alla radice patriarcale dell’“epistemologia del dominio”[3] sull’essere umano e sulla natura che trova – al di là di punti di vista divergenti sull’Antropocene – nella modernità sicuramente una delle sue più peculiari manifestazioni[4]. E, sulla scia del rovesciamento del patriarcato quale radice culturale stratificata alla base di rapporti non paritari tra generi e specie, si inserisce anche il quadro dedicato alle concezioni spirituali e religiose. Queste ultime lungi dal voler abbandonare il processo storico di secolarizzazione rivolgono in realtà lo sguardo a una dimensione “interiore” dell’attivismo (nel dare priorità alla consapevolezza sulla interdipendenza universale e alla compassione quale presupposto imprescindibile della lotta politica), portando in questo modo il conflitto da una dimensione meramente antagonistica a una “agonistica” (per usare un termine di Chantal Mouffe), ovvero in bilico tra democrazia diretta e rappresentanza politica.

In tale direzione di analisi multifocale dello scambio diseguale tra classe, genere, razza e specie e all’insegna di una solidarietà che vada anche “oltre l’umano”, in contrapposizione con le altre due narrazioni dominanti (il nazionalismo xenofobo e il globalismo tecnocratico)[5] è posta dunque una sfida radicale: poter ripensare anche lo stesso concetto di politica[6] grazie al ventaglio delle oltre cento prospettive di transizione evidenziate e rappresentate nel Dizionario.

Senza pretesa di esaustività affiora – nonostante la convinzione dei curatori in base alla quale <<la crisi globale non sia gestibile all’interno dei quadri istituzionali esistenti>> – infine anche un possibile progetto istituzionale nel quadro dell’ attuale forma di Stato costituzionale democratico: una nuova “democrazia ecologica” che vede nei principi delineati da Geoffrey Pleyers nella voce “Movimento Alter-Globalizzazione” e da Ashish Kothari in “Democrazia ecologica radicale” (tra cui sussidiarietà, contro-expertise, alleanze strategiche anche con governi progressisti, economie comunitarie ecc.) i suoi punti cardine essenziali. Gli stessi, incanalati in un’architettura istituzionale tutta da rifondare, potrebbero costituire quei presupposti – illustrati da Luigi Pellizzoni nella postfazione – per una transizione oltre la società dello sviluppo e della crescita: ibridazione, coordinamento, amicizia.[7]

Un progetto che può essere realizzato approfondendo ciò che almeno a mio avviso costituisce un punto a tratti lacunoso del testo: una trasformazione non soltanto socio-culturale, tecnologica e gestionale ma anche giuridica delle strutture dell’attuale “governance”. In altri termini l’eccessiva enfasi posta sulla “comunità” quale esclusivo orizzonte istituzionale rischia di far perdere l’occasione di costruire una sfera pubblica che possa ricondurre il potere politico al di sopra della sfera economica nell’arena internazionale. In tal senso gli Stati – sebbene in larga parte notevolmente indeboliti o collusi con potenze economiche e finanziarie – restano i principali soggetti in grado di facilitare – mediante una cooperazione non escludente – quelle trasformazioni che sono già in atto a margine del “sistema”[8] purché gli stessi possano essere vincolati a livello sia costituzionale sia sovranazionale.

In ordine al primo aspetto, il vincolo deriverebbe da un nuovo patto sociale che veda la natura quale fonte di (ri)legittimazione di un potere[9] funzionale agli equilibri ecologici della biosfera (già ontologicamente “ultra territoriali”) e al suo orizzonte di senso, ovvero il benessere e le felicità individuali e collettive. Riguardo il secondo, il vincolo opererebbe mediante la costruzione di strutture istituzionali sovranazionali (Organismi, Enti e Tribunali) in grado di controbilanciare anche l’autorità degli apparati esistenti attraverso la creazione e applicazione di norme consuetudinarie effettive e capaci di imporsi sulla relatività dei Trattati.

Tutto ciò senza ridimensionare, né derubricare, l’autorganizzazione comunitaria “dal basso”, necessaria ma non sufficiente a mutare il quadro geopolitico in cui si muovono i vettori di potere a livello internazionale, i quali impediscono l’affermarsi di una reale democrazia che non sia espressione di un artificio retorico strumentale a determinati interessi in campo.

Potrebbe dunque risultare forse auspicabile approfondire ulteriormente il tema del “comune” a livello globale scongiurando in questo modo che l’esistente “pubblico” non si annulli in una mera amministrazione corporativa (si pensi solo all’attuale gestione privatistica dell’Antartide una volta affidato a un Organismo pubblico, rappresentativo di vari Stati) ma possa ridefinirsi facilitando una trasformazione ecologica del diritto internazionale. E in particolare del diritto dell’ambiente, allo stato – così come riconosciuto dalle stesse Nazioni Unite – carente di una visione integrata e “olistica” del rapporto umanità/natura a fronte della sua settorialità[10], influenzata dal metodo scientifico “moderno” della separazione in settori strumentali all’esclusivo benessere umano (e in particolare da una egemonia tecno-economicistica).

Una necessità che si presenta anche per il nostro contesto locale, l’Italia e in particolare il suo meridione; in cui occorrerebbe individuare non solo nella cultura “mediterranea”[11] una certa centralità ma anche nell’abbandono delle terre (sia pubbliche, sia private) alla desertificazione (e alla conseguente questione ambientale), alla improduttività e alla (ulteriore) speculazione la leva su cui incentrare una più attenta analisi per una rivitalizzazione anche  “interna” di una pluralità di contesti di vita che non sono soltanto collocati nelle città.

In altri termini quella che è stata la figura finora centrale per la “questione agraria” nel meridione, la “terra”, appare oggi superata da una doppia tendenza che vede da una parte un diffuso abbandono di terreni e dall’altro una tendenza del Paese a trasformarsi da produttore a trasformatore. Questa tendenza rimette in discussione tutta la questione meridionale esponendola a una luce nuova e diversa, e forse neanche più soltanto “territoriale”.

Il testo rappresenta senza dubbio l’evoluzione di ciò che una volta costituiva un “arcipelago verde”.[12] Il Pluriverso infatti non è formato soltanto da soggetti politici, ma da una molteplicità di veri e propri “progetti di vita” e di società, di visioni e di orizzonti “terreni”[13]che si muovono questa volta non più attraverso classiche divisioni come quella tra movimenti strutturali (es. il movimento operaio) e movimenti storici[14] (movimenti etnici, femministi, ecologisti ecc.) che hanno perduto in larga parte la loro ragion d’essere, ma nel solco di una possibile “confederazione internazionalista” in atto all’insegna dell’ecologia politica e della giustizia ambientale.

Occorrerebbe soltanto tenere in maggiore considerazione il fatto che se molto spesso non può aversi trasformazione istituzionale senza una mobilitazione sociale, è anche vero che le edificazioni istituzionali non possono e non devono rimanere appannaggio di élite politiche ed economiche. In tale ultima direzione potrebbe risultare opportuno evitare anche il rischio che un “pluriverso politico” non sia ricondotto (come pure si sostiene nel testo) semplicemente ad una “moltitudine”, ma piuttosto una costellazione sufficiente di soggetti autorganizzati sia fuori che dentro le istituzioni al fine di costruire una necessaria cittadinanza “eco-trans-nazionale”.

Il percorso per un’ulteriore compenetrazione e integrazione di questi due mondi apparentemente contrapposti (istituzione e società) continua e si arricchisce di preziosi ed indispensabili stimoli grazie a questo immane lavoro collettaneo che ha contribuito senza dubbio a ridefinire non solo i punti di partenza, ma anche quelli di arrivo per una reinvenzione della convivenza civile.

Note

[1] Cfr. A. Kothari, A. Salleh, A. Escobar, F. De Maria, A. Acosta (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore (SA) 201, p. 474.

[2] Cfr. B. Latour, Politiche della natura, tr. it. M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano 2000.

[3] Cfr. M. Tallacchini, Diritto per la naturaEcologia e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1996, pp. 22-23.

[4] In polemica con Latour che sostiene non vi sia alcuna discontinuità tra l’era dell’Olocene e quella dell’Antropocene i filosofi Pellegrino e Di Paola evidenziano la progressività del dominio umano sul mondo cfr. G. Pellegrino – M. Di Paola, Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Roma 2018., p. 73.

[5] Cfr. W. Sachs, Prefazione. Dizionario dello sviluppo rivisitato, in A. Kothari, A. Salleh, A. Escobar, F. De Maria, A. Acosta (a cura di), Pluriverso, cit. p. 23.

[6] Cfr., R. Hopkins, Movimento della Transizione, in A. Kothari, A. Salleh, A. Escobar, F. De Maria, A. Acosta (a cura di), Pluriverso, cit. p. 449.

[7] Cfr. L. Pellizzoni, Postfazione. Pluriverso e politica dell’amicizia, in A. Kothari, A. Salleh, A. Escobar, F. De Maria, A. Acosta (a cura di), Pluriverso, cit. p. 485.

[8] Cfr. S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2015.

[9] Sul tema cfr. S. Messina, Eco-democrazia. Per una fondazione ecologica del diritto e della politica, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore (SA); Cfr. Cfr. C. Cullican, I diritti della natura, Zeitgeist, Prato 2012 (Devon 2011); C. Voigt (ed.), Rule of Law for Nature. New Dimensions and Ideas in Environmental Law, Cambridge University Press, Cambridge 2013 e A. Zelle, G. Wilson, R. Adam, H. Greene (eds.), Earth Law: Emerging ecocentric law-a guide for practitioners, Wolters Kluwer.

[10] Cfr. Risoluzione ONU del 7 maggio 2018 su https://undocs.org/en/A/72/L.51 e il Report del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 30 Novembre 2018, Gaps in International Environmental Law and Environment-relatedInstruments: Towards a Global Pact for the Environment, in https://wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/27070/SGGaps.pdf?sequence=3&isAllowed=y.

[11] Per una voce critica sul pensiero meridiano cfr. F.M. Tedesco, Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano,

Meltemi, Milano 2017.

[12] Cfr. G. Della Valentina, Storia dell’ambientalismo in Italia. Dall’Unità ai nostri giorni, Mondadori, Milano 2010.

[13] Cfr. B. Latour, War and peace in an age of ecological conflicts, “Revue Juridique de l’environnement”, (1) 2014, pp. 51-63.

[14] Cfr. P. Ceri, Le basi sociali e morali dell’ecologia politica, in Ecologia politica, Id. (cur.), Feltrinelli, Milano 1987 (cur.), Feltrinelli, Milano 1987, pp. 101 e ss.

Questo articolo è stato pubblicato su Le parole e le cose il 22 novembre 2021

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