Per la sua ventunesima edizione, Gender Bender lo storico festival portatore di una cultura intersezionale e queer in città e probabilmente in tutta Italia, con un certo largo anticipo sui tempi, torna alla sua abituale collocazione temporale autunnale e al consueto marcato policentrismo, sua caratteristica originaria.
Negli ultimi anni così segnati dalla vicenda Covid, Gender Bender aveva dovuto dislocarsi altrimenti, principalmente in zona Cavaticcio, prossimo alla casa madre Cassero e nel mese di settembre, ormai pienamente estivo anche rispetto alle programmazioni artistico-culturali bolognesi.
Nel corso del tempo, erano già successe alcune cose nell’impianto generale di questa rassegna composita pochissimo paragonabile ad altre per diverse ragioni di segno e linguaggio. Per esempio, si era giocoforza attenuata una certa componente lustrini, pailletes, feste, erano già spariti non senza qualche rimpianto, gli stilosissimi gadgets, soprattutto le iconiche spillette identitarie che rimarcavano una scelta culturale e una appartenenza, la cui collezione devo ancora avere da qualche parte. In compenso, si accrescevano di numero e peso sponsors e sostenitori, là dove non ti aspetti, si accentuava una attenzione di riequilibrio tra i generi che rappresentasse uno sfaccettato universo al femminile, si moltiplicavano incontri, sempre più in qualche modo interattivi e soprattutto Daniele del Pozzo brillante curatore ideatore, instancabile viaggiatore per festival e rassegne internazionali, avvezzo come pochi a lavorare su progettualità di ampio respiro europeo, decideva di farsi affiancare nella direzione artistica da Mauro Meneghelli, un operatore culturale più giovane. Che cosa implicitamente comporti in termini di programmazione questa direzione condivisa e dialettica, lo andiamo a scoprire tra poco, facendo due piacevoli chiacchiere con Daniele stesso, presissimo nel mettere a punto gli ultimi dettagli di un grande evento esteso fino a sabato 11 novembre.
21anni sono parecchi e, se quando avete cominciato in fondo eravate piuttosto pionieristici nel tema della rappresentazione e soprattutto autorappresentazione di una certa galassia queer, da allora diciamo che l’arcobaleno si è arricchito di mille sfumature e una certa sensibilità genderfluid si è carsicamente diffusa nel sociale, specialmente giovanile. Questo che cosa rappresenta per voi… vorrei sapere se vi sentite in una difficoltà o in un momento di riflessione e assestamento, pensando ad esempio alle recenti manifestazioni di Stati Genderali, ad esperienze di collettivi ed occupazioni che esulano anche dalla storia di Arci gay, se vogliamo parlar chiaro. In questo contesto, come viene a cadere, il ritorno ad una formulazione classica del festival sia in senso temporale che di dislocazione?
Allora, partiamo dalla fine per rispondere ad un quesito più ampio. Le edizioni settembrine di Gender Bender, hanno avuto come tutte le cose, vantaggi e coni d’ombra… è stato bello stare all’aperto e contigui alla casa madre Cassero, che è il principale produttore e motore del festival stesso, come collettori tutti insieme dell’energia di quanti quel luogo attraversano esprimendo istanze e contenuti. È stato molto intrigante sperimentare il clima comunitario dei festival teatrali canonici che si nutrono anche di tante chiacchiere off, ma nello stesso tempo, è vero che la logistica era necessariamente quella che era e gli artisti performanti distanti dal pubblico. Non potevamo fare più iniziative di tanto e certamente si doveva lavorare in modo molto concentrato. Inoltre crediamo sia giusto incontrare la città e nutrirci di quel pubblico sempre nuovo di lavoratori e studenti che ad ogni nuova stagione rinnova la fisionomia di questa città. Il fatto anche che il nostro know how come posso dire, sia diventato un patrimonio comune, mi pare importante. L’insieme della situazione attuale io lo definirei sfidante, e il processo in corso non lo chiamerei né sdoganamento, né superamento o scavalcamento, né inflazionamento, o peggio ancora frazionamento. Piuttosto come una estensione di richieste, lotte, rivendicazioni e punti di vista che si traducono poi in progettualità culturali. Dalla postura di operatore culturale, io devo essere pronto ad accogliere approcci e attitudini, anche secondo una logica di trasmissione dell’esperienza, che in linea generale a me sembra mancata nel corso degli ultimi decenni e che chiama in causa famiglie, mondo educativo e scolastico, mondo della comunicazione e promozione culturale, mondo della cura e del benessere. Non credo al valore dell’esperienza in quanto foglia di fico del cinismo o di una certa supponenza generazionale. Io ritengo piuttosto che la questione dei generi, in quanto profondamente relazionata, incistata direi nelle nostre individualità sia quanto di più universale si possa immaginare, foriera dunque della possibilità di diventare un grande movimento collettivo, come poi nei fatti è. Che cosa abbiamo di più globale e pervasivo, anche in quanto strumento di egemonia capitalista, se non la questione dei ruoli sessuali assegnati e condizionanti? Gender Bender si pone come un festival che rivendica almeno la possibilità di una autodeterminazione nell’immagine e nell’immaginario dei corpi, corpi non normati spesso. Questo te lo possono dire le relazioni stabilite non solo con i movimenti transfemministi, ma anche con quelli delle associazioni per esempio di migranti o dei portatori di disabilità. Sono relazioni che modificano la natura costitutiva del festival stesso e mirano al coinvolgimento diretto delle soggettività. Sto pensando per esempio al contributo fondante di Al.Di.Qua artists, per migliorare l’accessibilità dei luoghi e dei materiali del festival. Non è, vorrei sottolinearlo, quel tipo di operazione per cui, si dice andiamo a mettere un po’ di genderfluid esotico, di colore o diversamente abile o neurodivergente nel cartellone… Si tratta invece di cercare e trovare alleanze, compagne e compagni di strada, in altre differenze e diversità. Superare con l’intersezione e la trasversalità di istanze e bisogni il senso di impotenza, di marginalità, di minorità, in definitiva… Sono queste le premesse per allargare ed estendere la democrazia cosi in affanno in questo momento. Ricordiamoci che grandi rivoluzioni e processi riformatori sono spesso partiti da avanguardie e cosiddette minoranze. Io non faccio un lavoro strettamente politico, ma so che abbiamo bisogno per poter concepire un futuro diverso non solo di riconnessioni o ricuciture come qualcuno le chiama, ma anche di puntuali letture dei bisogni. I bisogni si leggono anche attraverso il sogno, il desiderio, la messa a nudo.
Non è un caso che ci siano diversi spettacoli in cui agisce il nudo in scena… questo perché ho sviluppato tutta una riflessione in merito… Una riflessione che ha molto a che fare con gli argomenti iniziali sul rapporto con i più giovani. Penso abbiamo bisogno della loro radicalità, anche quando ci suonasse come risaputa o un po’ naif, perché è quella che poi a livello di discorso quantomeno artistico-culturale, poi stabilisce un piano di efficacia. non dobbiamo avere paura dei giovani. Sarò in controtendenza, ma devo dire che io incontro nelle scuole con i teatri arcobaleno tanti giovanissimi e in special modo anche negli istituti tecnico professionali e noto che essi rivelino una curiosità e una maturità di approccio inaspettate se confrontate ad una narrazione ormai largamente mainstream di disagio mentale a fosche tinte depressive e autolesioniste. In altri termini, io credo esistano pratiche trasformative e che da energie finora messe a lato, fuori fuoco, verrà una risposta propositiva e soprattutto unificante nel senso popolare del termine. non ho paura del termine pop, perché questa è una categoria che per me esprime l’estensione come dicevamo agli inizi, della valenza del termine Cultura nel senso della acquisizione di diritti da fette più ampie possibile di cittadinanze, ma anche della definizione di nuovi diritti: diritti non pensabili prima., forse in continua evoluzione. Si procede per aggiustamenti, per pratiche e la misura si questo investimento nella pratica te lo dà la quarta di copertina del nostro giornaletto, house organ del festival :accanto al mondo della cooperazione, accanto alle principali istituzioni locali territoriali, all’Alma Mater, alle Fondazioni, al ministero della Cultura, abbiamo librerie, centri sociali, spazi teatrali, moltissimi altri festival e associazioni, grandi gruppi societari… un mosaico di realtà. Non ti senti minoranza quando riesci a far “convergere” tante specificità e volontà in una progettualità organica : ti senti che stai lavorando in una direzione giusta in senso politico, quella della lotta continua sui diritti, che puoi permetterti di mescolare toni alti e toni bassi, puoi prenderti il tempo di ascoltare perché contemporaneamente sai di dare parola e porte di accesso a soggettività plurime. Sono quelle vecchie e nuove, quelle che si sono affermate con veemenza nel nostro recente passato, quelle che vediamo sfilare e inventarsi forme espressive oggi. Non si tratta di convivere e volemose tutti bene, anche se un aspetto empatico, post umanista, una sorta di compassione per il vivente in se, una capacità di solidarietà e mutualismo tra specie credo siano assolutamente necessari in questo momento critico per noi “sapiens”, ma di evidenziare e riconnettere percorsi e linee di frattura.
Questo certo, per la filosofia generale del Festival, ma rispetto alla sua dislocazione in città e alla sua strutturazione, che cosa puoi dirci? Ho visto che per esempio, pur essendo Ert una delle partnerships del progetto, quest’anno non compaiono gli spazi che abbiamo in città ascrivibili a questa realtà.
Intanto come sai, ci sono due main lines quella performativa, su cui posso risponderti con più cognizione di causa e quella filmica, che quest’anno ritorna in grande spolvero con il concorso affidato alla giuria del pubblico. Ci sono si new entries per quanto riguarda i luoghi, con un certo divertirsi a decentrare ciò che è spettacolo teatrale anche nelle cosiddette periferie, c’è un centro festival che non sarà il Cassero, ma il DAS, dispositivo di arti sperimentali di via del Porto, aperto tra le 15 e le 21, ogni giorno. Ci è sembrato più giusto essere lì, uno spazio che ci rammenta la vocazione sperimentale e la dimensione europea del nostro progettare. A Das, si possono avere tutte le info, ma anche acquistare i biglietti, fare gli abbonamenti ad una parte di programmazione, soprattutto fare chiacchiere su quanto si andrà a vedere. Naturale avere con noi Mambo, Lumiere, con annessa biblioteca Renzi. La mostra fotografica manifesto del festival, che ha anticipato di qualche giorno l’inizio del festival stesso, I want you to know my story, dell’artista statunitense Jess T. Dugan, per esempio sta come è giusto che sia allo spazio Labo, che già sta esplorando il campo della rappresentazione delle identità e relazioni non conformi tramite il mezzo fotografico. Tutto ciò fa parte di quel discorso estensivo ed espansivo che ci serve come grimaldello per uscire dalle secche difensive di un esasperato politically correct e che concorre a quella riformulazione possibile di immaginari che ci sta tanto a cuore. In questo senso è stato anche importante inserire, sempre antecedentemente il Queering museum, ovvero il corso teorico e pratico per la valorizzazione e promozione della cultura queer nei musei. Come sai poi noi prevediamo spesso anche l’incontro con le compagnie. A livello di teoria filosofica, tanto per non farci mancare nulla, ti suggerisco questo incontro del 7 novembre alla biblioteca Renzi, con Chiara Bottici, autrice per i tipi di Laterza del libro Nessuna sottomissione, introdotta da Anna Curcio, un testo prezioso per rileggere ancora una volta il femminismo come dispositivo di rottura dell’ordine capitalistico antropocene-normato. Poi come sai fanno parte della struttura organica del festival sia il teatro arcobaleno che i progetti speciali, ma soprattutto il super progetto contenitore a valenza triennale Performing Gender- dancing in your shoes… ovvero 8 comunità locali, 16 coreografi e coreografe, 11 organizzazioni culturali, dedite a sviluppare nuovi modelli di danza contemporanea e a rielaborare incessantemente una geografia politico-empatica delle pluralità di corpi sulla scena. Quest’anno il focus è sulla comunità di Leeds, ma ogni volta vengono aperti al pubblico esiti laboratoriali condivisi.
Ma se io volessi qualche consiglio spicciolo, qualche pista di orientamento da parte tua in questo vasto cartellone internazionale?
Proverò a darti qualche indicazione, anche se tutti gli spettacoli sono pezzi di cuore, per me come si usa dire da qualche parte. A parte trovare sempre molto interessanti e appunto trasformativi i lavori di Aristide Rontini per la sua proposizione del corpo con menomazione in scena, o adorare il lavoro di gruppo di Ninarello, mi sentirei di indicarti tre lavori molto diversi fra loro ma che riassumono quello che intendo io per corpo esibito, ma sottratto all’estrattivismo sociale, al mondo del mercato, allo sguardo predatorio maschile. Una libertà di esporsi sottratta all’apparire dei nostri giorni e anche al di là del giudizio, del pregiudizio e tutto quanto ci va intorno. Perché se siamo in grado di fabbricarci anche dispositivi di legge accettabili in tante questioni, non è poi detto che il senso comune e il costume vadano di pari passo. A volte essi creano nuove barriere e steccati ogni volta da ridiscutere e ricalibrare. Perciò considero il palco uno spazio di libertà che non vedo altrove. Direi che iniziamo bene già dal due di novembre alle 21 alla sala Centofiori, presso il centro civico Michelini, comunemente noto come Gorki, con il lavoro Ida don’t cry me love, della coreografa belga Lara Barsacq, una prima nazionale. Qui ci saranno tre danzatrici in scena a celebrare con humour e grazia, Ida Rubinstein, iconica musa dei Balletti Russi e pioniera di una rivendicazione di libertà per il corpo femminile. Poi consiglio vivamente Atlas da Boca, di Gaya de Medeiros, un lavoro che viene dal Portogallo, in cui si confrontano due transizioni speculari da genere maschile a femminile e da femminile a maschile, in un serrato dialogo multidisciplinare che coinvolge dispositivi video ed anche il pubblico nella esplorazione della bocca in quanto spazio erotico e politico. Infine, Cuma, una performance solo nudo in scena di Michele Ifigenia /Tiche, ispirata alla figura della Sibilla leggendaria sacerdotessa di Apollo, per una evidente attinenza del corpo liberato dalle connotazioni dell’ovvia riproduzione e riproducibilità sociale con il senso del sacro.
Siamo costretti dalla tirannia dei tempi a congedarci, ma ritroverò poi Daniele e tutto lo staff del Cassero, in perfetto connubio di militanza, attivismo culturale e leggerezza al brindisi inaugurale, che si apre con poche sentite sobrie parole tutte dedicate al delicatissimo momento storico, che ci suggerirebbe di disperarci e rassegnarci, ma che forse ci sollecita invece a tirar fuori le nostre migliori risorse non per ballare sul relitto del Titanic, ma appunto, come espressione anglofona suggerisce, per mettersi nelle scarpe degli altri e solo allora si, poter anche danzare.