La mattanza che sta insanguinando la terra martoriata di Israele e Palestina, causata dal feroce attacco dei terroristi di Hamas del 7 ottobre 2023 e dalla implacabile reazione israeliana in atto su Gaza, induce a riflettere sulle parole profetiche di Edward Said. L’intellettuale palestinese, docente alla Columbia University, invitava a opporsi alla “continua alternanza di violenza e disumanizzazione” che caratterizza il rapporto tra i due popoli e a riconoscere “l’universalità e l’integrità dell’esperienza altrui” per progettare una vita insieme.
Le sue parole fanno eco alle centinaia di donne pacifiste che pochi giorni prima del 7 ottobre scorso si sono riunite attorno al Museo della Tolleranza di Gerusalemme vestite di bianco, impugnando ombrelli candidi e cantando “Vogliamo la pace. Smettetela di uccidere i nostri figli”.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo aver collaborato a lungo con Jasser Arafat, Said assume posizioni critiche nei confronti della dirigenza del suo Paese, avvicinandosi idealmente a Nelson Mandela impegnato a edificare il Sudafrica del dopo Apartheid assieme ai bianchi, che pure erano stati artefici del segregazionismo.
Le riflessioni e le iniziative prodotte e messe in atto da Said inducono a liberarsi dai luoghi comuni sul conflitto perenne tra palestinesi e israeliani e a percorrere nuove strade, soprattutto perché a partire dalla Seconda Guerra Mondiale le vittime degli scontri militari e degli atti terroristici sono prevalentemente i civili. Al loro interno i bambini di cui si fa strage, condizionando in modo irreparabile il futuro.
Non è con missili, bombe e kalashnikov che si risolvono i problemi, che si ottengono tutele o impegni come il rilascio degli ostaggi. Meno che mai tali metodi garantiscono la sicurezza e il rispetto delle libertà e della dignità di ciascuno. I due popoli, afferma Said con lucidità e coraggio, sono entrambi vittime della storia, sacrificate sugli altari del razzismo e del colonialismo europeo. Essendo determinati per necessità o radicamento storico ad abitare lo stesso territorio, israeliani e palestinesi devono pensare a come uscire dalla logica dello scontro distruttivo, partendo dalle comuni sventure: l’Olocausto per gli ebrei, la Nakbah – esodo/catastrofe – per i palestinesi.
Lo sapevano le Donne in nero, israeliane e palestinesi, che nell’inverno del 1988 ogni venerdì si ritrovavano in Sion Square nel cuore di Gerusalemme, e poi in altre città, per manifestare in piedi e in silenzio contro l’occupazione dei territori palestinesi. In breve tempo il loro numero è cresciuto e si sono aggiunte cittadine di ogni parte del mondo, tutte impegnate a percorrere cammini di pace.
Nel 1995 viene creato il Parents Circle Families Forum (PCFF), organizzazione congiunta israelo-palestinese formata da oltre 600 famiglie che hanno perso un figlio o un familiare a causa del conflitto. Procedere insieme con la stretta di mano e lasciarsi alle spalle il fardello della vendetta reciproca, questo lo spirito che le anima, nella convinzione che il processo di riconciliazione tra le nazioni sia un prerequisito per raggiungere finalmente la pace.
Un anno prima della fine del secolo, nel 1999, Edward Said ha voluto condividere con il musicista israeliano Daniel Baremboin la felice esperienza della West Eastern Divan Orchestra, composta da giovani provenienti da vari Paesi del Medio Oriente che, attraverso la musica, hanno intrapreso un viaggio comune all’insegna dell’uguaglianza e della convivenza.
All’inizio del nuovo millennio sorgono nuovi movimenti ispirati al dialogo e al reciproco rispetto, pur nella consapevolezza delle difficoltà del progetto pacifista e degli ostacoli frapposti dalle ali estreme e fanatiche di entrambi i popoli:
- nel 2006, Combatants for Peace (CfP), movimento di base composto da palestinesi e israeliani che agiscono in sinergia per porre fine all’occupazione e portare pace, uguaglianza e libertà nelle terre palestinesi;
- dopo la guerra di Gaza del 2014, Women Wage Peace (WWP), associazione di donne israeliane non rassegnate a vedere figli e fratelli morire nella faida sanguinosa;
- nel 2021, Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che rifiutano lo scontro armato e si impegnano come le omologhe israeliane a sollecitare colloqui di pace ai rispettivi dirigenti politici.
Il filo dell’utopia che lega da sempre le istanze popolari non violente ispira e dà forza alla cerimonia congiunta israelo-palestinese del Memorial Day organizzata da CfP e PCFF, che si svolge ogni anno alla vigilia dello Yom Hazikaron, Giorno della memoria israeliano.
Nella cultura tradizionale israeliana, le cerimonie che si tengono in questo giorno servono prevalentemente a trasmettere narrazioni di dolore e disperazione. Il Memoriale congiunto trasforma questa narrazione assumendo anche l’ottica dei palestinesi. Dal 2006, anno della prima celebrazione, il numero dei presenti si è enormemente accresciuto: nel 2022 hanno partecipato all’evento 300.000 persone. Trasmesso in diretta, l’incontro è stato seguito in streaming da oltre un milione di spettatori. Di recente intellettuali e artisti di spicco hanno partecipato alla giornata, fra loro Mubarak Awad (psicologo palestinese/americano), Mira Awad (affermata cantante palestinese), David Grossman (scrittore israeliano fra i più noti), Sami Shalom Shetrit (poeta ebreo marocchino), Richard Gere (attore americano) e molti altri.
Nella cerimonia del 2022 è stato detto fra l’altro:
Unendoci insieme per piangere il dolore reciproco miriamo a sfidare lo status quo e a gettare le basi per una nuova realtà basata sul rispetto reciproco, sulla dignità e sull’uguaglianza per tutti. Ricordiamo a noi stessi e alla società che l’occupazione, l’oppressione e la violenza non sono inevitabili.
C’è da augurarsi che non cada vittima del delirio terroristico di Hamas e dello spirito di vendetta di Netanyahu il nobile anelito trasmesso da queste donne e questi uomini di pace. Fine della violenza e della prepotenza, dialogo, condivisione, coesistenza da contrapporre a muri, riarmo, attacchi terroristici, scontri militari, spregio delle regole del diritto internazionale, esecuzioni sommarie anziché consegna dei colpevoli alla giustizia.