Di fronte a una calamità naturale, è facile dire che così è la natura, come è altrettanto facile lamentarsi delle autorità (gioire per questo, come fanno gli sciacalli della destra, è meschino). Davanti al dramma, si dice, «non è il caso di fare polemiche». Il disastro cui stiamo assistendo, però, non è solo colpa di Giove pluvio. Una pioggia intensa, in breve tempo, può accadere. Ma, e questa è la prima domanda, eravamo preparati? Certo, non si può prevenire tutto, le calamità sono così. Ma non lo sapevano i nostri amministratori e governanti che gli alvei dei fiumi vanno ripuliti, che gli scoli non funzionano se vengono tombati, che le piogge percolano a valle se le pendici dei monti sono state erose? Quanti e quali investimenti strutturali non sono stati fatti per tenere in ordine fiumi e canali, anche per contenere i danni causati da eventi eccezionali, in realtà, sempre più frequenti, come ci ricorda chi studia il cambiamento climatico?
La regione Emilia-Romagna è terza in Italia per consumo di suolo e prima per consumo di suolo in aree alluvionabili. Tra le province che hanno più cementificato, quattro sono nella regione e Ravenna è seconda solo a Roma, secondo gli ultimi dati Ispra. La capacità di assorbimento idrico del suolo è stata sistematicamente ridotta, rendendolo impermeabile – se su un campo cadono 10 mm d’acqua in superficie ne rimane 1, se cadono su un’area asfaltata ne rimangono 6. Così, enormi masse d’acqua non sono più smaltibili dalla rete fluviale e dei canali e, quando si hanno eventi atmosferici anomali, assumono la dimensione del disastro, fiumi e torrenti esondano e le città vanno sott’acqua. Del dissesto idrogeologico ci ricordiamo quando c’è una catastrofe – com’è stato a Ischia – per poi scordarcene. Noi cittadini ce ne dimentichiamo.
Ma chi ci amministra, e ha promesso di farlo, non dovrebbe dimenticarsene. Anche sul piano del rischio idrogeologico, secondo quanto dicono i dati, la regione Emilia-Romagna primeggia. Abbiamo Leggi Regionali che permettono incrementi d’uso del suolo tra i più alti d’Italia, cui si aggiungono gli interessi dei Comuni (per gli oneri di urbanizzazione che ne ricavano), dei privati e delle imprese a cementificare, in nome, sempre, dello sviluppo, che sapientemente i nostri politici coniugano con le paroline che rassicurano, come occupazione e benessere. In Regione governa il centrosinistra, come a Bologna e in vari altri comuni della Romagna.
A Roma, governa la destra. Entrambi, però, hanno un unico faro: lo sviluppo. Ma è proprio questo sviluppo che va cambiato. Se continuiamo a destinare vaste aree di terreno fertile a piattaforme cementificate per la logistica e le industrie non facciamo che perseverare in una direzione che porterà solo danni. Costruire nuove strade e edifici – con tutto il patrimonio edilizio abitativo e commerciale già inutilizzato o abbandonato – è folle. Ora c’è in programma una grande arteria viaria a 18 corsie che circonderà Bologna.
Una bella, enorme colata di cemento e asfalto, con annessi piazzali per distributori di benzina e servizi. Sarà per fluidificare il traffico, si dice, che così non farà che aumentare, invece di diminuire. Aumentando l’emissione di gas nocivi, riducendo ulteriormente la superficie di suolo libero. Perché, invece, non potenziare i trasporti pubblici, investendo in 10mila navette e autobus? Perché non favorire il trasporto su rotaia?
La collina e la montagna sono state abbandonate. Rimboschimenti fasulli – conifere ovunque, dove non cresce il sottobosco, terreni argillosi lasciati franare, tamponati con cemento -, la montagna disabitata, con nessuno a presidiare il territorio. E come si fa, del resto, a risiedere dove non c’è più un ospedale, un ufficio, una fabbrica, e tutto intorno è deserto?
Forse che nei programmi di chi è stato eletto non vi fosse una sincera vocazione ambientalista? A Bologna come in Regione il “verde” è sempre stato in cima alle priorità, non v’è chi non si dichiari «a favore dell’ambiente». Ma poi, sotto la vernice verde, sopravvive il buon vecchio sano modello di sviluppo industrialista. Che rende felice il consumatore, l’automobilista, il buon cittadino medio (anche perché non c’è autobus o treno). Salvo poi piangere se la città gli si allaga.
Cambiare modello di sviluppo non dovrebbe voler dire solo cambiare stili di vita e consumi. Dovrebbe voler dire prendersi cura diversa del territorio e della natura. Spendendo per prevenire, tutelare e curare, non intervenendo solo nell’emergenza, quando piove come dio la manda. Smettendola di mangiarsi suolo e terreni perché, come vediamo, la natura risponde e ce la fa pagare (cara). Se c’è una sinistra ambientalista, che batta un colpo, per favore, contro i responsabili prima che sia troppo tardi.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 maggio 2023