Per trovare un’autonomia energetica dalla Russia, l’Italia punta sul gas e ha lanciato un nuovo piano di approvvigionamento dal Nordafrica e dal Medio Oriente. Ma il progetto ha scatenato molte critiche.
Una sorta di fabbrica galleggiante arriverà a giugno a Ravenna: si tratta di una nave “gasiera”, vascello di trecento metri attrezzato con grandi serbatoi per contenere gas naturale liquido (gnl), e con gli impianti capaci di riportarlo allo stato gassoso. In termine tecnico è un Floating storage and regassification unit (Frsu): un “rigassificatore”. Attraccherà a otto chilometri dalle spiagge di Punta Marina, in un pontile apposito, e sarà collegato alla rete nazionale da una nuova conduttura di quaranta chilometri (pontile e gasdotto sono ancora da costruire).
Un impianto simile è arrivato a Piombino a marzo tra mille polemiche. Intanto è in costruzione un nuovo gasdotto tra Sulmona, in Abruzzo, e Minerbio, in provincia di Bologna, per raddoppiare il collegamento tra la Puglia e il nord sulla direttrice adriatica: progetto definito da alcuni strategico, da altri superfluo.
Questi progetti incontrano l’opposizione di reti di cittadini, ambientalisti, e in alcuni casi di sindaci e comuni. Ma non si tratta solo di resistenze locali. Una rete di movimenti e organizzazioni politiche e ambientaliste che contesta il piano su scala nazionale ha aderito a un appello a manifestare il prossimo 6 maggio a Ravenna.
Rigassificatori e gasdotti sono parte di una strategia nazionale d’investimenti per rafforzare l’infrastruttura per la trasformazione del gas in energia e mostra le intenzioni del governo di Giorgia Meloni di puntare proprio su questo combustibile. Secondo l’Ente nazionale idrocarburi, il gas resta indispensabile: “Garantirà la sicurezza energetica dell’Italia durante la transizione alle rinnovabili”, si legge sul sito dell’Eni. Due parole aiutano a capire. Una è “hub”, punto di snodo.
Il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin l’ha usata per spiegare come il governo intende garantire la sicurezza energetica del paese: “Bisogna partire dalle infrastrutture del gas, il cui potenziamento e sviluppo consentirà all’Italia, grazie alla sua posizione centrale nel Mediterraneo, di diventare un hub europeo del gas”, ha detto il ministro a novembre, durante un’audizione alla Commissione bicamerale sull’ambiente.
Dunque potenziare rigassificatori, gasdotti e impianti di stoccaggio permetterebbe all’Italia di diventare lo snodo del gas che arriva da giacimenti in Africa e in Medio oriente e diretto in Europa. Dell’Italia come “hub” parla anche la Snam, la società specializzata nel trasporto e stoccaggio del gas naturale (come l’Eni è una società partecipata da Cassa depositi e prestiti, cioè dallo stato italiano), nel suo rapporto del maggio 2022 sulla sicurezza energetica: anche qui leggiamo che le infrastrutture del gas avranno un ruolo chiave.
Per questo bisogna anche aumentare e diversificare gli approvvigionamenti di gas, anche per sostituire quello che veniva dalla Russia. Ed ecco l’altra parola: “piano Mattei”. La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha parlato di un “piano Mattei per l’Africa e il Mediterraneo” durante il suo discorso di insediamento. L’ha evocato di nuovo durante la visita in Etiopia il 15 aprile; lo aveva citato all’inizio dell’anno durante i viaggi in Algeria e in Libia.
Un piano Mattei
Non è chiaro perché Giorgia Meloni abbia scomodato Enrico Mattei, il fondatore dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni), morto nel 1962 in un incidente aereo su cui è sempre rimasta un’ombra di mistero – dopo che negli anni cinquanta aveva lanciato una politica di cooperazione con i paesi produttori a cui riconosceva il 75 per cento del reddito estratto, in aperta contrapposizione ai colossi petroliferi angloamericani.
Non è neppure chiaro cosa sia il “piano Mattei”. Per il momento quello che sappiamo è che ci sono stati nuovi contratti con paesi produttori di gas in Africa e nel Mediterraneo, secondo la strategia avviata dall’Eni nella primavera del 2022 per rispondere alla crisi energetica scaturita dalla guerra in ucraina. Durante le visite in Algeria e in Libia, la premier Meloni era accompagnata tra gli altri dall’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, come già aveva fatto il suo predecessore Mario Draghi. Aveva lo stesso obiettivo: consolidare gli accordi di fornitura.
In effetti nel 2022 l’Algeria è diventata il nostro primo fornitore di gas, superando la Russia. Secondo i dati della Snam, nel 2021 il gas russo forniva il 40 per cento delle importazioni totali e quello algerino quasi il 30; l’anno scorso la Russia è scesa al 16 e l’Algeria è salita al 34,3 per cento. Va detto che dall’Algeria arriva meno di quanto concordato un anno fa (si parlava di sei miliardi di metri cubi di gas in più all’anno, nel 2022 ne è arrivato poco meno della metà e l’ultimo Memorandum d’intesa siglato a gennaio tra Eni e la Sonatrach, l’ente algerino per gli idrocarburi, parla di tre miliardi di metri cubi nel 2023).
È vero però che la gran parte del gas che importiamo non arriva più da nord (i gasdotti dalla Russia), ma dal Mediterraneo: attraverso il gasdotto Transmed che collega l’Algeria a Mazara del Vallo, in Sicilia; il Greenstream dalla Libia, che “atterra” vicino a Gela; e il Tap (o Trans-Adriatic Pipeline) che attraversa la Grecia settentrionale, l’Albania e il mare Adriatico per arrivare in Puglia.
Il Tap è l’ultimo segmento di un gasdotto più lungo –che parte dall’Azerbaigian per trasferire gas estratto nella regione del Caucaso – entrato in esercizio alla fine del 2020. L’anno scorso ha trasportato in Italia quasi dieci miliardi di metri cubi di gas. Nel novembre scorso Albania, Grecia e Italia hanno approvato un piano per raddoppiarne la portata entro il 2027, e l’Italia sta stringendo accordi per aumentare le forniture anche dall’Azerbaigian. Si parla inoltre di un nuovo condotto Eastmed, che potrebbe portare gas dal Mediterraneo orientale (i giacimenti tra Egitto e Israele).
Infine si deve considerare anche il gas naturale liquido, che nel 2022 è arrivato a coprire un quinto delle importazioni italiane con un movimento continuo di navi cisterna dal Qatar, dagli Stati Uniti, in prospettiva dai nuovi impianti di liquefazione di gas dell’Eni in Mozambico e in Congo.
Dunque il flusso del gas è stato invertito, da sud verso nord. Per questo servirebbero il gasdotto adriatico, i nuovi rigassificatori, e non solo. Il ministro Pichetto Fratin ha anche parlato di potenziare quelli già in esercizio a Panigaglia-La Spezia, a Livorno e a Porto Viro-Rovigo. E di nuovi rigassificatori a Porto Empedocle in Sicilia e Gioia Tauro in Calabria. Senza contare la Sardegna: due rigassificatori a Portovesme nel sud e a Porto Torres nel nord, un nuovo gasdotto che dall’Algeria punta sulla Sardegna, e uno da qui alla Toscana. La crisi ucraina ha fornito l’occasione per rispolverare vecchi progetti e formularne di nuovi.
Nessuna alternativa
Ma l’Italia ha davvero bisogno di nuove infrastrutture per il gas? Molti sono convinti del contrario. “I gasdotti e i rigassificatori esistenti possono bastare a garantire il consumo nazionale, se accompagnati da misure per sviluppare le rinnovabili e l’efficienza energetica: investimenti che hanno tempi di realizzazione ben inferiori a nuove infrastrutture gas, e sono comunque già previsti per gli obiettivi climatici e di sicurezza energetica”, sostiene Matteo Leonardi, cofondatore e direttore esecutivo di Ecco, gruppo di studio indipendente sull’energia e il clima.
Un fatto: il consumo di gas in Italia è in calo. Nel 2022 ne abbiamo consumato 68,5 metri cubi, quasi il dieci per cento meno dell’anno prima. Se consideriamo il periodo invernale – tra settembre 2022 e febbraio 2023 – abbiamo consumato il 20 per cento di gas in meno dei tre inverni precedenti. “In marzo, a fine inverno, i depositi sono pieni al 57 per cento, un record”, osserva Leonardi.
L’inverno è stato mite, ma non è solo questo: “Il calo della domanda è strutturale, nel settore civile come nell’industria e nella generazione di elettricità. E questo si deve un po’ al risparmio energetico delle famiglie, un po’ a scelte di efficienza. Migliorano le prestazioni energetiche degli edifici. Per esempio si comincia a sostituire le caldaie con i più efficienti sistemi di riscaldamento a pompa di calore. Anche nell’industria i consumi di gas non si sono ripresi dalla crisi del 2008, anche perché le tecnologie migliorano”. Il picco del consumo di gas in Italia è stato registrato nel 2005; da allora è in calo, come in tutta Europa, sia per scelte politiche che tendono a sviluppare le energie rinnovabili, sia perché le tecnologie puntano all’efficienza, quindi a consumare meno energia.
Il governo italiano però vuole inserire gli investimenti per l’infrastruttura del gas nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), da riformulare entro il 30 aprile e aggiornare secondo il piano europeo RePowerEu. Ma dovrà dimostrare che sono compatibili con gli obiettivi climatici. Infatti il piano RePowerEu –varato dalla Commissione europea per favorire il distacco dal gas russo e accelerare la transizione alle energie rinnovabili –impegna l’Italia a portare all’ottanta per cento del totale la capacità di generare energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2030 (dal 35 per cento attuale). Per questo bisogna velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, e cose simili. Elettricità Futura, l’associazione delle industrie del settore, sostiene che questo porterà grandi benefici e mezzo milione di posti di lavoro.
“Invece vediamo puntare soprattutto sul gas”, sottolinea Leonardi. “E questo ci lega per il futuro”. Le nuove infrastrutture saranno operative tra cinque o dieci anni, e avranno una vita attiva di una ventina d’anni: “Così, mentre la domanda di gas sarà calata ancora, noi avremo bloccato nel gas denaro pubblico e privato”.
La posta in gioco sono proprio i finanziamenti pubblici, spiega Leonardi: “Le compagnie del gas puntano ai fondi del Pnrr e di RePowerEu, o almeno a ottenere garanzie pubbliche per un piano di investimenti che ci legherà ancora di più al gas negli anni a venire, mentre la domanda cala sia in Italia che in Europa”. Senza contare che “nel frattempo il quadro mondiale potrebbe cambiare: non è detto che i nuovi fornitori siano così stabili, né che la Russia resti nemica per sempre”.
Il problema sorge quando la politica nazionale coincide con la strategia di un’impresa.
Ma un altro punto critico è il ritardo nella transizione alle energie rinnovabili, nonostante i proclami. “C’è una disconnessione tra il discorso rivolto al pubblico, in cui l’Eni parla di transizione e di decarbonizzare, e i fatti: la strategia aziendale punta ad aumentare l’estrazione di gas”, osserva Antonio Tricarico, esperto di politiche energetiche e attivista dell’associazione ReCommon per la giustizia ambientale. Cita la relazione finanziaria dell’Eni per il 2022, rivolta agli azionisti: “L’obiettivo dichiarato è investire nell’estrazione di gas, che sostituirà gradualmente il petrolio. Non importa se la domanda interna diminuisce, si venderà altrove. Avere più gas in circolazione e venderlo ovunque richiesto, in Italia o altrove, o sul mercato spot, perché questo massimizza i profitti. Nei piani aziendali, il picco dell’estrazione è fissato al 2030, con crescita progressiva del gas rispetto al petrolio”.
Del resto è ovvio: i profitti e la principale attività di un’azienda degli idrocarburi sono legati al petrolio e al gas. Così come la Snam continuerà a vivere di gasdotti. Il problema, osserva Matteo Leonardi, “sorge quando la politica nazionale coincide con la strategia di un’impresa”.
A Ravenna intanto continua la campagna contro il nuovo rigassificatore. “Per noi è il segno di un’intera politica energetica”, spiega Giuseppe Tadolini, portavoce del coordinamento ravennate della rete “Per il clima. Fuori dal Fossile”. “Certo che abbandonare i combustibili fossili sarà graduale, ma bisogna pur cominciare. Se continuiamo a investire per sviluppare il gas andiamo nella direzione opposta”.
Questo articolo è stato pubblicato su L’Essenziale il 2 maggio 2023