Scioperiamo per il diritto ad abortire

di Olimpia Capitano, Francesco Pezzuti e Tamara Roma /
8 Marzo 2023 /

Condividi su

«Difendiamo il diritto a non abortire» è la campagna di ProVita e Famiglia che reca nei propri manifesti e social l’hashtag #8marzo. Ma sono l’aborto e la sua accessibilità libera e gratuita a essere costantemente sotto attacco, non il contrario

L’8 marzo 2023, per il settimo anno consecutivo, sarà una giornata di sciopero transfemminista globale contro ogni forma di violenza di genere. 

La rivendicazione e risignificazione dello strumento dello sciopero, oltre la sua dimensione tradizionale e produttivista, si basa su nuove esigenze collettive. Esigenze che esplodono in ogni  ambito della vita, superando gli stessi luoghi della produzione, e per questo ricordandoci che la violenza è una costante quotidiana nel sistema capitalista. 

La lettera aperta di Non Una Di Meno lega le ragioni dello sciopero in primo luogo al tema della salute sessuale e riproduttiva: «scioperiamo insieme per una sanità pubblica accessibile e libera da stereotipi sessisti, transfobici, grassofobici, abilisti e razzisti, contro l’obiezione di coscienza e l’ingresso delle associazioni antiabortiste nei consultori, per un aborto libero, sicuro e gratuito, per una medicina femminista e transfemminista».

Storicamente e in particolare in Italia, il tema dell’aborto è al centro della lotta e delle rivendicazioni femministe. La centralità di questo tema lo ha reso campo di battaglia cruciale sul terreno del controllo sui nostri corpi. Ancora oggi questo diritto è a rischio, a livello internazionale e in Italia, basti pensare al tema dell’obiezione di coscienza e all’obiezione di struttura. I dati relativi alle diverse forme e luoghi dove si esercita obiezione – dagli ospedali alle farmacie – ancora non sono pubblicamente mappati e abbiamo modo di tenerne traccia solo grazie al lavoro che organizzazioni come Obiezione Respinta compiono dal basso.

Meloni e il femminismo della differenza

Pochi giorni fa, in avvicinamento all’8 marzo, Giorgia Meloni ha rilasciato un’intervista sul settimanale Grazia, giocata sui toni dell’individualismo e della naturalizzazione dei ruoli. Meloni sostanzialmente nega il privilegio maschile come sistema di gerarchie di potere sociale e riduce una questione politica a una questione individuale: la presidente del consiglio non crede siano necessarie politiche femminili e pensa che uomini e donne siano uguali in tutto e che il diverso posizionamento nella società dipenda dalle attitudini individuali. Per gli individui come interpretati da Meloni, il genere è assolutamente ininfluente nel definire l’identità, associata a «sangue, tradizione, cultura» e incarnata, va da sé, dalla destra, in contrapposizione a tutto ciò che è diverso da sé (immigrati, élite, ecc.).

Un altro modo in cui Meloni si contrappone al riconoscimento sociale e politico della questione di genere strizza l’occhio al femminismo della differenza e a quei femminismi transecludenti (Terf – Trans Exclusionary Radical Feminism) che ancora oggi vi si richiamano. Per Meloni – e purtroppo pure per le Terf – le donne sarebbero le prime «vittime» dell’«ideologia gender» poiché il sesso è dato e naturale e «maschile e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile. Oggi per essere donna, si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza».

Una posizione che si aggancia direttamente anche ai temi della famiglia e dell’aborto, che ormai Meloni ha imparato a trattare in modo apparentemente moderato, celando la propria proposta politica dietro all’esperienza personale. Ad esempio nell’intervista parla del suo passato senza padre e del diritto dei bambini ad «avere il massimo: una mamma e un papà», facendo un paragone assurdo con chi cresce con genitori dello stesso sesso. Sull’aborto insiste sulla «piena applicazione della 194» – che ha però molte lacune in termini di accessibilità a un aborto libero sicuro e gratuito – e sul «diritto a non abortire».

«Difendiamo il diritto a non abortire» è anche lo slogan della campagna firmata ProVita e Famiglia che reca nei propri manifesti e social l’hashtag #8marzo e che si accompagna a una petizione per chiedere allo stato di «difendere le donne che non vogliono abortire». Questo tipo di messaggio rivolta i termini della discriminazione sistemica, cioè di un sistema di oppressioni che penalizzano, in ogni circostanza, un gruppo sociale sulla base di caratteristiche fisiche o sociali. Sono l’aborto e la sua accessibilità libera e gratuita a essere costantemente sotto attacco, non il contrario.

Una retorica sempre più pervasiva e istituzionalmente legittimata, sia dalle posizioni dell’attuale governo che dal sodalizio tra centrodestra e questi stessi gruppi, a partire dalla campagna elettorale. In particolare, nel settembre dell’anno scorso il centrodestra unito ha firmato la Carta dei Principi promossa da ProVita e Famiglia. Sono presenti chiare istanze contro «il gender» e contro l’aborto, fino alla sottoscrizione di un documento di impegni in cui l’interruzione della gravidanza viene definita come «la soppressione di una vita umana inerme e innocente».


ProVita e Famiglia

In Italia la lotta per l’aborto ha una lunga storia, ma anche quella contro l’aborto e occorre comprenderla anche per capire chi sono e come funzionano oggi gruppi come ProVita e Famiglia.

Storicamente l’antiabortismo in Italia è stato rappresentato almeno per trent’anni dal Movimento per la vita, nato a ridosso dell’approvazione della legge 194 e in opposizione a essa: fede cattolica e militanza politica si sono intrecciate indissolubilmente con facile riferimento politico nella Democrazia cristiana. A partire dal 1975 il Movimento per la Vita si rese protagonista di proposte di legge restrittive: prima durante le discussioni parlamentari per la promulgazione della legge sull’aborto; poi per il successivo Referendum di abrogazione della legge 194 nel 1981. Con il fallimento del referendum si decise per una nuova strategia, meno focalizzata su una netta opposizione alla legge. Si cercò dunque di modificarla attraverso l’articolo 2, che permette alle strutture pubbliche di «cooperare» con specifiche associazioni di volontariato – è implicito: antiabortiste. Il Movimento fondato nel 1975 conta a oggi circa 60.000 volontari e 315 CAV-Centri di aiuto alla vita in tutta Italia tanto da costituirsi, nelle regioni del nord, in una federazione: Federvita.

L’impostazione retorica e le azioni del movimento hanno iniziato a mutare più drasticamente a partire dai tardi anni Novanta. Se il primo movimento era nato in risposta alla battaglia per l’aborto, gli attuali movimenti prolife sono nati in seno all’emergere a livello internazionale dei concetti di «diritto riproduttivo» (Conferenza su Popolazione e Sviluppo, Cairo1994) e «genere» (Conferenza Mondiale sulle Donne: Azione per l’Uguaglianza, lo Sviluppo e la Pace, Pechino 1995).

I discorsi «anti-gender» di questi movimenti testimoniano la rielaborazione di teorie che inquadrano e incasellano uomini e donne in determinati ruoli, luoghi e destini, secondo una rigorosa ed escludente «etica della differenza sessuale». La sicurezza della famiglia e l’appello ai valori familiari vengono proposti come baluardo contro ogni forma di precarietà, solitudine e povertà.

Dagli anni Zero c’è stato lo slittamento e l’intensificazione della presenza dei movimenti prolife e antigender nel tessuto sociopolitico e culturale a livello globale, ed è emblematica l’esperienza dei Family Day: il primo risale al 2007 e ancora forte era il richiamo cristiano alla difesa della «famiglia tradizionale e naturale». Tuttavia, nei Family Day del 2015 e 2016 la situazione è apparsa ben diversa: mancavano le prime maggiori associazioni e non c’è stato alcun sostegno da parte della Conferenza episcopale italiana. È in queste due occasioni che sono emerse le insegne dei neo-movimenti che conosciamo oggi: Le Manif pour Tous, ProVita Onlus, Generazione Famiglia, Giuristi per la Vita.

Questi gruppi si sono spostati da un modello ultracattolico verso uno extra-ecclesiastico, intransigente, contestatario e organizzato transnazionalmente. La perfetta rappresentazione di questo neomovimento è stato il World Congress of Families tenutosi a Verona nel 2019, che aveva tra gli sponsor: ProVita Onlus, Difendiamo i nostri figli, Generazione famiglia (Le Manif pour tous) e CitizenGo. In prima fila presenziavano Matteo Salvini, Lorenzo Fontana, Luca Zaia, Simone Pillon. Tra gli organizzatori erano stati coinvolti anche lo statunitense Brian Brown, legato a Donald Trump, e Allan Clarson, ideatore del Congresso mondiale delle famiglie ed ex funzionario dell’amministrazione Reagan. 

Ancora sotto attacco

Il neo-movimentismo prolife ha abbandonato il linguaggio esplicitamente antiabortista e ha abbracciato un’impostazione che si appropria dei temi pro aborto e ne ribalta il significato – come nel caso della campagna di questo 8 marzo, lanciata da ProVita e Famiglia per difendere il «diritto a non abortire».

Il carattere apparentemente moderato di questi toni non rende meno minacciosa la pragmaticità delle offensive contro il diritto alla salute sessuale e riproduttiva a livello globale. 

Il 22 ottobre 2020 il Tribunale costituzionale polacco ha imposto un divieto di aborto quasi assoluto: sono oltre sei le donne morte per aborto negato e incalcolabili i rischi ai quali incorrono le donne costrette alla clandestinità. Oltre oceano il 24 giugno 2022, dopo 49 anni di tutela dell’aborto, la Corte Suprema degli Stati uniti ha ribaltato la sentenza Roe vs Wade permettendo ai vari Stati di legiferare: sono all’incirca dodici gli Stati che hanno già completamente o quasi abolito la possibilità di interrompere la gravidanza. In Italia, dall’insediamento del governo Meloni sono multiple le proposte antiabortiste di legge o di modifica di legge volte al riconoscimento giuridico del concepito.

Scenario e soggetti sono mutati ma l’aborto resta ancora il principale campo di battaglia, all’interno del quale sono radicalmente mutati gli strumenti retorici mentre prosegue l’istituzionalizzazione di queste posizioni che ledono i diritti di tutte le soggettività, in termini di salute sessuale e riproduttiva.

È dunque necessario scioperare, come ieri e forse ancora di più, contro una violenza sistemica che prova a celarsi dietro nuovi linguaggi non meno minacciosi.

*Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. È attivista della piattaforma Obres. Tamara Roma è dottoranda in Diritti umani: evoluzione, tutela e limiti all’Università degli Studi di Palermo, e attivista della piattaforma Obres.  Francesco Pezzuti fa parte del collettivo Fuorigenere (L’Aquila) e attivista della piattaforma Obres.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin l’8 marzo 2023

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati