La giornata della mimosa e del pranzo fuori, le ventiquattrore della galanteria prevista dal calendario non ci sono più. Perché non c’è nessuna festa. C’è uno sciopero transfemminista, un conflitto agito sul piano della «produzione e della riproduzione, dei consumi e dei generi».
L’irruzione di “Non una di meno” ha stravolto lo stanco rituale dell’otto marzo e ha rimesso al centro del discorso il conflitto. E il patriarcato. Cioè il principio gerarchico ordinatore dei rapporti che non andava nominato perché potesse agire in modo mimetico. Siamo tornate non solo a nominarlo ma anche a individuarlo per combatterlo.
Basta leggere la piattaforma di questo otto marzo: «Scioperare contro il patriarcato significa scioperare contro la guerra come espressione massima della violenza patriarcale. Lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina, che ha intensificato un’ideologia nazionalista e militarista dell’ordine e della disciplina. Scioperare contro il patriarcato significa reclamare l’immediato cessate il fuoco su Gaza per fermare il genocidio, la fine dell’apartheid e dell’occupazione coloniale in Palestina».
Scioperare significa dire basta alle politiche che organizzano e gerarchizzano la società: la scuola classista dei ricchi divisa da quella dei poveri con le «femmine» tenute a debita distanza dalle materie Stem perché «non sarebbero portate». Con la conseguenza di indirizzarle solo verso un certo tipo di professioni, con redditi più bassi e quindi pensioni più basse.
Quando lavorano e non devono, invece, stare a casa a occuparsi della famiglia perché il sistema politico italiano, nella corsa ai tagli, ha trovato possibile sacrificare il welfare. Un sacrificio, appunto, che ha avuto un impatto diretto sulle donne e molto meno sugli uomini. Il 37% delle donne italiane non ha un conto in banca. La dipendenza economica è come un macigno che, al pari della povertà, rimbalza da una generazione all’altra.
Una società gerarchizzata a partire dalle divisioni geografiche (addirittura acquisite e formalizzate dall’autonomia differenziata), che schiaccia le donne e tutte le soggettività che non si riconoscono in un mondo binario, che razzializza i propri cittadini e riduce le lotte a un problema di ordine pubblico da reprimere: sono tutte tensioni con cui facciamo i conti e pesano anche su chi crede di trovarsi dal lato vincente della società. La destra li ha assunti nel proprio programma e li ha resi espliciti.
E poi c’è la violenza. Dalle continue offese che sminuiscono alle percosse, alle molestie, al revenge porn, allo stupro su su fino al femminicidio: controllo, possesso, esibizione di potere, desiderio di annientamento. A tutto questo si può replicare solo con la ribellione. La risposta al femminicidio di Giulia Cecchettin ha reso lo scorso 25 novembre un atto di rivolta. Continuiamo la rivolta.
Questo articolo è stato pubblicato da il manifesto l’8 marzo 2024