Il caldo confronto al congresso nazionale della Fiom appena concluso tra i dirigenti dei principali sindacati europei e la Cut brasiliana ha messo sul tavolo i temi comuni ai lavoratori di tutto il mondo nella stagione del trionfo e della crisi della globalizzazione neoliberista. Precarizzazione del lavoro, contrapposizione tra chi un diritto ce l’ha ancora e chi non ce l’ha più o non ce l’ha mai avuto, rischio di crescente dumping sociale, la schiavitù che ritorna sotto mentite spoglie, uso dei migranti come esercito del lavoro di riserva, dominio delle multinazionali che comandano la politica. E ancora, evanescenza della rappresentanza politica di chi “per vivere ha bisogno di lavorare”, con le sinistre che hanno fatto harakiri sposando in toto il modello capitalistico che fa crescere le diseguaglianze e avvelena le relazioni sociali. Al massimo, nei momenti migliori le socialdemocrazie europee si sono impegnate nella redistribuzione della ricchezza, ha detto ai congressisti il segretario della Cgil Maurizio Landini, senza però mettere in discussione il modello di sviluppo che umilia i lavoratori, consuma l’ambiente, corrode la democrazia e porta alla guerra. Viviamo una crisi democratica senza precedenti e la fine di ogni condivisione sentimentale della sinistra nei confronti di coloro che un tempo rappresentava è una bomba a miccia corta accesa proprio sotto la democrazia. Solo il 27% dei cittadini di serie B che abitano nelle periferie romane si è recato alle urne. Ma la crisi della rappresentanza politica riguarda tutti: in un paese, il nostro, in cui il 60% è contrario alla guerra e all’invio di armi all’Ucraina, più dell’80% dei parlamentari vota a favore dell’invio e dell’aumento della spesa militare. Chi rappresenta il Parlamento? E il sindacato stesso non rischia forse di restare vittima di questo terremoto?
Essere contro la guerra vuol dire porsi l’obiettivo di cambiare radicalmente il modello economico che la produce minando alle fondamenta la vita del pianeta Terra. La guerra ridefinisce gli equilibri mondiali e storicamente divide il movimento dei lavoratori, spinti a rinchiudersi dentro un orizzonte nazionale e, alla fin fine, corporativo. Il movimento operaio deve ritrovare le sue radici internazionaliste e la lotta solidaristica per la conquista di diritti universali, il 1° maggio non nasce forse da una parola d’ordine universale: le 8 ore?
Diversi sono i modelli sindacali in Europa, cogestionario quello tedesco, fortemente autonomo quello italiano almeno tra i metalmeccanici, ma i problemi sono gli stessi e ovunque si assiste a uno svuotamento del welfare attraverso la privatizzazione dei servizi essenziali, a partire dalla sanità e dall’istruzione. In Francia si sciopera per fermare la controriforma delle pensioni, in Germania la Ig-metal rivendica le sue conquiste in difesa dei salari e dei diritti ma deve fare i conti con lo stesso trend, gli inglesi soffrono duramente la Brexit e continuano a pagare sulla propria pelle la controrivoluzione thatchceriana. Con differenze anche importanti, come si capisce ascoltando il rappresentante delle Comisiones obreras che spiega l’invidiabile riforma della legislazione del lavoro varata dal governo di sinistra spagnolo, decisamente in controtendenza. In Italia un altro governo, guidato dal segretario del Pd, aveva fatto l’opposto, cioè il jobs act. In Gran Bretagna ci aveva pensato Blair a raccogliere il testimone lasciato dalla Lady di ferro per smantellare i diritti dei lavoratori e oggi, come dice ai delegati Fiom il dirigente del sindacato inglese denunciando le conseguenze disastrose della Brexit, a confronto con il capo del Labour party “Biden sembra un comunista radicale”. Il governo della Gran Bretagna delocalizza in Ruanda i migranti in attesa di asilo “e il Labour tace”, in Italia quelli salvati nel Mediterraneo dalle Ong vengono chiamati dal governo Meloni “carne umana”. Mentre si alzano nuovi muri e frontiere contro immaginarie “sostituzioni etniche” e si cerca di mettere lavoratori europei contro altri lavoratori europei, l’attacco alla sanità pubblica non ha frontiere, diminuiscono gli investimenti per garantire la salute dei cittadini mentre esplode la spesa militare. La guerra economica tra colossi industriali e finanziari diventa guerra tra stati: inevitabilmente il liberismo porta alla guerra, prima sui mercati tra i capitali e poi in veri e propri campi di battaglia tra nazioni. Un raggio di sole arriva dal lontano Brasile, dove c’è finalmente la possibilità di archiviare le leggi contro i poveri, i lavoratori, le popolazioni indigene e la foresta amazzonica imposte da Bolsonaro, grazie al ritorno del presidente-operaio, Luiz Ignacio Lula da Silva.
Si sarebbe dovuto capire anni fa il processo globale in atto. Nel decennio scorso, l’ex amministratore delegato della Fca Sergio Marchionne usò una metafora perfetta per spiegare la new wave del capitalismo: “Noi siamo una nave da guerra che combatte per conquistare nuovi territori e tutti a bordo hanno lo stesso obiettivo, dal vogatore agli uomini ai cannoni fino all’ammiraglio devono muoversi all’unisono”. Certo, siamo tutti sulla stessa barca e siamo in guerra contro altre navi da guerra, le navi dei nemici che hanno lo stesso obiettivo: conquistare quella stessa isola, piantare la bandiera sullo stesso territorio che noi vogliamo espugnare; fuor di metafora, è in gioco quel mercato. Quando ebbi modo di chiedere a Marchionne se ciò significasse che i nemici del nostro vogatore e del nostro uomo al cannone fossero dunque il vogatore e il soldato nemici, la risposta fu netta: “Esattamente così”. Va da sé che a bordo non c’è spazio né per i diritti né per il conflitto, l’obbedienza dev’essere cieca. Il conflitto va esercitato contro il nemico che non è più il padrone, sempre fuor di metafora, ma l’operaio dell’altra azienda, dell’altra nazione o semplicemente dell’altro stabilimento in competizione con il nostro sul salario e sui diritti, e se c’è da chiudere una fabbrica che sia quella dell’altra regione, o dell’altra nazione. Quella che nel Novecento era una guerra verticale – la lotta di classe – oggi deve diventare guerra orizzontale. Nella giungla che è oggi il lavoro, dove per svolgere la stessa mansione competono figure sociali diversamente contrattualizzate, chi ha più diritti, chi meno e chi nessuno lungo la filiera degli appalti e subappalti, il rischio è la guerra tra poveri, cioè la fine degli operai intesi come classe.
Ci vorrebbe un vero sindacato europeo capace di ricostruire un cammino solidale e capace, di fronte a una nuova guerra, di dire con semplicità parole come pane, pace, lavoro e libertà. Non partì forse dalle fabbriche la resistenza al fascismo con gli scioperi del 5 marzo del ’43? E di fronte allo strapotere delle multinazionali, è più urgente ancora che ai tempi di Marx la parola d’ordine “proletari di tutti i paesi unitevi” come scudo contro la guerra tra poveri. La Fiom l’ha detto con chiarezza nel suo congresso rivendicando nel contempo la scelta di non schierarsi con uno degli eserciti in campo ma con i popoli ucraino e russo, cioè contro la guerra. Speriamo che al prossimo incontro internazionale anche gli altri sindacati europei si esprimano con altrettanta chiarezza.