di Guido Viale
L’esito delle elezioni ha “tolto il tappo” a un sistema politico bloccato, pietrificato dall’egemonia, condivisa da destra e sinistra, del pensiero unico (e in Italia consolidata, e in parte mascherata, dal dilagante berlusconismo). Ma non è stato Beppe Grillo a far saltare quel tappo; sono stati quelli che lo hanno votato, andando ad aggiungersi o a sovrapporsi al numero, altrettanto ampio, degli astenuti. Non è stato Grillo a intercettare il loro voto; sono stati quegli elettori a “intercettare” Grillo. E che altro potevano fare? Se si fossero astenuti, il sistema politico italiano – centro-destra, centro e centro-sinistra – avrebbe continuato le sue pratiche come se niente fosse, incurante del fatto che ormai solo il 50 per cento degli elettori lo vota. D’altronde negli USA è già così da tempo.
Ma è sbagliato confondere gli elettori di Grillo con il movimento cinque stelle o dare troppo peso al loro programma; perché a fare il pieno di voti è stata la rivolta contro il sistema dei partiti e le politiche economiche da questi sostenute. Come è sbagliato sostenere che il movimento cinque stelle non ha un programma: c’è l’ha, ed è più solido e sensato di quello del PD, anche se forse né Grillo né il movimento hanno idee chiare su come realizzarlo (Pizzarotti insegna). Ma gli elettori che lo conoscono sono una minoranza; e quelli che lo condividono, o vi si riconoscono, sono ancor meno.
Di fronte a un quadro come questo solo l’immaginazione può aiutarci a misurare il danno inflitto alle prospettive di un vero cambiamento dal soffocamento di una lista “di movimento” – il progetto di cambiaresipuò – perpetrato da Rivoluzione Civile e dalle sue miserie; che hanno completato in ambito elettorale quello che gli affossatori del corteo del 15 ottobre di un anno prima avevano iniziato con uno scontro di piazza fine a se stesso. Ma anche da De Magistris, che si era già da tempo giocato la carta del “movimento dei sindaci”: non solo perché i “nuovi sindaci”, a partire da Pisapia, si erano defilati uno dopo l’altro per evitare conflitti con il PD e con Monti (che in fin dei conti teneva e tiene “i cordoni della borsa”); ma soprattutto perché, dopo il convegno del 29 gennaio 2012 in cui aveva lanciato il progetto, De Magistris non aveva fatto più niente per tenerlo in vita, né per valorizzare il contributo dei movimenti che avevano risposto al suo appello e mettere a punto insieme un programma che nascesse dalla condivisione di quelle esperienze.
Così ci si è ritrovati, in ritardo e senza più alcun retroterra organizzato, a lanciare il progetto cambiaresipuò. Se mai ci fosse stata una possibilità di “intercettare” una parte consistente degli elettori poi confluiti nel voto a Grillo o nell’astensione, il colpo di mano di Rivoluzione Civile l’ha sepolta definitivamente. O forse neanche una vera lista “di movimento” avrebbe superato lo sbarramento della legge elettorale, anche se la delusione di tanti elettori poi rifluiti sulle liste di Sel, di Grillo o nell’astensione lascia adito a pensare il contrario. Ma l’obiettivo principale di quel progetto non era la conquista di una pattuglia di parlamentari, bensì l’accreditamento di una prospettiva: un contenitore finalmente unitario – o potenzialmente tale – di una convergenza di forze sociali e di iniziative civiche radicalmente alternative, nella pratica, e non solo nelle enunciazioni programmatiche, all’egemonia del pensiero unico e delle sue espressioni partitiche. Ora, nonostante che la situazione politica sia fluida come non mai, ricomporre quel disegno è tre volte più difficile.
Tuttavia, in uno scenario in movimento come quello consegnatoci dai risultati elettorali bisogna avere il coraggio di mirare lontano. E i fili da riannodare sono soprattutto due. Il primo è il dato che nessuna politica a sostegno dell’occupazione e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione (chiamala, se vuoi, “moltitudine”; oppure 99 per cento; anche se si è molti meno) è possibile all’interno dei vincoli imposti dalle autorità economiche europee e, per loro tramite, non dalla “perfida” Germania, bensì dalla finanza internazionale, vero “dominus” di un’economia ormai globalizzata. Nessuna “crescita”, nessuno “sviluppo”, nessuna sostenibilità – e meno che mai la grottesca agenda elettorale di Monti – sono compatibili con il combinato disposto del pareggio di bilancio e del fiscal compact. Tutti gli economisti lo sanno, compresi quelli che credono ancora che una qualche crescita del PIL sia comunque possibile e auspicabile.
Però nessuno lo dice. La devastazione prodotta dai memorandum imposti alla Grecia, facendola piombare nella condizione di un paese del quarto mondo, bisognoso di aiuti materiali – cibo, combustibile, medicine, mezzi di soccorso – non per promuoverne lo sviluppo, ma per far fronte all’emergenza, è davanti agli occhi di tutti. Peggio di un bombardamento! Ma in quei memorandum c’erano le stesse prescrizioni della lettera della BCE che Draghi aveva spedito all’Italia nel 2011 per spianare la strada al governo Monti. Le conseguenze di quelle misure sono state nascoste per un anno, ma stanno venendo prepotentemente alla luce: il tessuto produttivo è irrimediabilmente compromesso; le imprese chiudono una dopo l’altra; i servizi pubblici sono fermi; la disoccupazione dilaga insieme alla povertà; l’ambiente stressato si rivolta contro la sua manomissione.
Quel patto di stabilità “esterno” si ripercuote su quello “interno”. Regioni ed enti locali (comprese le Province, farsescamente abolite per unanime decisione. Ma chi ne erediterà le funzioni? E con che fondi? E dov’è il risparmio?) sono messi alle corde dal taglio dei trasferimenti (le misure di austerità incidono per l’80 per cento su di loro e solo per il 20 per cento sullo Stato centrale, nonostante che la ripartizione della spesa pubblica sia esattamente l’inverso). Il tutto per costringerli a svendere suolo, infrastrutture, servizi pubblici e beni comuni ai “privati”.
Che per lo più sono finti privati, sovvenzionati dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP) che, grazie a una privatizzazione anch’essa finta, invece di aiutare i Comuni a fornire servizi pubblici locali decenti – e, magari ad avviarli all’indispensabile conversione ecologica – finanzia chi lavora a sottrarli definitivamente al loro controllo, facendo così venir meno la stessa ragion d’essere delle autonomie locali. Lo stesso vale per la sanità, che è tutta pubblica (compresa quella cosiddetta privata, che vive esclusivamente di risorse pubbliche), ma che Monti ha definito “insostenibile” per regalare ai privati la relativa quota di spesa pubblica; e così per scuola, Università, ricerca, pensioni; e più in là, per carceri, polizia, esercito (anche qui gli Stati Uniti insegnano).
Senza mettere radicalmente in discussione quella stretta fiscale – e i vincoli europei che la impongono, e il debito che la rende “inevitabile” – costringendo tutti i sindaci d’Italia di mettersi alla testa di una vera rivolta, la fine della Grecia è alle porte. Non si tratta di uscire dall’euro, come dice Grillo e paventano tanti economisti, ma di avere un euro e un’Europa diversi. È una cosa che ormai riguarda tutti: Germania – e se ne accorgerà presto – compresa.
Il secondo filo da riprendere è quello gestionale: opporsi alla svendita dei servizi pubblici – locali e non – non vuol dire perpetuare lo status quo: vuol dire sottoporli a una gestione pubblica partecipata. Non solo perché si tratta di beni comuni e perché la partecipazione – quella vera, che riguarda gli aspetti fondamentali della vita quotidiana – è il complemento irrinunciabile di una democrazia rappresentativa sempre più asfittica.
Ma anche perché i servizi pubblici sono lo snodo fondamentale della conversione ecologica dell’apparato produttivo: il raccordo tra una domanda di servizi pubblici decentrati e condivisi (energia rinnovabile, efficienza energetica, acqua pubblica, rifiuti zero, mobilità sostenibile, mense con cibi biologici e a km0, edilizia ecologica e sociale, salvaguardia idrogeologica, assistenza medica, istruzione e formazione permanenti, e altro ancora) che è compito dei Comuni promuovere, e i fornitori di impianti, attrezzature, prodotti intermedi, materiali, progettazione, ricerca, che sono necessari per la realizzazione e la conversione di quei servizi. Solo così si può attivare una domanda altrettanto robusta per riconvertire molti impianti e imprese produttive altrimenti senza avvenire.
Le aziende chiuse o in via di chiusura sono ormai una falange e sempre più spesso si tratta di gruppi internazionali: i famosi investitori esteri invocati da Monti e dai suoi corifei, che invece di arrivare se ne vanno uno dopo l’altro – e non certo perché l’art. 18 non è stato modificato abbastanza! – portandosi via knowhow, brevetti, certificazioni di qualità e macchinari, dopo aver sfruttato fino al limite le risorse pubbliche messe a loro disposizione e una manodopera spremuta a volte fino alla morte.
È la storia della Bridgestone, della MaFlow, della Jabil, della Nokia, della Lucent, ma anche della Fiat e di tante altre. Con queste situazioni non è più tempo di “fare melina”, fingendo di aspettare un nuovo investitore che rilevi l’azienda. Occorre che i lavoratori e le comunità che ospitano quegli impianti si pongano il problema di rimetterli in funzione da soli. Non con un’autogestione accollata alle sole maestranze; perché un’azienda non è fatta solo di produzione, ma anche di mercati, di ricerca, di innovazione (che è sempre un processo sociale), di rapporti con il territorio. Per questo occorre che dove si manifestano queste emergenze – ormai ovunque in Italia – sia il Comune, o un consorzio di Comuni, magari con la formula dell’azienda speciale, a farsi carico, insieme ai lavoratori organizzati, non solo di garantirne gestione e finanziamento – e per questo il recupero della CDP alle sue funzioni originarie è fondamentale – ma anche la ricerca di nuovi sbocchi.
Per farlo si possono indire delle “conferenze di produzione”, magari con la collaborazione di Università, scuole tecniche e associazioni, per esplorare a tutto campo le potenzialità di riconversione. Qui il controllo sociale dei servizi pubblici si rivela essenziale, insieme alla riterritorializzazione, attraverso accordi di programma tra aziende di servizio e imprese produttive, di molti cicli di produzione: un aspetto irrinunciabile della conversione ecologica.
Questo testo è stato pubblicato sul blog di Guido Viale