Condividiamo questa conversazione sullo stato di salute delle nostre montagne tra Paolo Piacentini, storico camminatore e fondatore di Federtrek e il collettivo di scrittori Wu Ming, pubblicato su Comune il 5 febbraio 2023. In copertina, foto del Corno alle Scale – Wikimedia Commons
Piacentini – In questi giorni è arrivata un po’ di neve ma nulla cambia ed invece vedo un accanimento terapeutico verso un modello di sviluppo turistico quasi sacralizzato, come se quella forma di fruizione della montagna in inverno fosse l’unica possibile.
Situazione preoccupante perché non si vuole prendere atto di quello che sta accadendo e si pensa di risolvere tutto con l’illusione “tecnocratica”
Si posizionano cannoni sparaneve sempre più potenti anche ad alte temperature, non importa se intorno la terra è brulla: pura follia.
Wu Ming – Anzitutto c’è un problema simbolico, di immaginario: la montagna è vista come una fabbrica che d’inverno deve produrre neve, e questa neve ha l’unico scopo di imbiancare il paesaggio e consentire lo sci. Così, quando la neve non arriva, nessuno pensa al danno per le sorgenti, per la biodiversità, per gli equilibri ambientali, i pascoli, l’agricoltura. L’unico problema è che non si può sciare, e nessuno dice che proprio l’industria dello sci, con il suo enorme dispendio di energia, contribuisce al riscaldamento globale, il quale comporta meno neve naturale, quindi un maggiore ricorso a quella artificiale, e un maggiore consumo energetico: il classico serpente che si morde la coda.
Il mito della “settimana bianca” è talmente forte che certi rifugi, in assenza di neve, invece di puntare su chi cammina, organizzano serate disco sul modello delle “Vacanze di Natale” dei film di Vanzina. Perché la montagna d’inverno dev’essere quella roba lì. Se non c’è la neve, bisogna farla a tutti i costi: trovare una soluzione tecnologica, non cambiare mentalità.
D’altronde, succede così anche con la “transizione ecologica”: invece di ammettere che c’è un intero modello economico da cambiare, si preferisce pensare che le rinnovabili, i crediti del carbonio e qualche milione di alberi piantato qua e là ci permetteranno di mantenere le stesse abitudini.
Piacentini – Per questo parlo di conversione ecologica perché la transizione è più che sputtanata e comunque saremmo in netto ritardo. Va cambiato radicalmente il modello socio-economico. La necessità di una svolta radicale deriva proprio dalla tua riflessione, dalla considerazione che nell’immaginario del turista non si riesce a smontare un modello di fruizione che nasce negli anni del boom economico e che arriva ad oggi con una progressiva degenerazione.
Mi sembra molto importante anche la tua riflessione sulla carenza di neve – Si chiedono risorse pubbliche ingenti gridando all’emergenza come si trattasse di affrontare una catastrofe legata ad un terremoto devastante. Un’emergenza da carenza neve senza per nulla considerare che il vero problema semmai è la conseguente carenza d’acqua nel sistema idrografico.
Wu Ming– Sì, l’ordine delle priorità viene capovolto. Ma non è accaduto lo stesso anche con l’emergenza Covid? Una cassiera di supermercato poteva lavorare otto ore a contatto con i clienti, però, tornata a casa, non poteva farsi una passeggiata nel parco. Inutile stupirsi: come diceva Marx, «il morto afferra il vivo e lo tiene prigioniero»
Piacentini- Dovremmo avere la forza di lavorare per un nuovo paradigma e provare a cambiare l’immaginario sul come abitare e fruire le nostre montagne. Il turismo ok ma va diversificato davvero, le “terre alte” non possono vivere solo di turismo.
Penso al tema dei Cammini, quando nel periodo della pandemia per due anni il Cammino di Santiago ha visto un annullamento del flusso turistico con gli enormi danni relativi. Certo non è facile cambiare rotta visto il forte intreccio tra politica ed imprenditoria, una sorta di patto per utilizzare risorse ingenti che andrebbero indirizzate su progetti a favore delle comunità locali con un occhio rivolto al futuro. Come possiamo secondo te provare, nel nostro piccolo, a ribaltare l’immaginario delle comunità locali oltre a quello della città e dei turisti e portarli alla costruzione di una sorta di patto tra città e montagna che include anche quello tra generazioni?
Wu Ming – L’importanza economica del turismo è sovrastimata, perché un Paese come l’Italia, quando è in crisi nera e non ha idee per rilanciarsi, si rifugia in quel che ha già, per certi versi a costo zero, e prova a convincersi che sia la panacea di tutti i mali. Lo stesso vale per la montagna. Che offre, e potrebbe offrire ancora di più, lavoro nell’agricoltura, nell’allevamento, nell’artigianato, nella salvaguardia e cura del territorio, nella cultura. Ma per sviluppare questi settori bisognerebbe investire sui servizi, sui trasporti pubblici, sugli ospedali, sull’abitare. E allora si preferisce la montagna parco giochi, perché tenere aperto un parco giochi è più semplice, più compatibile con l’idea che certe zone non vanno davvero abitate, vanno solo consumate. Chi invece vorrebbe fare altro viene zittito, intimidito, non rappresentato, isolato. Eppure sull’Appennino ci sono ormai tanti giovani che svolgono attività slegate dal turismo. Si dice che senza quest’ultimo la montagna si spopola, ma in realtà il turismo è perfettamente compatibile con una montagna poco abitata: bastano poche centinaia di persone che garantiscono l’accoglienza stagionale.
Per questo, e non solo per le evidenti ragioni ambientali, prima di spendere per dei cannoni energivori che sparano la neve anche a 10 gradi, bisognerebbe garantire collegamenti frequenti, anche notturni, tra montagna e città, e tra comune e comune.
Piacentini – A proposito di servizi è ridicolo strumentalizzare i disabili narrando che gli impianti servono a portarli in alto anche d’estate, quando poi in paese non c’è nessuna attenzione all’accessibilità diffusa. Altro scandalo è che questi finanziamenti spesso arrivano dal PNRR con un’operazione di scippo verso le future generazioni che può fare scattare sentimenti di ribellione più che legittimi.
Bisognerebbe creare i presupposti per far crescere la coscienza su come lo sperpero di risorse pubbliche per alimentare un’economia “estrattiva” toglie l’aria al futuro dei giovani e delle comunità locali. Penso anche alla follia degli impianti eolici industriali nei fragili crinali appenninici. Bisogna rivedere radicalmente il paradigma dello sviluppo lineare che non tiene conto dei vincoli naturali. Urgono nuovi progetti che mettono al centro la conservazione e la cura del territorio. Un’economia che sposa il concetto del limite e la sfida alla complessità.
Wu Ming – Parlando degli impianti di risalita, prima o poi si arriva sempre alla contraddizione tra ambiente e lavoro, l’occupazione viene usata come ricatto per perpetuare i danni al territorio. Invece, proprio la montagna è un territorio dove la cura dell’ecosistema può produrre lavoro, in tanti settori. Occuparsi di un castagneto, per dire, può avere una valenza produttiva, culturale e turistica allo stesso tempo. In un Paese con un dissesto idrogeologico mostruoso sarebbe facile creare nuova occupazione puntando sulla messa in sicurezza del territorio. O sul patrimonio forestale.
Il tema dell’occupazione viene anche usato per etichettare “gli ambientalisti” come un’élite cittadina, che vive comoda e dà più importanza ai faggi che agli esseri umani. Dobbiamo invece sottolineare l’ingiustizia profonda di un’industria come quella dello sci, che in molti territori si regge sul denaro pubblico, speso per tenere in piedi una macchina inquinante e prossima alla rottamazione, invece di aiutare attività virtuose.
Quest’anno il governo italiano ha chiesto ai cittadini di ridurre i consumi energetici: poi però i signori dello sci da discesa ricevono aiuti per le loro bollette e parlano di usare ancora più energia, e più acqua, per l’innevamento artificiale. Anche questa è un’ingiustizia che andrebbe denunciata.
Piacentini– Come vedi il rapporto con la politica istituzionale? Non credo siano tutti uguali e quindi credo sia opportuno aprire dei canali di confronto istituzionali, mantenendo una piena autonomia. Oggi la politica istituzionale è troppo spesso condizionata dagli interessi economico – finanziari e non è assolutamente indenne anche un pezzo importante dell’ambientalismo politico ed associativo. Lo dimostra anche l’approccio alla politica energetica cosiddetta green. Davanti a questo scenario pensi si possa riuscire a far penetrare in alcuni ambiti le nostre istanze o non rimane invece che concentrarsi sulla costruzione di vertenze dal basso ?
Wu Ming -Paolo, anch’io non credo che siano tutti uguali, però sono quantomeno simili: fanno gli interessi dei loro clientes, almeno finché ritengono che questo non li danneggi sul piano dell’immagine pubblica, ovvero della carriera politica.
Oggi servono cambiamenti radicali e questi non sono mai venuti dall’interno delle istituzioni, dove il cerchiobottismo è una tattica di sopravvivenza, se non proprio una forma mentis. Una vera alternativa è possibile solo se molte persone la sostengono, la raccontano, la praticano sui territori, la pretendono e hanno la forza per pretenderla.
Piacentini– ti ho fatto la domanda perché pensando, ad esempio, alla posizione dei Verdi che da una parte provano a spingere verso un cambiamento radicale e dall’altra arriva la “ necessità politica” del compromesso. Un po’ come la lista civica di Bologna che dice di sì al Passante basta che sia green.
Dovremmo provare a comunicare meglio le contraddizioni della politica. Far capire che alcune scelte sono, non solo insostenibili, ma profondamente incompatibili con le vere azioni virtuose. Non basta opporsi ma bisogna fare rete per costruire e praticare alternative radicali da comunicare in modo efficace.
Wu Ming – Qualche giorno fa, il danneggiamento di nove cannoni sparaneve sul Corno alle Scale ha fatto gridare all’ecoterrorismo. Io non so se sia stato un sabotaggio consapevole o un semplice vandalismo. Però sono sicuro che ad essere sabotato con progetti insostenibili e ingiusti è il futuro dei territori, delle comunità locali e delle nuove generazioni. Non si può continuare a inseguire una monocultura, quella del turismo invernale, che non ha prospettive e sega il ramo su cui stiamo sedute.