Storia della Uno bianca e altre storie. Intervista a Paolo Soglia

di Silvia Napoli /
5 Febbraio 2023 /

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Questo pezzo potrebbe avere davvero tanti titoli diversi fra loro espressione di una storia, connotata dalla proprietà caleidoscopica di attraversare territori vasti, talvolta confinanti, tangenti addirittura e talvolta distanti, forse solo intuibili e mai completamente avvistabili tra loro.

Questo è quanto accade quando ci si avventura nei nostri luoghi oscuri, poco frequentati e male illuminati. Anfratti della coscienza collettiva di una comunità dai contorni sfumati, tanto da apparire indecifrabili, mai completamente conoscibili.

Questo è un po’ il tema della storia di una ennesima strage riguardante Bologna e per la verità non solo, quale quella concernente la banda della Uno bianca, una vicenda noir padana ed anche romagnola a carattere seriale che sembrerebbe uscita dalla penna di un Carlotto, passibile di un passaggio televisivo in qualche trasmissione o rubrica dedicata a questo genere di misteri all’italiana.

Ovvero il tema di un mistero che continua tutt’ora in parte ad essere tale, nonostante arresti e condanne, perché, appunto non risiede soltanto nella parte investigativa e giudiziaria, quanto in una sorta di cattiva coscienza collettiva che viene molto da lontano, in un complesso intreccio di luoghi comuni informativi, comunicativi, opinionistici, con zone di opacità d’apparato, foriere da sempre di episodi che suona eufemistico definire inquietanti. Specie se ci stiamo riferendo ad una banda che tra membri effettivi e complici depistanti vede coinvolti in gran parte membri del corpo della polizia di Stato, specialmente della squadra mobile e uomini dell’ Arma dei carabinieri.

Siamo alla sala detta Candilejas, di via Bentini a Corticella, anche circolo Arci Bertoldt Brecht e Casa del Popolo. Un luogo glorioso della mitica periferia corticellese :la sala è stipata da non contenere uno spillo e va in scena, per cosi dire, la storia della Uno Bianca reload. Si tratta in parole semplici, della resa dal vivo, di una inchiesta uscita come serie su canale You Tube, delle tragiche e sconcertanti vicende di una banda armata di carattere peculiare, che crea una sorta di far west emiliano romagnolo per la bellezza di sette lunghi anni, di fatto producendo quella che si definisce lunga scia di sangue.

Scia di sangue che lambisce il luogo in cui ci troviamo per questa che assume anche i contorni di una celebrazione delle vittime : basta attraversare la strada per trovarci infatti davanti alla Coop nel complesso la nuova Gorki. Proprio davanti all’entrata venne freddato un pensionato che passava in bicicletta, la sera di un tragico giugno dell’ 89. Reo semplicemente come molti altri in questa vicenda di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e magari di non aver voluto far finta di non vedere i brutali rapinatori che dopo aver fatto scoppiare un ordigno e derubato il supermercato lasciavano in terra due guardie giurate gravemente ferite.

Paolo Soglia, artefice di un intelligente e opportuno repêchage di materiali che vanno a formare il corpus di una vera e propria inchiesta quasi indagine, operata a suo tempo dalla redazione della gloriosa Radio Città del Capo, suggestione ricordata dal sapiente inserto di una scena dal film di Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, si pone come gran cerimoniere narratore di una trafila di fatti quasi inverosimili, riascoltati oggi. Gli fa da contrappunto Donatella Allegro, che con grande sensibilità e discrezione ha reso rappresentabile una storia dolorosa e indicibile, costituita da 103 crimini, 23 morti, decine di feriti anche gravi. Sullo schermo scorrono soprattutto immagini di documenti, ritagli di giornali e oltre a sottolineature sonore, si ascoltano nel corso della serata, registrazioni di interviste soprattutto realizzate con chi si occupò di lunghe, contorte, farraginose indagini, che sembrarono quasi inconcludenti per un pezzo. La via scelta dai nostri realizzatori è quella di una assoluta asciuttezza. Eventi, dinamiche, circostanze inerenti le caratteristiche psicologiche piuttosto problematiche dei fratelli nucleo portante della banda, con annessi e connessi di vita privata e figure femminili al seguito, magari interessanti da studiare in separata sede, insomma esercitazioni psicologiche, di costume, romanzesche, anche se a un certo punto viene citata la banda della Magliana con annessi e connessi editoriali e televisivi, non appartengono a questa raffinata esercitazione sui dati di fatto.

In un certo senso velato, squarciato da lampi di ironia l’insieme di probabili nascoste connivenze, trame di paura, di ricatto, persino incredulità, difesa dello status quo e del quieto vivere fa emergere sponte sua la rappresentazione di ottusità e opacità delle forme del potere e delle istituzioni, a partire da quella mass mediologica. le altre a seguire, naturalmente. Il pubblico, mix di esperti, testimoni d’epoca coinvolti direttamente, frequentatori di quartiere, curiosi di ogni dove, parterre giornalistico di tutto rispetto, sta in religioso silenzio durante la rappresentazione- documentario. Lacune, sviste, aporie, incidenti inspiegabili, contraddizioni palesi, si concatenano in una sorta di rosario delle cattive intenzioni e della volontà di coprire e ignorare, forse talvolta più forte di quella di sapere, nonostante le nobili ascendenze di quest’ultima. Volontà o necessità di insabbiare, non sapremo mai, ma certo non può consolarsi facilmente la signora Zecchi, Presidente dell’ASS delle vittime, cosi come molti altri, presenti in sala che portano i segni morali e fisici della ferocia dei fratelli Savi e sodali, che scorrazzano nelle periferie e nelle province tra pianure, mari e colline fin quasi alle Marche, prima come semplici si fa per dire rapinatori di casse continue e supermercati, poi devastatori di campi nomadi, giustizieri dell’ uomo qualunque, con ricadute di danno e beffa ai danni dei quartieri stessi, se si pensa all’assedio sistematico da parte delle forze dell’ordine in cerca di riscontri. al Pilastro, all’indomani della strage dei tre carabinieri del 41. Si cercano delinquenti, si dice e si cercano certamente dalla parte sbagliata di una metaforica barricata.

La serata avvince e colpisce il senso di cittadinanza attiva dei presenti, cosi come allora venne colpita al cuore tutta una comunità tentando di terrorizzarla e impoverirla dei presupposti di convivenza più elementari. Paolo Soglia, giornalista, documentarista storico, polemista e attivista, ex dirigente cooperativo, commentatore sportivo, presente sulla carta stampata e sui social con interventi quantomai ficcanti e tempestivi sulle numerose brutture e storture della nostra abituale attualità, ha indubbiamente il pedigree formativo e familiare giusto per calarsi in una continua rilettura della storia più o meno recente della sua città, nella quale ha costruito un pezzo importante di innovazione giornalistica. Come sempre, Cerchiamo di rivolgere qualche domanda all’autore.

Cominciamo, se riusciamo, dalle tue vocazioni molteplici e da questo tuo passaggio dalla cronaca alla Storia maiuscola, se vogliamo. Mi stavo chiedendo come ti definiresti a questo punto, tra giornalista, storico, documentarista e quanto entrino in questo posizionarsi le tue ascendenze familiari (Soglia è figlio di quello che fu il più giovane partigiano bolognese e in seguito giornalista della redazione dell’Unità e di una dirigente dei servizi comunali negli anni gloriosi del loro esprimersi, n.d.r.).

Continuo a definirmi un giornalista, certo, che non ha più, in seguito alle note vicende, una redazione radiofonica, che ha subito anche una sorta di diaspora e che ora lavora necessariamente in modo diverso.

L’atmosfera familiare mi ha certo ritrasmesso molti contenuti, ma diciamo che ho sempre nutrito una certa passione per la Storia. Oggi, certamente modificherei il mio corso di studi. Mi sono laureato al Dams spettacolo, Ma, per esempio, sono tutt’altro che appassionato di teatro. Invece mi è sempre molto piaciuto il cinema. Questo spiega un po’ certi miei percorsi da free lance. Ho fatto anche televisione, non disdegno neppure i nuovi mezzi comunicativi, ho un blog, un canale You Tube, del resto anche Città del capo, aveva alla fine la sua redazione on line. Bisogna sempre stare molto attenti a maneggiare questi mezzi. Siccome a me piace parlare di cose pubbliche ritengo si possa fare su qualsiasi modulo o piattaforma ma adottando sempre uno stile …da editorialista, anzi da editoriale del direttore che si assume quindi una sua responsabilità. Gli incidenti di percorso ci potranno essere sempre, ma sobrietà, attenzione alle fonti, un certo equilibrio anche quando si è fortemente schierati, aiutano a non incorrere in volgarità e scivoloni.

Tornando a noi, come sai, il fatto di non avere più una collocazione definita, mi ha lasciato libero e costretto nello stesso tempo a sperimentarmi, quantomeno nel senso di accettare anche proposte altrui.

Una redazione è una cosa diversa, perché vasta e dove trovi i tuoi spazi di affinità o disomogeneità. Invece poi le collaborazioni, le partnerships che scegli, il lavoro di piccola equipe, sono cose diverse.

Radio Città del Capo è stata, lo dico con orgoglio, una fucina di grandissimi talenti giornalistici, alcuni dei quali precocemente scomparsi, ma anche un incubatore di molto altro, come puoi vedere da sola in ciò che si muove a livello comunicativo in città. Per quanto riguarda il nostro tema, ho ereditato dalla redazione Donatella, che è stata una giovanissima stagista da noi, che poi ha fatto e continua a fare tante esperienze diverse ma soprattutto ad oggi è attrice e regista. Con lei ho elaborato già diverse storie partigiane e qui è stata fondamentale per individuare uno stare sulla scena un ubi consistam delle molte, persino troppe, versioni e informazioni. Lorenzo K. Stanzani, che ha filmato tutta la serata, è il vero documentarista. Lui, che conoscevo già, un giorno mi telefona, proponendomi di fare un documentario insieme. Inutile dire che ci stiamo riferendo a THE Forgotten Front, un bianco e nero epico e meraviglioso tutto dedicato a Bologna, città medaglia d’oro della Resistenza per chi non lo conoscesse. Questo mi ha dato molte soddisfazioni, continua Soglia. è stato proiettato tantissimo e so che con l’avvicinarsi di Aprile, verrà richiesto ancora.

Con Lorenzo il dialogo è apertissimo e proseguiamo : abbiamo appena finito il montaggio di un ‘altro docu inchiesta sugli episodi di squadrismo bolognesi pre 1922, visto che qui siamo sempre stati un po’ anticipatori in tutto. La pensa proprio come una cosa molto pedagogica per le nuove generazioni. Che hanno fame di saperi storici, contrariamente a quanto si crede o si narra nella vulgata.

Vuoi dirci qualcosa di questo format molto particolare, che ha incontrato moltissimo il favore del pubblico?

Si, come dicevo, da tempo avevo intenzione di valorizzare il patrimonio di intelligenza collettiva e materiali prodotto dalla radio e questo della uno bianca, mi pareva un esempio molto riuscito e meritevole di diffusione. Una inchiesta con tutti i crismi su un caso davvero particolare, in quanto non contraddistinto da reticenze, se ci pensi c’è viceversa molta partecipazione, un senso civico forse adesso inimmaginabile in tutte le persone che intervengono pagando di persona o comunque testimoniano loro sponte, accettano di fare identikit, si mettono molto a rischio, insomma.

Il vero nodo è la fallacia delle indagini eppoi un rapido quasi inspiegabile scioglimento dei nodi della matassa. Mi è sembrato interessante proporre una esposizione dal vivo dei fatti. Io ho voluto mantenere il mio tono redazionale e ho tralasciato volutamente tutto il trash opinionistico, le storie familiari, le illazioni caratteriali, il classico chercez la femme che pure all’inizio ci fu, insomma ho anche spogliato la vicenda storica dalle storielle e dalle memorie, che pure sono molto importanti e contribuiscono a costruire una impalcatura e una fisionomia. Volevo sottolineare le anomalie, le troppe incongruenze dei fatti, tutt’ora non del tutto chiarite, cosa che poi ha dato la stura a tutte le illazioni possibili.

Di fatto si tratta di un romanzo criminale, in cui i delinquenti hanno l’aggravante di vestire in gran parte la divisa, agiscono poi con metodi squadristi e intenti terroristici. Denaro in contanti e arsenali di armi sarà quello che si troverà banalmente in casa. I parallelismi con tante altre bande armate o le cosche mafiose possono venire spontanei, eppure si tratta di una specie di unicum, considerando che le vittime spaziano da rappresentanti delle medesime istituzioni che teoricamente si dovevano servire, persone comuni di ogni generazione, donne, anziani, bambini, fino all’ assalto al campo nomadi.

Questa sequenza di delitti impressionante, con le relative conseguenti testimonianze, i vari teatri d’azione decentrati, periferici, di provincia, mi fanno pensare ad un attacco quasi inconsciamente prestabilito secondo criteri discriminatori e con una sorta di spavaldo senso di superiorità e di poterla far franca proprio cercando in qualche modo chi non se l’aspetta o si può difendere abbastanza. Il tentativo di colpire veramente al cuore una comunità di lavoratori, la dignità di un modello di vita. Io credo che abbia pesato molto questo fattore di essere ai bordi, nel tener conto di certe segnalazioni. Per esempio può essere tra virgolette normale non dar retta a ciò che affermano di aver visto “gli zingari”. Non pensi rispetto anche alle vittime ci sia un po’ una sorta di smemoratezza generalizzata?

In realtà diciamo che le istituzioni si sono anche comprensibilmente riprese il ruolo che loro spetta e dunque i carabinieri caduti al Pilastro nel gennaio 91, vengono ricordati assiduamente e con una certa solennità. Sul resto, recentemente hanno pesato gli anni Covid e devi pensare ad un percorso di crimini lungo dal giugno 87 al novembre 94, con tantissime dislocazioni geografiche e teatri d’azione. questo rende complesso persino commemorare.

Posso chiederti allora cosa pensi di questa progettualità cui l’amministrazione sembra tenere molto, inerente il cosiddetto Polo della Memoria? Sembra debba avere una centralità nella vicenda delle stragi.

Non ne conosco i dettagli, penso positivamente in generale come molto opportuna l’attitudine a far dialogare archivi diversi soprattutto sul contemporaneo e spero che su questo si vincano diffidenze e divisioni perché è molto importante conservare valorizzare rendere accessibili e comprensibili i documenti, fondamentali quando si vogliono raccontare pezzi di storia anche politica delle nostre comunità.

Saluto Paolo Soglia riflettendo proprio sulla complessa ancorché giovane storia del quartiere Pilastro, ricorrentemente messo all’indice, ma ora a proposito di fatti storico culturali che comprendono la Uno Bianca, preso in carica con queste valenze drammatiche dal passato, dai suoi stessi cittadini, stimolati e coadiuvati dal gruppo di DOM, la Cupola del Pilastro, con diversi progetti di archivio dal basso e di prodotti comunicativi, senza contare il nuovo presidio costituito dal museo dei bambini e delle bambine.

L’altra considerazione è quella inerente il nostro sistema dei delitti e delle pene, pensando alla richiesta dei Savi condannati all’ergastolo, di poter lavorare, finora disattesa e al caso del militante anarchico Cospito, detenuto nelle inumane condizioni del 41 bis e ad un passo dalla morte a causa del prolungarsi del suo sciopero della fame in segno di protesta. Per chi volesse esercitarsi ancora in merito ad una rilettura storica dei nostri più sanguinosi e ancora misteriosi fatti di cronaca politica e giudiziaria da un recente passato, mi consta segnalarvi il tour di presentazioni in Regione del più recente lavoro editoriale di Guido Viale, in difesa della memoria di quella che fu Lotta Continua, a Bologna venerdì 3 febbraio alla Case della Pace di via del Pratello.

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