Dal fronte di guerra ucraino giungono ogni giorno assieme alle immagini dei bombardamenti implacabili e ai bollettini quotidiani delle vittime, informazioni sui reparti combattenti, sulle loro nomenclature e le insegne di cui si fregiano. Essendo un conflitto marcatamente ideologico e vetero-nazionalista per il controllo di territori più che di risorse, si sarebbe portati a credere che si tratti di milizie regolari dei due eserciti con i rispettivi vessilli nazionali. Non è così, o lo è solo in parte. I nomi con i quali ci stiamo familiarizzando sono quelli del Battaglione Azov e del Gruppo Wagner, giudicati dagli esperti formazioni private al servizio dei Paesi in guerra.
Il Battaglione Azov, di matrice ucraina, è stato tenacemente impegnato nella difesa di Mariupol nella primavera 2022. Finanziato, a quanto risulta, dall’oligarca Ihor Kolomojs’kyj – proprietario di banche, compagnie aeree e petrolifere – è stato creato nel 2014 per contrastare la secessione filorussa del Donbass. Essendo un reparto di volontari, per legge non poteva far parte delle forze armate permanenti ucraine. Nelle prime fasi viene inquadrato nella Guardia Nazionale, in seguito nell’esercito. Di tale unità paramilitare, fortemente ideologizzata in senso reazionario, fanno parte non solo militi locali ma anche nazionalisti provenienti da altri paesi europei. (Limes, agosto 2022)
Il Gruppo Wagner, protagonista della sanguinosa riconquista di Soledar da parte dei russi a metà gennaio 2023 e definito PMC (Compagnia Militare Privata), pare sostenuto da Evgenij Prigozhin – proprietario di ristoranti e attività di catering – uomo d’affari strettamente legato a Vladimir Putin. Ufficialmente si tratta di un gruppo indipendente di mercenari privati, ma sarebbe un’unità diretta dal ministero della Difesa, utilizzata dal Governo nei conflitti dove la presenza ufficiale della Federazione russa sarebbe imbarazzante. Viene impiegato per la prima volta durante la guerra del Donbass, tuttavia i suoi affiliati hanno partecipato a diversi conflitti in Libia, Siria, Repubblica Centrafricana e Mali. (Limes, agosto 2022)
Il fenomeno delle truppe mercenarie – oggi rinominate contractors – richiama quello documentato dagli storici fin da tempi remoti. Egiziani, greci, persiani e cartaginesi impiegavano per le loro guerre “soldati di ventura”, e largo uso ne fecero in territorio italiano le signorie medievali, fermamente biasimate per questo da Nicolò Machiavelli. Compagnie senza bandiera e ben remunerate continuarono a imperversare sul suolo europeo almeno fino alla pace di Westfalia del 1648. In seguito, con l’imporsi degli Stati e delle truppe nazionali, il loro utilizzo divenne residuale. Nei secoli successivi bastarono la leva obbligatoria e gli eserciti di massa per insanguinare i campi di battaglia. (Vignarca, Mercenari SpA, 2014)
Nel secondo Novecento, bandite le guerre da un’Europa estenuata in seguito a un trentennio di scontri feroci, si pensava che i conflitti armati appartenessero al passato, come pure le milizie, nazionali o private che fossero. In realtà la guerra era stata solo allontanata dagli sguardi degli europei. Circoscritta in ambiti periferici considerati non ancora civilizzati, in particolare paesi africani e asiatici, continuava a produrre vittime in luoghi chiamati Kenia, Iraq, Congo, Sierra Leone, Siria e Afghanistan, dove turbolenza politica fuori controllo e affarismo spregiudicato favorivano il nascere e l’affermarsi di eserciti privati composti da militari a contratto provenienti da ogni continente.
Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si ebbero dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”. Un numero crescente di militari impiegati in entrambi i fronti rimase senza occupazione, disponibile a ogni tipo di ingaggio purché ben pagato. I vecchi e i nuovi Stati che emergevano dalle rovine del blocco sovietico si trovavano in dotazione personale militare – ex Patto di Varsavia – non più adeguato alle esigenze belliche moderne. Il bisogno di riqualificazione fu prontamente soddisfatto dagli esperti della Nato e pure dalle nuove compagnie private attive nel settore.
Nelle pagine conclusive de Il secolo breve (1994) Eric Hobsbawn notava con preoccupazione come negli ultimi decenni del Novecento l’indebolimento e “la crisi nell’assetto degli Stati nazionali” li stesse privando del monopolio della forza effettiva. Lo studioso era sconcertato non tanto per la cessione di sovranità militare a organismi sovranazionali quali Onu e Unione Europea – com’era negli auspici dei popoli della terra fin dal 1945 – quanto per l’irruzione nei teatri di guerra di “gruppi di militi addestrati privatamente”. In alcuni casi si trattava di vere formazioni terroriste in grado di portare “sconquasso e devastazione” in ogni parte del pianeta grazie alla disponibilità di tecnologie belliche e ordigni sofisticati, micidiali oltre ogni immaginazione.
Le Nazioni Unite non erano state né in grado di scongiurare o almeno di ridurre il numero dei conflitti armati tra i popoli né di esercitare un controllo sulla proliferazione di armi di distruzione sempre più micidiali e sulla privatizzazione dei corpi militari.
Nei sanguinosi conflitti che lacerarono la Repubblica socialista jugoslava agli inizi degli anni Novanta del Novecento, erano presenti secondo alcuni osservatori anche contractors impegnati in funzioni logistiche di monitoraggio e controllo dei confini, sia in Croazia che in Bosnia. E probabilmente non si tratta di un semplice sospetto.
In molti conflitti del Sud del mondo, e ora anche nell’Occidente democratico, sono agenzie private a gestire la macchina bellica mediante personale irregolare e persino criminale. L’uso legittimo della forza, dunque, non è più riservato ai pubblici apparati, ma delegato a gruppi di professionisti non soggetti ai controlli della collettività. I contractors agiscono in accordo con élites politiche locali, spesso corrotte e spregiudicate. Già nei processi di decolonizzazione degli anni Sessanta/Settanta del Novecento, per contrastare le lotte di liberazione nel continente africano, vennero impiegate milizie private che si distinsero per brutalità e affarismo. Erano le avvisaglie di quanto si stava preparando.
Gli Stati Uniti hanno apprezzato per primi le opportunità offerte dai nuovi “mercenari”, non solo esperti d’armi, ma anche abili imprenditori. Dal 1994 al 2002, il Dipartimento della Difesa americano ha stipulato più di 3.000 contratti con società militari private statunitensi. Come sostiene il generale Mini, oggi “si combatte per i cicli produttivi più che per la difesa dei confini, molti interventi hanno come beneficiarie, più che gli Stati, singole corporazioni che hanno bilanci superiori a quelli di decine di Paesi”. (Soldati 2008) Non servono come un tempo guerrieri muscolosi e spericolati, ma intelligence militare specializzata ed esperti di comunicazioni e di sorveglianza aerea del campo di battaglia, sicuramente più costosi ma contrattualmente meno vincolanti, perché non appartenenti all’organico della Difesa. Per non parlare poi dei vantaggi politici: ricorrendo a loro, infatti, si evitano le lungaggini parlamentari e non si devono affrontare gli umori di un’opinione pubblica restia a sacrificare i propri “ragazzi” in guerre lontane.
Anche la Cina, pure restia a impiegare all’estero forze militari nazionali, sta facendo ricorso a imprese di sicurezza private per proteggere le vie commerciali aperte in ogni angolo del pianeta. (Limes settembre 2018)
Il mercato globalizzato consente infinita libertà di movimento e propizia operazioni finanziarie vantaggiose per le compagnie transnazionali che lavorano al soldo di terzi o sostituiscono compagini statali che non possono agire fuori dai confini nazionali. Tali compagnie private hanno beneficiato di un sostanziale vuoto normativo, con la conseguente mancanza di organi di controllo su reclutamento del personale, formazione e impiego nei teatri di guerra. Essendo soldati irregolari, i mercenari non devono nemmeno attenersi alle norme dello ius in bello, dunque alle regole convenzionali tese a rendere meno afflittive le operazioni belliche nei confronti dei civili o dei prigionieri.
Una recente Risoluzione dell’Unione europea interviene a proposito di violazioni dei diritti umani da parte di agenzie di sicurezza private – con particolare ma non esclusivo riferimento al gruppo Wagner – che non rispettano i protocolli di condotta sottoscritti a Montreux del 2008. Nella deliberazione si ricorda che l’UE e gli Stati membri devono ricorrere ad agenzie private solo nelle zone di conflitto per proteggere i loro edifici e garantire la sicurezza dei trasporti a patto che dette imprese rispettino i diritti umani e il diritto internazionale umanitario.
Si sottolinea inoltre che non si dovrebbero esternalizzare alle imprese militari e di sicurezza private attività che comportano l’uso della forza e/o la partecipazione attiva alle ostilità, tranne che in casi di autodifesa. Da ultimo viene ribadito che sicurezza e difesa dovrebbero essere assicurate principalmente dalle autorità pubbliche. (Documenti del Parlamento europeo, 25 novembre 2021).
Risulta del tutto evidente come gli Stati democratici – almeno loro – debbano esercitare la dovuta vigilanza sulle compagnie private di difesa per non perdere il controllo del territorio e la stessa sovranità. Parallelamente sarebbe saggio ridurre la spesa per gli armamenti, un fiume di denaro raddoppiato negli ultimi dieci anni.
Immagine di copertina, Maxime Doré/Unsplash