Ci sono delle mode anche per le parole. Quando una parola diventa di tendenza, a volte perde molto del suo significato e dei suoi usi originari e – così smagrita o amputata – viene appiccicata addosso alle cose più diverse, non di rado dopo essere stata rifocillata di nuovi sensi. Altre volte – mi sembra – le parole conservano molto di se stesse e delle loro suggestioni. In un caso e nell’altro, spesso vengono poi usate come esito di un ragionamento volto a uno scopo o, al contrario, come spurgo verbale poco o per nulla riflettuto. Ma, anche se siamo così abituati a usarle che non ce ne rendiamo conto, le parole hanno conseguenze, e allora sarebbe bene prestar loro la dovuta attenzione: il linguaggio crea la realtà – potremmo dire con un’espressione molto costruttivista –, definendo i domini concettuali attraverso i quali e stando dentro ai quali “vediamo” il mondo e agiamo in esso. O, per ricalcare la celebre espressione di Humberto Maturana, «la realtà emerge nel linguaggio attraverso il consenso» (Maturana H. R. e Varela F. J., Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, 1985, originale 1980)
“Sfida”: contorni e suggestioni di una parola molto in voga. Ci sono delle mode – dicevo – anche per le parole. “Sfida”, per esempio, è in questi tempi davvero una parola à la page, e frasi come «questa situazione è sfidante» o «dobbiamo essere pronti a questa sfida» sono ormai così frequenti che ci sfuggono dalla gola o ci entrano nelle orecchie passando praticamente inosservate. La connotazione che si vuole dare è senza dubbio positiva: una sorta di ridefinizione di situazioni disagevoli o spiacevoli come qualcosa che ci spinge a farvi fronte sollecitando le nostre risorse, la nostra forza, la nostra creatività. Ma le parole – dicevo – hanno conseguenze, e queste spesso vi corrono appresso un po’ nascoste, legate a doppio nodo alla loro scia di rimandi semantici, immagini, riferimenti valoriali. Vorrei ora analizzare alcuni degli elementi che, a mio parere, stanno nel solco della parola “sfida”, per poi portarmi con essi in una riflessione su questioni di attualità. Secondo il vocabolario online Treccani, “sfida” è: «1. Lo sfidare a battaglia, a duello, a una gara o a qualsiasi altra competizione» e “sfidare” è: «1. (a) Provocare l’avversario a battersi in uno scontro armato: s. a duello, a battaglia […]. (b) Invitare l’avversario a misurarsi in una gara o in una competizione». Balza all’occhio il legame tra la sfida e il ricorso alla violenza o, comunque, a una competizione. Ma c’è un altro legame che la “sfida” intrattiene – mi pare di poter suggerire ‒: tradizionalmente, essa va a braccetto con l’onore. Se si vuole restare degni di fronte a sé e agli altri, messi di fronte a una sfida si deve accettarla, si sente di doverla accettare; poi, possibilmente, bisogna farvi fronte con successo o, in alternativa, perdere (e magari anche perire), ma sempre e ancora degnamente. L’altra opzione “disponibile” è quella del non raccogliere il guanto: scelta per nulla desiderabile, visto che conduce dritti all’infamia. Resti vivo, insomma, ma al prezzo di diventare un reietto, un espulso dal consorzio umano. Ad ogni modo, entrambe le alternative di scelta (accettarla/non accettarla) fanno parte dei modelli di comportamento previsti dalla sfida: in questa chiave, potremmo definirla come “gioco”, che qui intendo come sequenza di mosse e contromosse che avvengono dentro il complesso di regole che la governano. Riprenderò questo aspetto alla fine. In riferimento al termine di cui ci stiamo occupando, c’è un altro punto che mi pare si possa evidenziare: una sfida chiama in causa l’individuo, più che la comunità. Sebbene possa riguardare anche una collettività, è infatti qualcosa che, nell’immaginario, schiaffeggia la guancia di uno, bussa violentemente alla porta del singolo, il quale si sente, così, chiamato a rispondervi, per non gettarsi nell’ignominia. È, inoltre, legata alla competitività, valore fondamentale dei nostri giorni: un “principio attivo” in più per questa sorta di stimolante verbale che è “sfida”.
La sfida e le faccende contemporanee. Sfida (oltre che “guerra”) è stata la pandemia con tutti i suoi connessi; sfide sono quella del clima e pure quella energetica; sfida è ora, anche, la guerra vera, in qualsiasi forma essa si esprima e si possa esprimere qui “da noi”. La guerra, ad esempio. «Putin ci sfida», «Putin sfida il mondo», «Putin sfida l’Occidente», «Putin sfida i nostri valori». E il richiamo esplicito, frequentissimo, all’onorabilità (o, meglio, a un certo modo di intenderla): «Putin vuole spaventarci e quindi noi dobbiamo fargli vedere che non abbiamo paura» (dicono proprio così, alcuni, e non al bar, ma in tv). E poi le domande tipo: «Siamo pronti ad affrontare questa sfida?» – come chiede a volte qualcuno in televisione ai suoi ospiti, riferendosi ai variegati scenari invernali nostrani del conflitto ucraino. Su questa singola breve domanda si potrebbero scrivere folte pagine. C’è dentro tutto quello che ho suggerito a proposito del termine “sfida” e non mi stupirei se qualcuno, nell’udirla, avvertisse incolpevolmente quel fremito non cercato dell’adrenalina che ti inizia a fluire dentro quando sei di fronte a qualcosa che è al contempo prova personale in cui pesarti e competizione col nemico. Ma c’è anche dell’altro, in questa domanda, per come è costruita: c’è dentro il senso d’urgenza (“siamo pronti?”) della dovuta reazione a qualcosa che ti dicono sia lì lì per lanciartisi addosso. Ci sono dentro dei ruoli chiari, perché la sfida è lanciata da un attore ben individuabile e noi altri siamo, automaticamente, gli schiaffeggiati dal guanto, che possono solo – pare – reagire nei modi previsti da questo gioco e con esso coerenti: i Governi e i loro megafoni in un modo (rispondendo con le stesse armi dello sfidante, siano esse insulti, risate sbeffeggianti il nemico, minacce o armamenti di ferro), i cittadini in un altro (rinunciando al condizionatore acceso, per riecheggiare l’espressione triste con cui Mario Draghi scelse maldestramente di chiamare il popolo a sé). C’è dentro, in domande come quella, implicita ma a mio avviso decisamente presente, l’ineluttabilità di un destino scolpito senza rumore nelle sue premesse non dette: lo scenario bellico è la realtà ovvia, l’unica, e quello che di solito fa una realtà data per scontata è spegnere la luce su eventuali alternative. E – a meno che non ci si alleni a prestare attenzione alle parole – è forse ancora più arduo interrogarsi su di essa, se viene resa quasi stuzzicante dal suo nome-sostituto “sfida”: se ci pensiamo in guerra, magari ci vediamo bruciati da una bomba; ma se ci immaginiamo duellanti – accidenti! – nella nostra mente saltelliamo come baldanzosi spadaccini… Sono domande strane, se ci pensiamo, quelle come «Siamo pronti ad affrontare questa sfida?», perché sono di quelle domande che domandano poco e decretano tanto, che più che liberare possibilità – ciò che una domanda dovrebbe fare – sanciscono visioni della realtà ristrette all’ambito linguistico-concettuale (e poi pragmatico) in cui vengono espresse e di cui sono espressione. «Siamo pronti alla sfida» o «non siamo pronti alla sfida»: queste le alternative disposte da quella domanda, che non prevede di poter scegliere tra questo e differenti “giochi”. Una cosa che ricorda l’aneddoto riguardante il piccolo Milton Erickson (grande ipnoterapeuta del secolo scorso), a cui il padre chiedeva se volesse dar da mangiare prima ai polli o prima ai maiali. Non se volesse o meno lavorare. Un caso di “illusione di alternative”, come ci ricorda il (tra le altre cose) noto studioso di comunicazione, scomparso da diversi anni, Paul Watzlawick (Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica, Feltrinelli, 1980, originale 1977.
Conclusioni. Potremmo presumere che la popolarità del termine “sfida” trovi una spiegazione nella sua coerenza con il preciso ambito concettuale e valoriale che lo genera: in un mondo dominato dall’esaltazione dell’individuo, dalla competitività come valore e dal sentimento di necessità di una perenne dimostrazione di traguardi e obiettivi raggiunti, non è difficile immaginare che tutto possa essere visto in modo naturale come una sfida. Divenuto “alla moda”, è probabile poi, come detto all’inizio, che il termine abbia preso ad essere utilizzato (anche) senza troppo pensiero, in modo quasi automatico. Fatto sta che il discorso privato e, soprattutto, quello pubblico sono oggi talmente pieni di “sfida” da rinforzare – suggerisco – un tale modo di concepire il mondo: “sfida” si ritrova così a nutrire la pancia da cui nasce. Ma è una parola potente, “sfida”, e va maneggiata con cura. Più sopra ho sostenuto che potremmo vederla come un “gioco”, inteso come sequenza di mosse e contromosse che hanno luogo e senso entro il complesso di regole che la governano. Una volta che si sia finiti dentro a un gioco, questo diventa il contesto nel quale ci muoviamo: tendenzialmente ogni comportamento (che è sempre comunicazione) verrà letto e significato “dal di dentro” e scelto tra le mosse da esso previste, che appariranno come modalità d’azione ovvia e la cui legittimità non verrà messa in discussione. Se una situazione è una “sfida”, due soluzioni si palesano al pensiero: raccogliere o meno il guanto. Una terza via non c’è o, meglio, non è contemplata e non è contemplabile. A meno che non si allarghi lo sguardo fino a vedere che si potrebbe scegliere di non giocare a quel gioco, che forse è la stessa cosa del dire che si potrebbe scoprire di poter usare un altro nome per quella cosa. Alle parole bisogna dare attenzione – dicevo all’inizio. E quando sono nomi che vengono attaccati alle cose, ancora di più è necessario scrutarle con cura, sondarle e rigirarle per vedere se dietro non ci sia qualcosa d’altro, in quella cosa: per vedere se non ci siano altri nomi da poterle dare che ce la facciano apparire in modi diversi e ci facciano giocare a un altro gioco.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 27 ottobre 2022, con il titolo “‘Sfida’. Contorni e suggestioni di una parola”