«Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire “bisogna far questo o quello”; ma la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza. Così anche per l’uomo, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non l’ha fatto». Questa pagina tratta da Aut-Aut del filosofo danese Søren Kierkegaard, un libro del 1843, capolavoro del pensiero moderno, ci pone immediatamente di fronte al bivio decisivo: «Aut-Aut: vivere esteticamente o vivere eticamente». L’estetica «è ciò per cui l’uomo spontaneamente è quello che è; l’etica è quello per cui diventa quello che diventa». Chi vive esteticamente dice: “Bisogna godersi la vita”. L’icona della vita etica è il marito, colui che ha fatto una scelta e vive la sua esistenza nella fedeltà a un impegno e a un patto. L’immagine della vita estetica è il seduttore, il don Giovanni che vola di fiore in fiore, che coglie tutti i frutti che incontra lungo la sua strada. Si nutre di emozioni, è tutto preso e perso nel presente senza alcun bisogno di intonare le scelte di oggi a un qualche vincolo di ieri. L’esteta, come lo definisce Kierkegaard (ogni grande autore reinventa le sue parole), vive disperso nel molteplice, in un perenne «stato di indifferenza», perché «la scelta estetica non è una scelta», è un flusso. L’esteta non si dà nessun compito, nessun impegno che non sia quello che emerge attimo dopo attimo. Mai sazio, sempre affamato di nuove emozioni da consumare, in una ricerca spasmodica di felicità che non arriva perché divorata dal piacere.
Non è difficile individuare nella nostra società dei consumi la realizzazione perfetta della vita estetica descritta da Kierkegaard. Il cittadino abitante la città globale capitalista è tanto più perfetto quanto più vola di fiore in fiore per succhiare le opportunità che gli si presentano davanti. L’infedeltà e il tradimento sono qualità necessarie dell’homo consumens, perché ogni forma di condizionamento che una scelta passata esercita su quelle presenti è un inefficiente vincolo da cui liberarsi. Il consumatore ideale è colui che rinasce ogni giorno, senza passato né futuro, tutto immerso nel presente dove soddisfa al massimo i suoi gusti. Patti, promesse, fedeltà, sono veri e propri attriti del sistema, perché ciò che rende fluido ed efficiente il capitalismo è proprio la velocità di reazione dei consumatori di fronte alla minima variazione di qualità e di prezzo.
Le imprese, dal canto loro, si presentano nei confronti dei consumatori come agenzie di offerta di infiniti oggetti di piacere. Da sempre nei mercati i seduttori sono i venditori, e i sedotti sono gli avventori, conquistati e ammaliati dai beni offerti. Le merci sono gli strumenti con cui si esercita la grande seduzione. Consumatori insaziabili – la non-sazietà è un assioma della teoria economica del consumo – continuamente cercati, inseguiti e sedotti dalle merci. Nel passato questa seduzione era affidata anche ai gesti, agli ammiccamenti, alla voce e alle parole dei venditori, i suoi luoghi erano soprattutto le fiere e i mercati nelle piazze delle città. C’è sempre stata una analogia tra eros e commercio, tra la seduzione amorosa e quella mercantile, ma nei mercati meticci delle generazioni passate accanto all’eros comparivano anche la philia e l’agape, che liberavano l’eros dalla sua gabbia di eterno presente. Oggi la seduzione viene costruita nei centri studi e marketing delle grandi multinazionali, e si compie soprattutto nei media e sulla rete, quindi senza corpi. La tendenza seducente dell’economia è comunque aumentata, il mercato sta diventando ogni giorno di più un grande meccanismo di seduzione anonima di massa, un enorme sistema di corteggiamenti. Ma è la seduzione di un eros senza corpo – non deve pertanto stupirci che in un mondo sempre più seducente ed “erotico”, centrato sulla ricerca della salute e del benessere del corpo, stia in realtà diminuendo il desiderio per i corpi veri, assuefatti da corpi immaginati e non toccati.
Il capitalismo è un immenso giardino delle delizie, infiniti seduttori e sedotti sprofondati nell’attimo fuggente, nuovi lotofagi smemorati di passato e ancor più di futuro. Il XX secolo ha conosciuto un successo enorme e imprevisto della civiltà dell’estetica. In un mondo che ancora viveva nella scarsità generalizzata, la crescita esponenziale dei consumi ha consentito un benessere straordinario diffuso, soprattutto nel Nord e a Occidente. Questo benessere delle merci ci ha sedotto prima il corpo e poi l’anima. Nel crepuscolo degli dèi, sono emersi nuovi-antichi idoli luccicanti di oro e di argento. È così che il capitalismo è diventato la nuova religione, tutta estetica, senza inferno, una nuova vita eterna: solo paradiso senza tempo. La categoria di tentazione è stata completamente cancellata e ridicolizzata, perché è incompatibile con la civiltà estetica che la vede come un’indebita limitazione delle opportunità qui e ora. Un culto quotidiano e istantaneo, la cui dimensione effimera ne determina un successo sbalorditivo: se il suo paradiso può essere goduto soltanto nel momento stesso del suo consumo, il solo modo per non uscire da questa beatitudine è non smettere di comprare, meglio se a debito, perché la nuova finanza ha pervertito il senso economico del tempo. In passato il credito consentiva al presente di diventare futuro, ora il credito al consumo trasforma il futuro in presente. Anche l’etica delle virtù conosce il valore del presente, ma il suo presente è il luogo dove si incontrano passato e futuro e impediscono al presente di sprofondare nel nulla.
Un primo segnale forte di crisi del capitalismo estetico è emerso dallo stesso mondo delle imprese. Le aziende in quanto venditrici hanno bisogno di consumatori estetici, ma le imprese in quanto produttori hanno invece bisogno di lavoratori capaci di etica, di fedeltà, di lealtà. Ma i consumatori e i lavoratori sono le stesse persone, cambia solo la maschera sulla scena. Nasce così un conflitto intestino al capitalismo che è ancora incipiente, sebbene grave: per poter vendere e crescere, le imprese incoraggiano la cultura estetica dei consumatori, ma quando questi passano i cancelli delle imprese sono sempre più sprovvisti di quel capitale etico del quale le imprese hanno un bisogno vitale. Dietro il recente movimento delle “grandi dimissioni” dal mondo del lavoro ci sono molti fattori, ma c’è anche una società che sta erodendo sull’altare del consumo i suoi patrimoni civili, e si ritrova con giovani “esteti” incapaci di reggere l’impatto con il lavoro, che resta un luogo di sacrificio, di tenuta, di fatica. Il capitalismo ci vuole adolescenti nel consumo e adulti nel lavoro, e sta “adolescentizzando” il mondo adulto.
Ma chi ha smascherato definitivamente il bluff del capitalismo estetico è l’ambiente. La crisi ecologica, di cui anche la crisi energetica è espressione diretta, riporta al centro della scena economica e politica la grande domanda di Kierkegaard: Aut-Aut. Un’opzione fondamentale che oggi ha una inedita valenza collettiva e globale, perché per la prima volta riguarda ciascun abitante del pianeta. Il tempo è scaduto: non è più possibile continuare nell’indifferenza della vita estetica.
Kierkegaard in Aut-Aut ci dice che la tappa intermedia obbligata per passare dall’estetica all’etica si chiama disperazione. Non si passa dall’etica all’estetica con una lenta transizione ecologica. La disperazione è un attimo, è un cambiamento di sguardo: non è ascesi, è metanoia, cioè conversione radicale. «La condizione della tua disperazione è bella. Scegli dunque la disperazione». La disperazione nasce dal pentimento: «La vera salvezza dell’uomo è disperare». Kierkegaard oppone la disperazione al dubbio: «La disperazione è la condizione di tutta la persona, il dubbio del solo pensiero». Il dubbio coinvolge la ragione, la disperazione l’intera esistenza. Il pensare la crisi non basta, spesso è solo l’ennesima illusione. Sono decenni che ci crogioliamo nei dubbi sulla sostenibilità: convegni, commissioni, infiniti dibattiti, appelli, discussioni… L’età dei dubbi deve lasciare il passo a quella del pentimento collettivo e quindi alla disperazione, che prelude a una nuova scelta etica: «Dispera e il mondo diventerà di nuovo bello e pieno di gioie per te, anche se lo vedrai con occhi diversi da prima». Bisogna disperare con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze, ma insieme: una giusta disperazione collettiva è salvezza.
Occorrono atti simbolici forti e collettivi di pentimento, dobbiamo chiedere scusa al presente e al futuro, subito. E poi sentire la disperazione, perché la disperazione è la levatrice di una speranza non-vana dopo l’età dell’illusione. Solo una economia pentita e disperata può diventare un’economia etica.
In questo processo collettivo vitale e necessario di pentimento-disperazione-etica abbiamo bisogno primario di maestri veri. Da soli non ce la facciamo. Ci servono parole diverse dalle nostre. Molte le abbiamo trovate in questi anni nella Bibbia, e le useremo. In questa nuova serie di riflessioni, Radici di futuro, mendichiamo parole più grandi in scrittori, filosofi, poeti, persone-radici che hanno avvertito la disperazione del loro tempo e hanno provato a vederne un altro “con occhi diversi”. Buon cammino.
Questo articolo è stato pubblicato su Avvenire il 3 settembre 2022