Il report “Smoke and minerals” curato dal Transnational institute ricostruisce le strategie delle più importanti società -da BHP ad Anglo American- per massimizzare i profitti che la “transizione” potrebbe portare al settore. Con alti rischi per l’ambiente e per le comunità coinvolte dall’attività estrattiva.
“Everything starts with mining”: tutto inizia dall’estrazione dei minerali. Così Mike Henry, amministratore delegato di BHP Billiton, la più importante società mineraria al mondo, nell’ottobre 2021 iniziava il suo intervento in un summit mondiale delle aziende del settore organizzato dal Financial Times. In particolare l’intervento di Henry era mirato a ricordare come la “decarbonizzazione è un’attività ad alta intensità di utilizzo di metalli”. In altri termini: la transizione energetica rappresenta per il settore minerario un enorme bacino di potenziali profitti. E proprio per mettere sotto la lente d’ingrandimento le strategie delle multinazionali per “sfruttare” la rivoluzione verde a proprio favore, il centro di ricerca internazionale Transnational institute ha pubblicato il 10 giugno lo studio “Smoke and minerals”. “Per capire le conseguenze che questa espansione avrà sulla vita delle persone e sull’ambiente -spiegano i ricercatori-, occorre analizzare le strategie politiche e di investimento di queste multinazionali per provare a sviluppare delle pratiche di resistenza dal basso”.
Dal rame al nichel, passando per manganese e litio, i cosiddetti “minerali di transizione” sono fondamentali nello sviluppo di nuove tecnologie che non utilizzano combustibili fossili. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) sottolinea come “un’auto elettrica richiede sei volte l’apporto di minerali di un veicolo convenzionale e un impianto eolico onshore un apporto degli stessi prodotti nove volte superiore a una centrale elettrica a gas” ed è necessario “aumentare gli investimenti in nuovi impianti di estrazione e lavorazione”. Quando ci si riferisce all’industria mineraria, non bisogna pensare solamente al singolo sito di estrazione, il punto di partenza. Oggi le società del settore gestiscono grandi infrastrutture logistiche, corridoi transoceanici, reti di intermediazione finanziaria e molto altro che permettono di ottenere il prodotto finale. “Dai contadini diseredati in Cile ai lavoratori migranti in Cina, le attività transnazionali di queste aziende plasmano le vite delle persone e gli ambienti in cui vivono intere comunità”, spiegano gli autori del report.
Per rispondere al significativo aumento della richiesta di minerali dei prossimi decenni, le strategie di investimento delle società stanno seguendo due filoni: l’intensificazione e l’estensificazione. Da un lato, quindi, lo sviluppo di nuove forme di tecnologie e di organizzazione del lavoro per aumentare l’efficienza dei siti già attivi, dall’altro l’apertura di nuovi siti estrattivi che sta tornando ad essere la via “preferita” dalla maggior parte delle grandi compagnie. Un cambio di rotta legato proprio ai “profitti potenziali” portati dalla rivoluzione verde: i dati della società di consulenza Ernst&Young, secondo cui nel 2020 il budget destinato all’esplorazione di nuovi territori era la metà rispetto al 2012, non preoccupano i grandi player del settore. “C’è un’enorme quantità di materie prime che deve ancora arrivare sul mercato -ha affermato un rappresentante della società Anglo American-. I capitali forse stanno arrivando lentamente, ma arriveranno”. La strategia di espansione permette di tornare a prendere in considerazione i cosiddetti “Paesi ad alto rischio” e in particolare alcune regioni del continente africano considerate, sempre secondo Ango American, “una opportunità incredibile”. Si registra così un ritorno al passato. Se infatti a partire dagli anni Duemila i minatori occidentali hanno rivolto le principali attenzioni all’America Latina -basti pensare che il valore del rame esportato dal Cile alla Cina è passato da 3,9 miliardi di dollari nel 2005 a 14,6 nel 2012- l’instabilità politica nei Paesi, le lotte sulle royalties e la scarsità di miniere di “alto livello” favoriscono uno spostamento geografico verso altre zone. Zone in cui, però, i rischi in termini di “instabilità” non sono per forza minori. Semplicemente meglio affrontabili del passato in vista di una crescita esponenziale del settore. Motivo per cui, ad esempio, BHP ha cambiato strategia negoziando un accordo, considerato fino a poco prima troppo rischioso, con la Repubblica democratica del Congo, ricca di materie prime. L’espansione, però, riguarderà anche i Paesi a maggior reddito: dagli Stati Uniti al Canada passando per Australia ed Europa. “Sebbene queste giurisdizioni -si legge nello studio- possano sembrare meno pericolose in termini di rischi per gli investitori, non è così. I nativi americani, ad esempio, hanno guidato una dura opposizione alla miniera di litio di Tracher Pass in Nevada e alla miniera di rame Resolution in Arizona”. Le multinazionali si trovano così ad affrontare la resistenza delle comunità locali.
Proprio per ovviare a questo problema, un altro pilastro della strategia di investimento per massimizzare i profitti prevede innanzitutto un’attività di rebranding: l’industria estrattiva vuole vendersi come “sostenibile” e “veicolo per lo sviluppo”. Ne è un esempio il sito di BHP che è pieno di immagini di turbine eoliche, veicoli elettrici e pannelli solari che spingono i visitatori a pensare che i prodotti dell’azienda aiutino a costruire un futuro più green. Così non è. “Nel 2020 BHP ha speso per l’esplorazione del petrolio cinque volte di più rispetto a quella per il rame, che resta l’equivalente di ‘spiccioli’ per l’azienda”. Ma l’immagine non è abbastanza per sfuggire alle critiche legate alle proteste delle comunità locali particolarmente toccate dall’attività estrattiva. Le compagnie minerarie dedicano così maggior impegno a contrastare “la percezione pubblica che stiano prosperando a spese delle popolazioni locali” e prevenire così eventuali proteste a seguito dell’inizio delle attività. L’amministratore delegato di Anglo ha sottolineato come “la [mia] azienda sta sviluppando standard di intervento che soddisfino i diversi stakeholder tra cui le Ong e la popolazione del luogo”. Parole attente ma che non si traducono nella realtà. La società infatti è sotto accusa in diversi luoghi, dal Sudafrica al Brasile. “La distanza tra quanto dichiarato e quanto realizzato -si legge ancora nel report– si vede nell’impegno di Anglo per il rispetto delle popolazioni indigene. Ha semplicemente chiesto il loro consenso non preventivamente ma ad attività già iniziate”.
Infine le compagnie dedicano molte risorse a ridisegnare i confini dei loro rapporti con i governi attraverso diverse strategie. Una è sicuramente la nascita di organizzazioni industriali che stabiliscono i propri standard per le pratiche estrattive. Ne è un esempio il Consiglio internazionale delle miniere e dei metalli (Icmm) che riunisce 28 società minerarie e metallurgiche e 35 società nazionali di prodotti di base e ha stabilito dieci principi a cui i partecipanti devono aderire. “Lo scopo di queste iniziative consortili è quello di evitare qualsiasi tipo di regolamentazione più rigida da parte dei governi e creare delle ‘regole’ interne decise dall’industria stessa”, spiegano i ricercatori. Non meno importanti, sotto il profilo di “sfida” nei confronti della regolamentazione statale e l’utilizzo degli Investor-State dispute settlement (Isds), arbitrati internazionali esterni al sistema giudiziario ordinario chiamato a decidere sulle controversie tra “investitori privati” e Stati previsto in molti trattati internazionali. “I dati dal 2016 in avanti dimostrano che le industrie minerarie hanno fatto causa ai governi per 53 miliardi di dollari, diventando uno dei settori più attivi nell’utilizzo di questi arbitrati”. Alla fine del 2021, l’industria mineraria è seconda solo a quella dei combustibili fossili e rappresenta l’11% delle cause Isds conosciute a livello globale. “Dal rebranding al coinvolgimento di nuovi stakeholder fino agli arbitrati, le società minerarie stanno perseguendo i loro interessi politici facendo tutto ciò che è necessario per spianare la strada per le loro strategie di investimento -spiegano i ricercatori-. Questo include negare alle comunità coinvolte e ai lavoratori l’essere titolari di diritti fondamentali, trasformandoli in semplici ‘portatori di interessi’. E poi attraverso gli Isds contestare ogni regolamento che possa ostacolare i loro profitti”.
Per Mads Barbesgaard e Andy Whitmore, i ricercatori del Tni che hanno curato il rapporto, serve resistere a questa “sofisticata battaglia delle pubbliche relazioni portata avanti dal settore minerario che, in nome delle nuove necessità legate alla transizione energetica, rende vulnerabile ogni accusa e messa in discussione dell’attività estrattiva etichettandola come contraria alle soluzioni per il cambiamento climatico”. Partendo, innanzitutto, dallo svelare la “distanza tra la retorica delle aziende e le loro azioni nei siti minerari”.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 27 giugno 2022