L’aumento del prezzo della benzina colpisce in modo indiscriminato i ricchi e i poveri, colpendo nello stesso modo chi riempie il serbatoio di una utilitaria e chi fa il pieno al Suv. Quando parliamo della necessità di una transizione ecologica equa, appellandoci al principio di giustizia climatica, evidenziamo al contrario la necessità di politiche diversificate.
La transizione ecologica (a maggior ragione nel settore della mobilità) deve essere guidata attentamente dallo Stato per far sì che riduca le diseguaglianze, invece di aumentarle. In questo caso vediamo invece che il governo utilizza la strategia opposta: evita di intervenire in qualunque modo e si aggrappa alla risibile mossa dell’esposizione dei cartelloni con i prezzi medi, la quale – come era ampiamente prevedibile – non ha sortito alcun effetto.
Così facendo, la stretta imposta dall’Opec si scarica direttamente sulle tasche dei consumatori.
Dal punto di vista climatico, a primo acchito potrebbe sembrare che l’aumento dei prezzi della benzina favorisca una riduzione del suo utilizzo e di conseguenza delle emissioni di Co2. In realtà questa relazione non è sempre valida: uno studio del Dipartimento dell’energia statunitense ha rilevato che gli aumenti improvvisi del prezzo della benzina non comportano una riduzione del suo impiego, se non marginale. Nel 2015, in particolare, un rincaro del 30% del costo del combustibile ha causato una riduzione dei chilometri percorsi in auto solamente del 3%. Questo perché, nel breve periodo, la domanda di benzina è quasi anelastica.
Una strategia che miri a rendere sostenibile la mobilità in una prospettiva di equità e giustizia climatica, invece, dovrebbe mirare prima di tutto a soluzioni che penalizzino chi inquina di più. L’esperto di climate policy del Fondo monetario internazionale Ian Perry, che ha a lungo studiato le esternalità dei carburanti, ne evidenzia tre: innanzitutto una maggiore tassazione sui veicoli più inquinanti, in particolare i Suv, le cui emissioni continuano a crescere vertiginosamente. Basti pensare che, se fossero una nazione, sarebbero il sesto paese più inquinante al mondo. In secondo luogo, è utile puntare sulle congestion charges, sul modello di quella londinese. Infine, è fondamentale fornire un’alternativa all’automobile: una rete di trasporti pubblici rapida e capillare.
Ma proprio sui trasporti pubblici il governo – nella persona del ministro delle infrastrutture Matteo Salvini – ha adottato una strategia scellerata. Negli stessi giorni in cui si verificano i rincari, il Mit decide di tagliare i finanziamenti alle linee ferroviarie del Sud Italia, come la Lamezia Terme-Catanzaro e la Sibari-Porto Salvo. I finanziamenti da 2,5 miliardi di euro destinati a queste ed altre linee del Meridione verranno destinati invece a collegamenti infrastrutturali al Nord. Ovviamente, una nota del ministero smentisce le critiche affermando che il ministro Salvini resta determinato a investire sul Mezzogiorno tramite la realizzazione del ponte sullo Stretto.
Il piano del governo Meloni-Salvini è chiaro: mentre si cancella il tetto agli stipendi dei manager della società che costruirà il ponte, i cittadini sono lasciati soli di fronte ai rincari dei carburanti, senza aiuti statali e senza investimenti sulle alternative all’auto. Una ricetta perfetta per aggravare i problemi ambientali e le disuguaglianze economiche del nostro Paese.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 18 agosto 2023