C’è in Italia un festival che merita un preambolo articolato, prima di entrare nel merito. Un festival unico. È il Cinema ritrovato, a Bologna, che comincia il 25 giugno. In questi giorni di prefestival i bolognesi hanno potuto già ammirare in piazza Maggiore quello che ormai è un classico visionario del cinema: I guerrieri della notte (1979) di Walter Hill, per giunta nella magnificenza del 4K. E anche a festival finito, le proiezioni in piazza proseguiranno per esempio con Il gigante (1956) di George Stevens (ma presentato in sala durante il festival), film mitizzato anche dall’interpretazione di James Dean, stella allora emergente, ma brutalmente precipitata.
Immaginate allora di essere tutti a Bologna per seguire il Cinema ritrovato, un festival cioè dedicato alla memoria del cinema fatto però vivere come se fosse l’attualità, un festival dove vengono dal mondo intero per seguirlo, compresi grandi giornali come Le Monde. Un festival peraltro curato dalla Cineteca di Bologna che da tempo realizza restauri importanti di titoli appartenenti alle cinematografie di tutte le latitudini con commissioni dal mondo intero (e che ha al suo attivo un importante catalogo di dvd). Qui si viaggia infatti nel tempo ma anche nello spazio. Non ci sono solo i classici del cinema italiano, europeo e hollywoodiano ma del mondo tutto, compreso il cinema “altro”.
Un cinema fuori da ogni format e accademismo: sia quello espresso dalle cinematografie dei paesi ricchi, sia quello delle cinematografie lontane che oggi ancora in Italia sono troppo lontane rispetto a quanto avviene in altri paesi. Il tutto in un’atmosfera magica e conviviale che si vive passando dalle sale della Cineteca a quelle dei cinema Arlecchino, Europa, Jolly e che trova il suo culmine ogni sera in piazza Maggiore a cui si aggiungono bar e ristoranti più o meno limitrofi a far da buon “companatico” al piatto principale: il cinema. Qui in tutto il suo splendore del passato che, come una gemma preziosa, irradia quello del presente conferendogli una nuova luce.
Considerato tutto questo, è allora inevitabile la domanda sul perché un festival del genere e un’istituzione come la Cineteca di Bologna non siano molto più valorizzati e conosciuti rispetto a quanto si farebbe in altri paesi. Forse perché siamo in Italia, un paese dove si manca di un’ambizione ragionata e pianificata e che quando ha dei fiori all’occhiello, e ne ha più d’uno in vari campi, paradossalmente non li valorizza come dovrebbe perché incapace di inglobarli in un progetto d’insieme. Eppure il nostro non è un paese dalla storia culturale qualsiasi: il cinema italiano ha illuminato le arti della seconda parte del novecento, non solo il cinema stesso.
Ma il pubblico crescente del Cinema ritrovato sembra indicare un nuovo desiderio: il bisogno di riappropriarsi di una memoria culturale che aveva al suo centro una grande potenza visiva, di regia e fotografia. Un bisogno che si fa evidente anche in una città come Roma, per limitarsi alla capitale, dove non manca l’interesse per i classici come hanno dimostrato in piena pandemia le file per sale come il Quattro Fontane o il Nuovo Sacher per iniziative dedicate al cinema del passato, anche recente.
Rivedersi a Cannes sul grande schermo, come accaduto anni fa, Scarpette rosse (1948) di Michael Powell ed Emeric Pressburger restaurato, presente Martin Scorsese, significa entrare in un mondo ipnotico e a multistrati che ci parrebbe quasi sperimentazione alla David Lynch, se ci fosse oggi nel cinema di genere qualcosa di comparabile. Un film fiammeggiante e sontuoso come Scarpette rosse è l’esempio di un tipo di visione che ci riporta tutti in comunione sul grande schermo per qualcosa di “grande” inteso nel suo senso più alto, disintossicandoci dall’omologazione provocata dalle piattaforme del piccolo schermo come dalle regole codificate delle serie tv. Serie che portano indubitabilmente nuova linfa alla dimensione più strettamente narrativa, ma in cui, purtroppo, il regista perlopiù scompare, la potenza visiva si fa rara – a meno che a firmarle non siano autori importanti provenienti dal grande schermo – proprio perché la figura del regista, cioè un talento che sovrasta gli altri talenti dirigendoli, viene meno, essendo produzioni tendenzialmente fondate sulla sceneggiatura.
Ci vorrà su questo un ampio e intenso dibattito. In attesa di un’auspicata unione tra il fratello minore – le serie su piccolo schermo – e il fratello maggiore – il cinema su grande schermo – che potrebbe dare grandi frutti per entrambi, considerato tutto quanto detto finora si può cogliere meglio l’importanza e la necessità di questa trentaseiesima edizione del Cinema ritrovato. Cosa ci offre allora quest’anno la manifestazione diretta da Gian Luca Farinelli per la comunione su grande schermo?
Certamente la forte quota di lungometraggi restaurati è la prima attrattiva. Tra questi, i titoli del cinema classico hollywoodiano dell’epoca d’oro, degli anni cinquanta per l’esattezza: opere come Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen, film che anche da restaurato sta facendo parlare molto di sé, o ancora come Le foglie al vento (1956) di Douglas Sirk, grande regista tedesco fuggito dalla barbarie nazista che con i suoi melodrammi ha riletto le frustrazioni puritane dell’America di quegli anni, e il già citato Il gigante; ma è di quegli anni anche un classico della fantascienza come Gli invasori spaziali (1953) diretto dallo scenografo William Cameron Menzies: un film dalle notevoli atmosfere e suggestioni visive pensato per il 3d, realizzato con pochi mezzi e rovinato nella versione italiana dell’epoca che qui sarà possibile vedere su grande schermo e con i colori restaurati; ma anche il cinema revisionista e disincantato della seconda metà anni sessanta e settanta avrà il suo posto con il western Non predicare, spara (1972) di Sidney Poitier, dove i neri e gli indiani sono alleati contro i bianchi; o quello sempre anticonformista prima del riflusso dilagante degli anni ottanta di The Blues brothers (1980) di John Landis, strepitoso carnevale anarcoide con i grandi delle musica nera, rimasto celebre anche per il fatto di essere molto ostile “ai nazisti dell’Illinois” e qui riproposto in versione integrale; oppure ancora Driver, l’imprendibile (1978) di Walter Hill, un road movie spettacolare e sperimentale al contempo.
Un’opera di svolta della cinematografia non solo francese è poi Maman la putain (1973) di Jean Eustache, tornata ora restaurata nelle sale transalpine; e ancora Ludwig (1973) di Luchino Visconti, film monumentale che all’epoca fu massacrato dai produttori; ma è anche l’occasione per scoprire il cinema potente della moldava, naturalizzata ucraina, Kira Muratova, in Italia mai uscita in sala (anche se i suoi lungometraggi sono stati proposti più volte da Fuori orario), nemmeno con il suo Sindrome astenica (1989) che vinse nel 1990 il Premio speciale della giuria del festival di Berlino. Di questa grande regista, fotografa implacabile dei paradossi dell’ex Urss, sono presentati restaurati due dei primi film, Brevi incontri (1967) e Lunghi addii (1971).
Ma la (ri)scoperta di rari lungometraggi restaurati firmati da registe continua per esempio con il film storico, al quale si sovrappone il ritratto al femminile, Avskedet (1982): prodotto da Ingmar Bergman, diretto dalla finlandese Tuija- Maija Niskanen e scritto da due donne, ci porta diritti alla sezione Cinemalibero, che tra i tanti magnifici titoli delle cinematografie lontane che trattano tematiche scottanti, ci offre per esempio la possibilità di scoprire film come Canoa (1976) di Felipe Cazals, storia vera ambientata nel clima repressivo del Messico del 1968. Ma sono moltissime altre le pepite lasciate al piacere della scoperta scorrendo il dettagliato programma delle molte sezioni, pepite che cercheremo di dettagliare in una prossima cronaca dal festival.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 23 giugno 2022