In genere un nuovo governo dopo aver vinto le elezioni, specie se si tratta di una vittoria non di continuità ma di rottura, fruisce almeno dei primi cento giorni come di una sorta di luna di miele.
Per Gabriel Boric, il giovane presidente cileno, nessun periodo di grazia, nessuna luna di miele. Eletto in dicembre a capo di una coalizione di nuova e vecchia sinistra – Fronte Amplio, comunisti, ecologisti, socialisti, socialdemocratici – , in uno storico ballottaggio contro l’ultrareazionario José Antonio Kast, l’ex leader studentesco è entrato in carica l’11 marzo con un alto indice di gradimento e alte aspettative. Probabilmente troppo alte. Sta di fatto che già nel giro del primo mese dall’assunzione del mandato gli indici di gradimento si sono invertiti: disapprovazione al 51%.
Boric in qualche misura se lo aspettava e aveva parlato del “decollo turbolento” che aspettava il suo governo, fatto di giovani senza troppa esperienza politica (scelti d’altra parte anche per questo), scontando probabilmente errori e ingenuità come quelli (purtroppo) della star della campagna elettorale, la giovane Izkia Siches, nominata ministra degli Interni, che ne hanno fatto il bersaglio preferito dell’opposizione e della stampa di destra ( in Cile praticamente tutta).
Il “decollo turbolento” Boric se lo aspettava non solo per le difficoltà soggettive di una compagine forse un po’ naiv ma anche per le ragioni oggettive note a tutti. Un anno di bassa crescita economica e alta inflazione (almeno rispetto agli standard cileni: 7.2% nel 2021, 9.4% atteso nel 2022), effetto in gran parte della pandemia. Il complicato e a volte confuso avvio dei lavori della Costituente, divenuta anch’essa il bersaglio di un incessante attacco della destra che per la prima volta ha cavalcato il fantasma di una vittoria del no al referendum finale fissato per il 4 settembre (sarebbe un autentico disastro, una sorta di vittoria postuma di quell’infamia che fu il regime di Pinochet). Infine l’eredità lasciata dal presidente Piñera: la crisi umanitaria nel nord del Cile con migliaia di immigranti clandestini in fuga dal Venezuela; la scalata di violenza nel sud dove sembra non esserci soluzione alle tensioni fra la polizia, l’industria estrattivista forestale e le comunità mapuche.
Boric tenta di stabilizzare le turbolenze di questi suoi primi mesi alla Moneda. Ma non è facile perché il sistema pinochettista era scientificamente perverso e complicato da smantellare. Ne sono l’emblema le AFP. Le Administradoras de Fondos de Pensiones, la privatizzazione dei fondi pensione inventata dal fratello di Sebastián Piñera, José, quando era ministro di Pinochet, sono un autentica associazione a delinquere: elargiscono pensioni sovente inferiori al salario minimo a fronte di astronomici profitti del 15-20-25%. Non è certamente un caso se il sistema delle AFP fu imposto a tutti ma fu rifiutato dai militari.
Fino a che Boric non abolirà un sistema tributario regressivo innalzando un carico fiscale e una progressività fra i più bassi al mondo, i soldi per le riforme vere non basteranno mai nonostante il boom del rame come nel 2021. In aprile Boric ha alzato il salario minimo per cercare di contrastare l’inflazione: 380.000 pesos (450 dollari) dal 1 maggio, 400.000 pesos (472 dollari) dal 1 agosto. Ma è sempre troppo poco.
Adesso viene il momento della nuova costituzione. La bozza finale è pronta da aprile e il testo definitivo lo sarà in luglio. Poi il 4 settembre, in omaggio a Salvador Allende che fu eletto il 4 settembre 1970, la parola decisiva sul nuovo testo. La prima riga recita: “Il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto, E’ plurinazionale, interculturale ed ecologico”. Sulla nuova costituzione che cancella finalmente gli orrori di Pinochet e del pinochettismo, Gabriel Boric si gioca tutto.