“Ma lei preferisce la pace o il condizionatore acceso? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre”, rispose il presidente Draghi alla giornalista nella conferenza stampa del 6 aprile, dis/velando così ciò che sapevamo già: stiamo inviando montagne di armi al governo ucraino, assistendo agli orrori senza fine che prolungano la guerra – in un’escalation dagli esiti incontrollabili, anche potenzialmente nucleari – per preservarci dai sacrifici derivanti dalla rinuncia al gas russo. Eppure la nostra rinuncia a quelle forniture di gas – che rappresentano circa il 38% del gas complessivo importato dal nostro Paese, al costo di un miliardo di euro al giorno – per quanto particolarmente impegnativa per il nostro assetto economico, non solo potrebbe contribuire in maniera significativa al depotenziamento della guerra – come sottolineano anche nel loro appello Nadia Urbinati e Roberto Esposito (Domani, 9 aprile 2022) – ma si iscriverebbe anche all’interno di una modalità nonviolenta di gestione del conflitto. Fornendoci, al contempo, l’opportunità di accelerare la necessaria conversione ecologica dell’economia. Continuare ad inviare armi agli ucraini – invece – è funzionale al potenziamento della guerra, che prolunga la sofferenza degli ucraini, promuove l’escalation – fino alla possibilità del nucleare – alimenta l’industria bellica. Rinunciare al gas russo sottrae comburente all’incendio, inviare armi getta combustibile sul fuoco. Entrambe le azioni sono di fatto partecipazioni al conflitto bellico, ma la prima avverrebbe attraverso un nostro sacrificio, la seconda avviene attraverso quello ben più tragico degli ucraini. Ed anche dei ragazzini russi spediti nell’orrore.
Per comprendere pienamente il valore di questa scelta – rinunciare al gas, anziché inviare armi – è necessario uscire dall’implicito culturale della violenza, che ha militarizzato le menti dei decisori e di molti opinion maker, il quale non prevede altro che il paradigma armato di gestione dei conflitti, sia in generale (“la guerra come continuazione della politica con altri mezzi”, teorizzava Carl von Clausewitz), che di questo in particolare – l’unico paradigma sempre preparato, finanziato, organizzato, con la produzione delle armi, la costruzione degli eserciti, le alleanze militari – ed entrare nella logica opposta, nel paradigma differente, quello della gestione nonviolenta dei conflitti. Recuperando a questo scopo – per una volta in maniera opportuna, anziché strumentale – l’insegnamento gandhiano. Giuliano Pontara, uno dei maggiori studiosi internazionali della lotta nonviolenta di Mohandas K. Gandhi, nel saggio introduttivo al volume di scritti gandhiani “Teoria e pratica della nonviolenza” (1973) riassume così i sei principi di lotta nonviolenta all’interno di un conflitto con avversari violenti: non usare o minacciare violenza nei confronti degli avversari; attenersi in ogni fase del conflitto alla verità; disponibilità ai massimi sacrifici per la realizzazione degli obiettivi che si ritiene essenziali; costante attuazione di un programma costruttivo; disponibilità al compromesso sugli obiettivi non considerati essenziali; astensione dal ricorrere subito alle forme più radicali di lotta (nonviolenta). Naturalmente Gandhi non era un filosofo che scriveva sistemi a tavolino, ma uno sperimentatore pratico ed un leader politico, che ha costruito il metodo nonviolento (satyagraha, fermezza nella verità) all’interno del conflitto, provocato ed agito, contro l’apartheid sudafricano prima e contro l’imperialismo britannico dopo. Non un imperialismo gentile, sia detto per inciso, ma capace di massacri come quello di Amritsar, del 13 aprile 1919, quando le truppe britanniche uccisero a sangue freddo 379 indiani, ferendone 1.200.
Potremmo analizzare uno per uno i principi del conflitto nonviolento per vederne l’applicabilità nella situazione attuale nel cuore dell’Europa ma, in questa sede, ci concentriamo sul tema della disponibilità al sacrificio per la realizzazione degli obiettivi che si ritiene necessari: se cessare il fuoco, risparmiare lo spargimento di altro sangue a cominciare da quello ucraino, evitare altri orrori che questa come ogni guerra porta con sé, giungere ad una mediazione prima e ad una pace dopo, sono valori e quindi obiettivi necessari, questi non possono essere raggiunti che con mezzi coerenti con i fini. Ossia non inviando altre armi all’Ucraina (dopo averle vendute per anni alla Russia, ndr) che allontanano quegli obiettivi aprendo scenari apocalittici, ma assumendo su di sé – come Paese e come Unione europea – l’onere di un preciso sacrificio, quello di rinunciare al gas russo e tagliare di conseguenza il flusso di denaro che finanzia la costosissima occupazione militare. Si tratta di interrompere un circuito bellico che si avvia perversamente su se stesso. Di non alimentare la guerra, ma di indebolirla, sostenendo – contemporaneamente – non gli oltranzisti ma gli obiettori di coscienza, i nonviolenti, i pacifisti, presenti in entrambi gli schieramenti. Ossia coloro che, disertando la logica di guerra, sono i veri costruttori di pace.
Naturalmente, questa scelta di rinuncia al gas russo implicherebbe l’impegnarsi non in una distribuzione a pioggia dei costi dell’energia residua – facendo pagare ancora di più chi già sta pagando il prezzo di questa crisi sistemica globale, di cui crisi ambientale, energetica, pandemica e bellica sono facce di uno stesso prisma – ma una repentina, e in ogni caso improcastinabile, conversione ecologica dell’economia. E’ l’occasione, per quanto grave e dolorosa, che non abbiamo saputo cogliere con la pandemia, di trasformare la crisi in opportunità, salvando vite umane, contribuendo a salvare il pianeta, redistribuendo le risorse risparmiate dall’acquisto di armi e di combustibili fossili sia in diritti sociali che in fonti energetiche pulite. Del resto il rapporto tra nonviolenza ed ecologia, tra gestione positiva dei conflitti e sostenibilità ambientale, tra limiti da porre alla violenza sugli umani e sulla natura, è strutturale, come ricordava instancabilmente il troppo presto dimenticato Giovanni Salio, fisico nonviolento: “Così come si propone un modello di difesa e di risoluzione dei conflitti ispirato alla difesa difensiva, non offensiva, non provocatoria, che ponga un limite superiore alla follia della corsa agli armamenti e alla capacità distruttiva dei sistemi d’arma, si propone anche un modello di sviluppo sostenibile rispetto al futuro, nei confronti sia delle generazioni che verranno sia della capacità di autorigenerazione dei sistemi” (Il potere della nonviolenza, 1995). Questo è il momento di agire, prima che la catastrofe bellica e quella ambientale mettano fine a qualunque possibilità di azione ulteriore. Il problema non è il condizionatore acceso o meno, ma il futuro di tutti. O meno.
Questo articolo è stato pubblicato sul blog di Pasquale Pugliese l’11 aprile 2022