Le grandi impotenze

di Luigi De Biase /
23 Febbraio 2022 /

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Ventiquattro ore dopo l’iniziativa unilaterale con cui ha riconosciuto l’indipendenza di Donetsk e di Lugansk, il capo del Cremlino, Vladimir Putin, è tornato a parlare per dire che gli accordi di Minsk «ora non esistono più».

Con quelli sono scomparse anche le ultime e vaghe possibilità di raggiungere una intesa sul piano diplomatico affinché il governo di Kiev ottenesse indietro almeno formalmente un territorio che già da otto anni dipende nei fatti da Mosca sul piano economico e militare.

IL SOLCO È PROFONDO, più di quanto la risposta blanda dell’Europa racconti. L’Ucraina valuta la possibilità di chiudere tutti i canali di comunicazione. «Ho ricevuto una richiesta dal nostro ministero degli Esteri: la valuterò nelle prossime ore», ha detto il presidente, Volodymyr Zelensky, ricevendo il collega estone, Alar Karis.

I russi hanno già evacuato il loro personale diplomatico da Kiev nel timore di ritorsioni. E hanno espresso con toni se possibile più cupi rispetto a quelli usati lunedì le loro perplessità sull’esistenza stessa dello stato ucraino. Putin non ha ribadito semplicemente la proposta di una moratoria sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato.

Si è spinto oltre. Ha proposto la completa demilitarizzazione del paese. «La possibilità che ottengano armi tattiche nucleari costituisce una minaccia strategica per noi». Dopodiché ha chiesto e ottenuto dalla Duma e Consiglio federale l’autorizzazione necessaria per impiegare all’estero le truppe. «L’ingresso dell’esercito in Ucraina», ha detto, «dipenderà dalla situazione sul terreno».

SONO POSIZIONI POLITICHE molto simili a quelle elaborate dal circolo del quotidiano Zavtra, che negli anni Novanta ha fornito una nuova base identitaria al Partito comunista (Kprf). Non a caso sono stati proprio i comunisti a presentare alla Duma l’istanza di riconoscimento di Donetsk e Lugansk su cui Putin si è espresso.

L’approccio comprende tesi nazionaliste, riferimenti alla dottrina imperiale e una decisa spinta verso i rapporti con l’oriente. La revisione, lunedì notte, del processo con cui lo stato Ucraino è stato costruito, dalla Rivoluzione del 1917 alla fine dell’Urss, rappresenta un passaggio di cui tenere conto nell’evoluzione teorica, se così si può chiamare, che Putin ha compiuto da quando siede al Cremlino. Così come la critica a Lenin, Stalin e Krushchev. In uno slancio ulteriore, Putin ha anche smentito di voler ricostruire «i confini dell’Impero russo». Sin qui si era parlato «semplicemente» di Unione sovietica.

SALTATA almeno per il momento l’ipotesi di un incontro con il presidente americano, Joe Biden, e azzerati i colloqui con i leader europei, l’establishment putiniano si ritrova oggi interamente rivolto al Donbass. Tutto pare legato ai confini che le autorità russe, dalla Duma ai ministeri pesanti come Esteri e Difesa sino Cremlino, intendono attribuire alle città ribelli di Donetsk e Lugansk. Ognuno ha le sue priorità.

Il capo della diplomazia, Sergei Lavrov, ha detto ieri che la Russia intende riconoscere i «confini attuali» della due repubbliche. Questo, a rigor di logica, pone il limite al fronte dei combattimenti. Putin ha aggiunto poche ore più tardi che la sovranità dei separatisti riguarda «l’insieme delle regioni». Insomma, la questione è aperta. Ed è decisiva.

Perché Donetsk e Lugansk reclamano un territorio più vasto rispetto a quello che si trova sotto il loro controllo. Il territorio comprende anche Maryupol, mezzo milioni di abitanti sulle coste del Mare d’Azov, un porto strategico e un’autostrada, la M14, stesa come un tappeto lungo la costa meridionale dell’Ucraina e lungo l’intero confine con la Crimea. L’importanza di Maryupol è chiara a tutti.

PER I RUSSI VEDERLA INTEGRATA a Donetsk sarebbe un clamoroso successo. Per gli ucraini la stessa ipotesi avrebbe effetti disastrosi. La città è da mesi al centro di tensioni, come dimostra il blocco navale che i russi hanno interrotto soltanto la scorsa settimana. Anche per questo negli ultimi anni l’Ucraina ha concentrato in questo angolo all’estremo sud una parte significativa del suo esercito. Qui, non a caso, fanno base i battaglioni di volontari ceceni integrati nelle forze armate.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 23 febbraio 2022

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