Oggi, nel 1848, usciva il Manifesto del partito comunista. Viviamo in un’epoca che sembra aver divorato la possibilità stessa di immaginare il futuro. Ma Marx ed Engels ci dicono che il futuro è già qui, nelle cose presenti
Il Manifesto del partito comunista fu originariamente scritto in inglese col titolo The Communist Manifesto, e pubblicato per distribuzione privata nel febbraio 1848 dallo stampatore J.E. Burghard in Liverpool Street, a Londra, che stampava anche la Deutsche Londoner Zeitung, la rivista sulla quale il Manifesto uscì a puntate tra marzo e luglio 1848. Il pamphlet ebbe un’immediata diffusione clandestina e cadde nell’oblio con la fine del biennio rivoluzionario, fino a quando non venne citato nel corso del processo ai socialisti tedeschi August Bebel e Wilhelm Liebknecht nel 1872.
Il Manifesto non ci propone di immaginare il futuro. Marx ed Engels ci dicono che il futuro è nelle cose, per questo è razionale desiderarlo. Il dualismo presente/futuro non ha dunque senso. Se ragionassimo secondo questa cesura saremmo condannati o a desiderare l’impossibile o a subire la maledizione di Adamo e accettare la sofferenza e la povertà come punizione divina. Il Manifesto ci dice che noi ci diamo i compiti che possiamo risolvere. «Noi», non come singoli o un aggregato di individui, ma come classe determinata da un processo economico.
Il Manifesto è uno straordinario documento di attivismo politico necessitato ed entusiastico. Così venne inteso dagli ammiratori e dai critici. «La data memorabile della pubblicazione del Manifesto dei comunisti (febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella storia», scriveva il filosofo materialista Antonio Labriola nel 1895; «A quella data si misura il corso della nuova èra, la quale sboccia e sorge, anzi si sprigiona e sviluppa dall’èra presente, per formazione a questa stessa intima ed immanente, e perciò in modo necessario e ineluttabile» (Antonio Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), in Id. Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi 1973). Per Labriola, era chiara la scansione della temporalità del comunismo: era sbocciato in un presente determinato da un passato gravido di futuro. La storia non fa salti: è determinazione necessaria e per questo capace di infondere la certezza nell’azione politica, la fiducia che sacrifici, lotte e repressioni non saranno vani, scriveva Carlo Rosselli in Socialismo liberale (1930).
Karl Marx e Friedrich Engels composero il Manifesto nel dicembre del 1847; l’uno aveva ventinove anni, l’altro ventisette. L’Europa (e, attraverso l’Europa, il mondo) era il loro orizzonte – un teatro di moti rivoluzionari contro gli imperi, le dominazioni monarchiche, i governi timidamente liberali e senza infingimenti al servizio di una classe sociale, quella borghese. L’esperienza rivoluzionaria internazionale tra il 1847 e il 1849 era animata da repubblicani, socialisti, democratici, anarchici e comunisti, tutti mobilitati con l’obiettivo di sollevare i popoli contro l’oppressione politica, economica e sociale. Giuseppe Mazzini e Louis Blanc, Pierre-Joseph Proudhon e Michail Bakunin erano protagonisti altrettanto importanti in quel biennio di lotte democratiche finito con repressioni sanguinose come quella della Repubblica romana (1849), e infine con la dittatura di Napoleone III (1851).
Questo epilogo cambiò l’attitudine di Marx nei confronti del ruolo dell’azione politica. Come erano giunti Marx ed Engels al comunismo? Engels si dichiarò comunista alla fine del 1842; Marx pochi mesi dopo. In Germania, dove allora vivevano, non erano i primi. E neppure fuori dalla Germania. L’Illuminismo settecentesco aveva sedimentato idee di progresso in tutti i paesi e in vari ambienti culturali. L’utilitarismo di Jeremy Bentham (certo non socialista) aveva fatto da ponte tra il materialismo francese (di d’Holbach e Helvétius, di Morelly e Mably) e l’utopismo inglese – le idee di William Godwin, Robert Owen e William Thompson erano molto familiari tra radicali e socialisti quando Marx emigrò a Londra nel 1849. Importanti erano inoltre i teorici settecenteschi dell’antropologia materialista (Bernard de Mandeville) ed economica (Adam Smith). Cruciale sopra tutti il ruolo di Jean-Jacques Rousseau, il quale, benché non socialista, aveva contribuito a sedimentare la consapevolezza di un legame non casuale tra ordine sociale e ordine politico. A Rousseau si rifecero i protocomunisti François-Noël Babeuf e Filippo Buonarroti, protagonisti della fallita Cospirazione degli eguali (1796) che ispirò il cospirativismo rivoluzionario di Louis-Auguste Blanqui contro il regno di Louis Philippe (1830-1848) e la Lega dei giusti, fondata negli anni Trenta, alla quale aderirono gli esuli tedeschi a Parigi (anche Marx) e dalla quale nacque nel giugno 1847 a Londra la Lega dei comunisti, frutto di alcuni anni di coordinamento tra movimenti rivoluzionari inglesi e continentali, tra i quali l’Association démocratique di Bruxelles di cui Marx aveva fatto parte.
La Lega dei comunisti commissionò a Marx ed Engels la stesura di un manifesto. A quel tempo, i due amici si consideravano democratici radicali e sostenevano tutti i movimenti di emancipazione politica (per esempio quello dei cartisti). Il radicalismo democratico era stato del resto il capo d’accusa del governo prussiano contro Marx nel 1843 per la sua collaborazione alla rivista Rheinische Zeitung: le sue «opinioni ultrademocratiche sono in totale contrasto con i principi dello Stato prussiano» si legge nell’atto di censura (Frantz Mehring, Karl Marx: The Story of His Life, Londra 1936). Nel Manifesto, le idee dei rivoluzionari settecenteschi sono un capitolo del passato e così pure il metodo della cospirazione. Il «partito» designa un’attività politica condotta alla luce del sole, fondata su ragioni capaci di muovere le passioni e agitare l’opinione pubblica. La dialettica hegeliana che Marx impianta sull’interpretazione materialistica della storia fa del comunismo un esito al quale non c’è scampo. Il suo «spettro» è indicativo di una realtà che non si può né negare né sfuggire e che tormenterà il capitalismo fino alla fine dei suoi giorni.
Il Manifesto connette l’interpretazione scientifica della storia della società a obiettivi politici rivoluzionari con anche proposte sulle misure da adottare nel caso di un successo del movimento rivoluzionario – molte delle quali a tutti gli effetti liberali e democratiche. Motiva la fiducia in una direzione collettiva dell’azione politica orientata verso un obiettivo a medio termine (dittatura del proletariato) e un obiettivo a lungo termine (superamento dello Stato e autogoverno comunista). Il partito ha una classe di riferimento, quella proletaria, ma un fine di emancipazione che la trascende: la realizzazione individuale. Di questa classe Marx ed Engels descrivono con un ritmo cadenzato e uno stile narrativo avvincente le condizioni uniche e rivoluzionarie. Gli argomenti sono provati mediante la concezione materialistica della storia che dimostra le ragioni per le quali quella proletaria è la sola e unica classe compiutamente rivoluzionaria. La classe antagonista, la borghesia (generatrice del modello economico capitalistico), è anch’essa rivoluzionaria, in quanto produttrice di una cultura, una tecnologia e relazioni civili e politiche che hanno rivoluzionato in pochi decenni le società, sotterrato tradizioni ataviche oppressive, credenze religiose e gerarchie castali, cambiato il modo di essere degli Stati e immesso l’umanità in un moto globale unitario. Ma la borghesia è rivoluzionaria nell’intento di soddisfare i propri interessi; lo è nel mentre assoggetta economicamente coloro che costituzioni scritte dichiarano liberi e uguali nel diritto. Il proletariato è generato dalla rivoluzione borghese, unificato nelle sue componenti da una condizione di assoluta subordinazione, a causa non di un volere malevolo o della scelta dei singoli industriali, ma del sistema economico di produzione capitalistica che impone la sua logica a tutti indistintamente, padroni e proletari.
Il capitalismo non è giudicabile dal punto di vista morale o secondo principi di imparzialità e giustizia. È un sistema coerente nella sua logica di accumulazione e di sfruttamento e, pertanto, non può essere reso giusto. L’essere uniti dalla condizione salariata e dalla necessità di lavorare senza dirigere il proprio lavoro fa dei proletari la sola classe che ha una funzione universale di emancipazione e di giustizia sulla quale, per giunta, l’intero sistema capitalista si regge. Una classe che non ha nulla da perdere e nulla da proteggere, e alla fine libererà tutti, anche i borghesi, dal giogo della legge ferrea dell’accumulazione capitalistica.
Il Manifesto ci consegna due futuri: nel primo capitolo, quello della lotta tra borghesi e proletari che denota l’età del capitalismo imperante; nel secondo, quello della lotta proletaria rivoluzionaria per il comunismo. Di questi due futuri, il primo corrisponde al nostro presente. La globalizzazione capitalistica è il nostro presente; un presente così lungo da aver minato l’idea stessa del secondo futuro, quello della trasformazione. Viviamo come in un presente eternizzato che ripete sé stesso con crescente velocità. È questo a cui implicitamente ci riferiamo quando parliamo oggi di «pensiero unico» di «presentismo», di «fine della storia». La dilatazione del presente capitalistico è quel che del Manifesto oggi abbiamo: un capitolo della trasformazione globale del sistema che sembra aver divorato il futuro.
Il capitalismo globale trionfante che dà al mondo un’unica lingua, un’unica cultura morale ed estetica, che sposta persone e cose annullando il significato e la razionalità dei confini nazionali, delle tradizioni e della sovranità politica, ci mette davanti a un bivio, quello tra Mandeville e Marx. Per entrambi questi autori, la società civile è culla del progresso e dell’arricchimento sulla base della disuguaglianza; per entrambi, la cultura dei diritti ha essenzialmente solo la funzione di aprire enormi praterie all’incivilimento per mezzo dei «vizi privati».
Nella Favola delle api (1723) di Mandeville, la ricchezza nasce inevitabilmente dalla povertà, la prosperità dal lavoro salariato; il benessere delle nazioni è misurato dalla massa dei poveri laboriosi che faticano senza aspirare ad investire in bellezza e cultura, merci di lusso non a buon mercato. La civilizzazione per mezzo dello sfruttamento (come la religione) non serve altro che a lenire il senso disperante di non aver altro che la propria miseria. Cinica civilizzazione, che toglie il ricovero all’anima, squarcia il velo della divinità e lascia i milioni di Sisifo in perenne e fatale sottomissione a un immutato Prometeo, la tecnica e la scienza appunto, i mezzi di incivilimento attraverso l’oppressione dei molti.
Infatti, senza la certezza di un futuro contenuto nel ventre del presente, il presente diventa la nostra dannazione perché il capitalismo globale ci regala una sola speranza, quella di stare dalla parte giusta per fortuna, lotteria o caso. Il Manifesto getta discredito sulla fortuna, la lotteria e il caso. Propone un’alternativa a Mandeville. E infonde una granitica certezza: che avremo un futuro da umani. Per quali vie, in quali modi, con quali strumenti?
La sconfitta della rivoluzione per la quale il Manifesto fu scritto ha indotto Marx a dubitare dell’efficacia della lotta politica e della mobilitazione, ma non della direttrice della storia. Dopo quella sconfitta (e poi anche quella della Comune di Parigi nel 1871), la certezza del futuro avrebbe seguito un’altra via e avuto un prezzo alto: il futuro, negli scritti successivi di Marx, non sarebbe dipeso da una classe organizzata in partito politico rivoluzionario. Questa la prospettiva che ci resta in un presente che sembra eterizzare sé stesso: benché nessuna virtù politica potrà aprire le porte del futuro, ci dobbiamo convincere (Marx vuole che ci convinciamo) che non dobbiamo perciò disperare perché la storia non è comunque fatta di «torni e ritorni», come pensava Giambattista Vico. E sarà lei a decidere: sarà questo presente gravido di futuro nonostante tutto.
Nel nostro tempo che sembra aver eterizzato il primo capitolo del Manifesto abbiamo davanti a noi due opzioni, quella di Mandeville e quella di Marx: una storia di sfruttamento e di ricchezza che si ripete quasi sempre uguale perché l’antropologia non cambia; e una storia di sfruttamento e di ricchezza che non si ripete sempre uguale perché gli umani dopo tutto non possono evitare, come diceva Rousseau, di perfezionarsi e, così facendo, scompaginano la loro stessa antropologia e il corso delle cose, creano senza premeditazione crepe nel sistema. Dunque, pur senza determinare il corso del futuro secondo un disegno politico astratto, vale il detto per cui il diavolo si annida nei dettagli. Una sola scintilla può produrre grandi e diffusi incendi, si legge nel De rerum natura – un testo conosciuto e amato da Marx.
Questo articolo è stato publicato su Jacobin il 21 febbraio 2022