La vicenda giudiziaria relativa all’accusa di corruzione per un assessore del comune di Venezia, come quella che ha riguardato il presidente della regione Liguria, riporta in primo piano la corruzione come metodo di governo e di regolazione del mercato dipendente dal decisore politico. In genere gli studiosi distinguono la “piccola corruzione” dalla “grande corruzione”. Una cosa è, infatti, pagare per un certificato, per un’autorizzazione, per la pensione, per un posto di lavoro o l’esenzione dai ticket, e una cosa è accaparrarsi un grosso appalto di un’opera pubblica, le forniture di servizi esternalizzati, o la messa a profitto privato di beni pubblici in cambio di una tangente. I casi di Venezia e del porto di Genova appartengono al campo dei grandi affari privati favoriti da dazioni o altre utilità a favore di amministratori pubblici. Ma è la piccola corruzione ad essere più diffusa con una percezione molto più alta tra l’opinione pubblica, come ha rilevato l’Istat poche settimane fa. Almeno 1 milione e 200.000 famiglie italiane hanno subito richieste di denaro, di regali o di altri benefici per ottenere prestazioni, servizi, autorizzazioni o posti di lavoro. A un milione e 116.000 persone è stato offerto di comprare il loro voto in una elezione. L’8,3% della popolazione è venuto a conoscenza di un pagamento in cambio di un lavoro in un’azienda privata o nei concorsi pubblici. Quindi la piccola corruzione ha una base di massa in tutta la nazione.
La grande corruzione, invece, presenta un numero più limitato di persone coinvolte, quasi sempre imprenditori. Se nella piccola corruzione si ricevono somme tutto sommato esigue, nella grande corruzione se ne distribuiscono di cospicue tra molteplici soggetti in grado di favorire chi le elargisce. Saranno, infatti, queste risorse a consentire al politico di competere con successo nelle campagne elettorali o al funzionario pubblico di cambiare radicalmente tenore di vita.
Insomma, nella piccola corruzione il confine con la clientela politica e amministrativa è sottilissimo, quasi inesistente; la riconoscenza per il favore ottenuto viene monetizzata o ricambiata in voti, si riceve per favore ciò che si dovrebbe avere per diritto. Nella grande corruzione, invece, viene stipulato un vero e proprio contratto informale di affare e si riceve per elargizione quello che non si potrebbe avere se funzionasse seriamente la competizione di mercato. In linea di massima, la piccola corruzione ci parla della percezione diffidente del funzionamento dello Stato da parte dei suoi amministrati, la grande ci racconta del funzionamento malato del mercato.
Nella richiesta di un aiuto o di “spinta” in cambio di un obolo si manifesta una sfiducia rassegnata nelle amministrazioni pubbliche, nel diffuso convincimento che chi ricorre alla corruzione spicciola immagina che lo hanno già fatto tutti gli altri che si trovavano nelle medesime condizioni di bisogno. La piccola corruzione, così come la clientela, non sarebbe altro che una forma di riequilibrio o di pari opportunità rispetto a tutti gli altri competitori, una paradossale giustizia riparativa lesa dalla clientela e dalla corruzione altrui. Infatti, resta molto alto il numero di persone che ritiene giusto aver fatto ricorso a questi sistemi: ben otto milioni di italiani (sempre stima Istat) pensano che sia accettabile pagare per assicurare un’occupazione ai propri figli.
C’è un’espressione idiomatica che ho letto su di un giornale molisano che così sintetizza la spinta alla piccola corruzione: “Accanusce caccurunu?” (per caso, conosci qualcuno?) come se non avere una persona di potere tra le proprie conoscenze ti rendesse impotente nelle necessità della vita o nel rapporto con gli uffici che rappresentano lo Stato. Invece la grande corruzione potrebbe essere sintetizzata dall’espressione “quanto mi costa?”, attiene cioè a un calcolo economico, per il quale non è necessario conoscere qualcuno in generale ma esattamente quei funzionari e politici in grado di assicurarti qualcosa che non ti spetta se si dovessero rispettare le regole della competizione di mercato. In linea di massima, la piccola corruzione è una scorciatoia per diritti che vengono considerati favori, mentre nella grande corruzione non esiste nessun ipotetico diritto da ripristinare tramite la tangente.
La politica italiana si barcamena tra “conosci qualcuno” e il “quanto mi costa”. Sembra a volte che gli imprenditori che hanno rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione non siano in condizione di distinguere l’interesse civile e generale dal loro interesse personale e immediato. Come se già produrre, dare lavoro, far circolare ricchezza esonerasse di per sé l’impresa da qualsiasi ulteriore obbligo. La moralità sembra essere, in economia, incompatibile con il fare impresa. Una specie di assolutismo economico che si erge al di sopra e al di qua di qualsiasi vincolo morale, sociale e civile. Il biasimo per chi viene scoperto a corrompere non è per l’azione illegale in sé, ma per essersi fatto scoprire. Cosa si potrebbe fare? Basterebbe per i prossimi anni che in nessun concorso pubblico un raccomandato venisse assunto per riconquistare fiducia nell’universalità delle regole. Basterebbe che un imprenditore che ha pagato per vincere una gara non si potesse mai più presentare, sotto qualsiasi sigla, a nessun’altra successiva gara d’appalto. Rilegittimare il senso dello Stato spetta a chi lo Stato lo rappresenta; rilegittimare il valore competitivo del mercato spetta alle organizzazioni imprenditoriali che dovrebbero per prime sostenere (anche con apposita normativa) che chi gioca contro il mercato è di per sé fuori dal mercato.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 22 luglio 2024